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ANGOSCIA
Il concetto di angoscia è diventato uno dei più significativi concetti della filosofia contemporanea con le riflessioni di Soren Kierkegaard (Il concetto dell'angoscia) che lo considera sentimento fondamentale dell'esistenza nello stadio più elevato, quello religioso. L'angoscia deriva dalla condizione esistenziale stessa: l'esistenza è infatti possibilità indeterminata, 'nel possibile tutto è possibile', scelta necessaria il cui risultato non è garantito. Può essere superata solo attraverso il suicidio, la negazione di ogni possibilità che si apra all'uomo, o attraverso il paradosso della fede, l'abbandono totale dell'uomo a Dio, 'Colui al quale tutto è possibile', vivere in Dio, non solo porsi davanti a lui; la fede infatti implica la scelta di vivere fino in fondo la disperazione dell'esistenza che nasce dalla separazione fra il singolo e l'Assoluto.
Nel Novecento l'angoscia come sentimento fondamentale dell'esistenza è uno dei concetti cardine delle filosofie esistenzialiste.
Sartre considera l'esistenza come assoluta libertà di scelta; è questa libertà che genera l'angoscia: essendo il nulla la dimensione ineliminabile del mondo e dell'esistenza, la libertà di scelta deve essere angoscia: la scelta è progetto, essa proietta l'uomo nel futuro, in ciò che non è ancora e genera l'orrore dell'indeterminatezza che il nulla, il non-essere, porta con sé; il nulla così si rivela come il senso profondo dell'esistenza, è dentro l'uomo e non fuori; per questo motivo l'uomo è 'condannato a essere libero', cerca di trascendere l'esistenza, di 'fuggire' da se stesso e ricade necessariamente nel nulla.
Il concetto di angoscia è fondamentale anche nella psicanalisi: l'angoscia è quel sentimento doloroso connesso all'esistenza, che risale alla nascita, il momento 'nel quale si trovano riunite tutte le situazioni penose, tutte le tendenze e le situazioni corporee, il cui insieme è diventato il prototipo dell'effetto prodotto da un pericolo grave'; paura, timore e gli altri sentimenti simili sono diversi dall'angoscia perché sono circostanziati, hanno cioè un oggetto preciso di fronte. Non avendo un preciso oggetto su cui poggiare per uscire dallo stato doloroso che determina, è definibile come uno 'stato di impotenza' da quale l'Io e il Super-Io cercano di difendersi; da questa analisi (Cfr. Inibizione, sintomo e angoscia, 1926) Freud trova tre tipologie fondamentali di angoscia che si differenziano in base agli effetti che provocano sulla persona.
ALIENAZIONE
In alcuni filosofi medievali alienazione indica l'abbandonarsi dell'uomo a Dio.
Nella filosofia moderna acquista un significato del tutto diverso; Rousseau usa il termine per indicare il trasferimento dei diritti naturali dell'individuo alla società attraverso il contratto sociale.
Nella filosofia contemporanea il significato dominante è quello hegeliano di 'essere altro da sé'; indica il processo per il quale l'uomo perde ciò lo caratterizza, i prodotti della sua attività gli diventano estranei.
Feuerbach aveva abbandonato il significato speculativo hegeliano per considerare l'alienazione come creazione di Dio da parte dell'uomo che proietta in una visione sublime i propri bisogni nell'illusione di liberarsi dei problemi che la vita necessariamente porta con sé.
Legata alla visione della relazione fra uomo e merce nella società capitalistica è la lettura marxiana dove alienazione significa processo che porta l'uomo a perdere il proprio valore di persona e a ridursi a quello delle merci prodotte; l'alienazione dell'uomo nella società capitalistica può essere superata solo attraverso il riconoscimento del valore umano delle merci, dove quindi il possesso non sia l'unico rapporto fra l'uomo e gli oggetti che produce.
Nella filosofia del Novecento il concetto di alienazione è stato estremamente fecondo nel pensiero marxista e in quello esistenzialista. Nel pensiero di Giorgy Lukàcs alienazione è sinonimo di reificazione, il farsi cosa dell'uomo. Il valore del concetto di alienazione nella visione marxista è negato da Louis Althusser: egli vede in esso un residuo idealistico che impedisce l'analisi rigorosa dell'uomo come 'funzione' dei rapporti di produzione; nella visione di Althusser il marxismo è antiumanismo. Particolarmente significativo il concetto di alienazione si rivela nel pensiero esistenzialista. Sartre riprende il concetto hegeliano e intende alienazione come 'oggettivazione', come rapporto dell'uomo con le cose, rapporto che crea sempre uno stato di disagio e di infelicità. Questo carattere dell'alienazione è stato il motivo di fondo della concezione di Marcuse dell'uomo a una dimensione, la condizione per cui nella moderna società tecnologica l'uomo viene schiacciato dalla logica di una organizzazione sociale tollerante solo in apparenza; essa infatti è riuscita a integrare anche la classe operaia nella propria logica e la speranza di liberazione sta solo nella carica eversiva dei ceti emarginati e dei popoli colonizzati.
ARTE
In Platone il concetto rappresenta l'insieme delle regole che devono essere seguite per compiere nel modo migliore una qualsiasi attività; l'arte è genericamente tekné; arte è la poesia, la dialettica, la politica, la guerra, la medicina, la pesca, ecc. Seguendo questa concezione anche la scienza diventa arte: il conoscere è arte giudicativa e l'agire determinato dalla conoscenza è arte imperativa. L'arte non è espressione dell'esperienza estetica: il bello è espressione della presenza dell'idea nella natura, l'arte è solo imitazione della natura, di una copia dell'idea; per questo deve essere condannata, allontanando l'uomo dalla visione dell'idea.
Aristotele distingue l'arte dalla scienza; divide il sapere in scienze teoretiche, pratiche e poietiche, l'arte riguarda solo quest'ultimo campo: ciò che viene prodotto dall'attività dell'uomo appartiene all'arte, ciò che classifichiamo come scienza (la matematica, la logica, la fisica ecc.) non può essere definito arte. Dell'arte come esperienza estetica Aristotele tratta nella Poetica, di cui ci è rimasta solo la parte che tratta della tragedia. Anche secondo Aristotele l'arte è imitazione e la tragedia è l'espressione più elevata di arte; essa 'mediante casi di pietà o di terrore produce la purificazione delle passioni'. La funzione dell'arte è dunque positiva, rappresentando la realtà umana 'come potrebbe essere' e non come effettivamente è, educa alla conoscenza. A partire dal I secolo d.C. si afferma il concetto di 'arti liberali', le arti dell'uomo libero, in contrapposizione alle 'arti manuali', che contraddistinguono le classi inferiori per le quali il lavoro è necessità. Nove sono le arti liberali che Varrone elenca: grammatica, retorica, logica, aritmetica, geometria, astronomia, musica, architettura, medicina. Nel V secolo Marziano Capella riduce a sette le 'arti liberali' eliminando dall'elenco di Varrone l'architettura e la medicina perché non riguardano lo spirito; il nuovo modello di Capella, diviso nella arti del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica) diventa l'asse degli studi per tutto il medioevo.
Oggi il termine arte ha rimasto il significato di 'regole e procedure per svolgere un compito nel modo migliore' soprattutto nel linguaggio burocratico. Comunemente indica i prodotti delle arti figurative, della letteratura, del teatro, del cinema e fa riferimento alle teorie estetiche che riflettono i diversi concetti di 'bello' e di 'gusto'
Le moderne concezioni estetiche hanno la loro origine nella Critica del giudizio. Kant intende l'arte non come imitazione ma come attività creativa. Il bello è per Kant l'oggetto di un piacere libero da ogni interesse, un piacere universale che non ha la sua fonte nel concetto, manifesta una finalità senza suscitare la rappresentazione di uno scopo, viene riconosciuto come oggetto di un piacere necessario. Esso è suscitato dallo 'stato d'animo del libero gioco della fantasia e dell'intelletto' che nasce 'dall'accordo della libertà dell'immaginazione con la legalità dell'intelletto'.
Dall'elaborazione kantiana si sviluppa la concezione romantica dell'arte come creatività e conoscenza.
Per Schelling l'arte è il vero 'organo della filosofia' in quanto in essa sono tutt'uno l'attività inconscia e quella cosciente dell'intelletto e proprio per questa ragione è assolutamente libera. La creatività del Genio rappresenta la prosecuzione dell'attività creatrice dell'Assoluto.
Anche in Hegel l'arte è attività creativa e conoscitiva a un tempo e perciò manifestazione dello spirito assoluto; si differenzia dalla religione e dalla filosofia solo per il modo, maggiormente legato alla sensibilità, di rappresentare l'assoluto. La filosofia quindi rappresenta anche il superamento dell'arte, che è destinata alla morte.
Schopenhauer riprende la concezione platonica del bello come rivelatore dell'idea che si nasconde nel reale e l'arte diventa strumento di contemplazione ideale attraverso il quale l'uomo può cominciare a liberarsi della volontà di vivere sottraendo la propria rappresentazione ai vincoli della causalità che caratterizzano il principio di ragione.
Grande importanza, per certi sviluppi contemporanei, ha anche l'estetica positivista per la quale l'opera d'arte deve rappresentare la realtà così come essa è, nella sua crudezza, nella sua violenza; la ricerca artistica è un mezzo che si deve avvalere dei risultati delle scienze per rappresentare, capire la realtà e l'uomo che in essa agisce. L'arte non è solo un momento di conoscenza, è anche strumento di denuncia, in alcuni casi, Zola ad esempio, utile a modificare la società.
Nel Novecento la riflessione sui problerni estetici ha una rilevanza enorme, anche perché è questo il secolo della 'società di massa', della società in cui l'istruzione si è diffusa capillarmente e in cui il prodotto artistico ha dato origine a una vera e propria industria culturale. L'Europa, che fino alla prima guerra mondiale era stata il vero teatro della politica internazionale, diventa una regione del mondo in contatto con le altre; la cultura europea si confronta con le altre culture e mette in discussione il valore dei suoi risultati; ne deriva la perdita di una precisa identità culturale e la coscienza di una profonda crisi. Il confronto interculturale e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione rendono sempre più complesso il dibattito sul ruolo dell'artista e sui fini dell'arte; emergono posizioni contrastanti: alcuni vedono la ragion d'essere dell'arte nell'impegno politico-sociale, altri nel completo disinteresse per questi problemi, altri ancora cercano nell'intimità della propria coscienza il senso dell'esistenza.
Anche per John Dewey il momento estetico può essere scoperto in ogni esperienza e essere proposto come oggetto 'percepibile come bene immediato' che è fine a se stesso; l'arte infatti è un'attività che nasce direttamente dall'esperienza umana, la danza ad esempio è la rappresentazione artistica dell'armonia dei movimenti del corpo nella quale questa armonia è diventata fine a se stessa e momento di fruizione autonoma.
All'arte come impegno critico Jean Paul Sartre dedica un saggio importante, Che cos'è la letteratura (1947); in questo scritto analizza la responsabilità che lo scrivere comporta, 'noi non vogliamo aver vergogna di scrivere e non abbiamo voglia di scrivere senza dir niente'; l'artista ha la responsabilità delle parole e delle verità che esse contengono, il fine dell'arte è perciò essenzialmente critico e per questo ha bisogno di una precisa scelta di campo; l'arte non può mai essere neutrale; senza una precisa scelta politica l'artista è condannato al silenzio, nel senso che quello che scrive non può essere inteso.
CONCETTO
Il significato comune e generico di 'contenuto del pensiero' contiene i due ordini di problemi che sono stati dibattuti in tutto il corso storico della filosofia occidentale: la natura del concetto, la sua origine e la sua funzione nel processo di conoscenza.
Per quanto concerne il primo punto Aristotele vede in Socrate lo 'scopritore' del concetto, 'due sono le cose che si possono a giusta ragione attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e la definizione universale: scoperte queste che costituiscono la base della scienza'. Esso è logos, è il risultato del dialogo, che cerca l'essenza per arrivare alla verità. Platone, riprendendo l'intuizione socratica e cercando di eliminare definitivamente il pericolo della relatività del vero, lo definisce come eidos, che è insieme essenza dell'oggetto e condizione per cui esso può venire pensato. Aristotele inserisce questo stesso significato, concetto come sostanza, in una teoria più articolata e complessa che nasce dalla riflessione sui nomi e sul linguaggio nel quale esprimiamo i giudizi e i sillogismi.
Per tutto il Medioevo la natura del concetto è stata dibattuta nella questione degli universali.
Nella filosofia moderna razionalismo ed empirismo hanno pensato diversamente il senso del 'concetto', mantenendo comunque uno stretto collegamento fra entità ideale e realtà.
Nel razionalismo concetto e oggetto reale coincidono, 'il circolo esistente nella natura e l'idea del circolo esistente, che è anche in Dio, sono una sola e medesima cosa che si manifesta per diversi attributi' (Spinoza, Ethica) nell'empirismo il concetto è solo una generalizzazione dell'intelletto che dà un significato universale a una percezione particolare, 'quando dimostro una qualsiasi proposizione sui triangoli, devo supporre di avere l'idea universale di un triangolo che non sia né equilatero, né scaleno ecc., ma solo che quel triangolo particolare che io considero rappresenta un qualsiasi triangolo, ed è in questo senso che è universale' (Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana).
Anche in Kant il concetto è una rappresentazione universale, un concetto empirico, prodotto dalle categorie, funzioni dell'intelletto che sono concetti puri, per mezzo dei quali l'intelletto unifica il molteplice sensibile e stabilisce conoscenze oggettive; la relazione fra concetto e realtà è così profondamente modificata: i concetti empirici sono rappresentazioni della realtà perché i concetti puri rendono possibile la rappresentazione del mondo reale, sono la condizione della sua rappresentabilità e sono pertanto l'elemento costitutivo della realtà che percepiamo; il concetto non è più identico alla realtà, sia pure nei diversi modi esaminati, ma è solo il suo ordine necessario perché del reale si possa avere conoscenza scientifica.
Nell'idealismo i due aspetti della concezione kantiana ritornano, senza il limite che Kant aveva determinato: il mondo fenomenico.
In Hegel il concetto è oggetto logico e universale; nella prima accezione è la forme della riflessione attraverso la quale raggiungiamo il livello della comprensione della verità: la totalità; come universale non è una mera generalizzazione dell'esperienza, non potrebbe in questo caso condurci alla verità, è l'universale concreto, l'intelletto che comprende in sé tutti gli atti di pensiero, è pensiero che pensa, 'il concetto nella sua oggettività è la stessa cosa che è in sé e per sé' (Hegel, La scienza della logica).
COSCIENZA
Nella Critica della ragion pratica coscienza è l'elemento che garantisce il valore assoluto della legge morale. Nella Critica della ragion pura viene distinta una coscienza empirica, diversa in ogni uomo dalla 'coscienza in generale', l'Io penso, in cui l'unità del conoscere non si riduce alla totalità delle rappresentazioni della coscienza empirica, ma si aggiunge ad esse, ne rappresenta la sintesi; la coscienza in generale è pertanto una funzione conoscitiva, identica in tutti gli uomini, è attività che si realizza attraverso le categorie.
Dalla concezione kantiana si sviluppa quella idealistica: la coscienza non è l'Io, è invece il tratto distintivo di ciò che deriva dall'Io, alla concezione kantiana della coscienza come funzione viene sostituito il concetto di coscienza come sostanza.
In Fichte coscienza è l'io empirico, il prodotto dell'opposizione fra Io e Non io; l'Io, che può essere colto solo attraverso la riflessione, resta oltre la
coscienza, è Autocoscienza, fondamento della possibilità per il pensiero umano di arrivare a possedere la verità. In Schelling coscienza e natura procedono parallelamente, man mano che la coscienza emerge e si avvicina alla piena coscienza di sé dell'Assoluto anche la natura diventa un sistema più complesso.
Hegel ha una teorizzazione molto più complessa. Coscienza è l'attività conoscitiva dell'uomo che non ha ancora raggiunto il sapere assoluto, che è ancora prigioniero dell'opposizione soggetto-oggetto, che è prigioniero dell'esteriorità. L'emergere dello spirito coincide col progresso della coscienza verso il sapere assoluto, cioè verso la comprensione delle 'pure essenze' di cui la realtà è manifestazione; il sapere che la coscienza produce è quindi lo stadio prelogico della conoscenza. L'opera in cui Hegel affronta tutto il cammino della coscienza dall'esteriorità del sapere empirico alla verità è la Fenomenologia dello spirito, la 'storia dell'esperienza di coscienza'. I vari momenti del manifestarsi dello spirito nella realtà e dell'elevarsi della coscienza verso i gradi più alti del sapere sono le 'figure' della coscienza. Il primo grado è la certezza sensibile che considera l'oggetto come una realtà a sé stante; il secondo è la coscienza intuitiva che distingue fra l'oggetto e le sue proprietà e infine la coscienza riflessiva, che scopre la necessità dello sdoppiamento fra il fenomeno e il suo fondamento. Quest'opposizione è alla base della figura successiva, l'autocoscienza, per arrivare infine alla ragione e allo spirito, la cui manifestazione più alta è appunto il sapere assoluto.
Nella Fenomenologia particolare rilievo ha la Coscienza infelice: la coscienza divenuta consapevole di sé, divenuta autocoscienza, scopre nella libertà il suo carattere peculiare; nel cammino verso la libertà la coscienza rappresenta la scissione fra l'uomo e l'assoluto, Dio, operata dall'ebraismo prima e poi dal cristianesimo medievale. L'infelicità che tale scissione produce deriva dal fatto che la coscienza si sente 'inessenziale' di fronte a Dio e cerca di annullarsi in lui attraverso la propria mortificazione, atteggiamento tipico del misticismo medievale. L'emergere dell'autocoscienza è quindi il progressivo manifestarsi della libertà nell'individuo e nella società, il primo esempio storico della libertà conquistata è il conflitto servo-padrone, tipico delle società antiche.
Nel Novecento il concetto di coscienza è fondamentale. Per Sartre la coscienza è il momento fondamentale che caratterizza l'uomo, essendo percezione della propria esistenza essa si proietta nel futuro, è progetto, è libertà; in quanto tale essa si scontra con l'essere, che invece è necessità; la coscienza pertanto si rivela come 'non essere' e poiché il mondo è in sé privo di senso, senso che riceve solo dalla coscienza, per la quale esso è nulla; la coscienza è 'l'essere per cui il nulla viene al mondo'.
Il riconoscimento di una realtà esterna diversa da quella interna è il motivo fondamentale anche della filosofia di Bergson, per il quale la coscienza è la capacità di introspezione che l'evoluzione creatrice ha raggiunto nell'uomo, è, sotto un certo aspetto, l'effetto della capacità evolutiva; ma, sotto un altro aspetto, 'la vita, cioè la coscienza lanciata verso la materia fissa la sua attenzione o sul suo proprio movimento o sulla materia che attraversa e si orienta o nel senso dell'intuizione o nel senso dell'intelligenza' (L'evoluzione creatrice), in questo modo la coscienza è il principio che crea la realtà e ne rivela il senso nell'interiorità dell'uomo.
DIALETTICA
Il termine deriva dal verbo greco dialéghesthai che significa 'discutere insieme, ragionare insieme'.
Nella filosofia platonica la dialettica ha un'importanza centrale, è il metodo che consente di raggiungere la verità, prima come dialogo, lo strumento della ricerca filosofica, della ricerca che tende alla verità; poi, col precisarsi della dottrina delle idee, nella convinzione che la verità possa solo essere universale, la dialettica diventa il metodo che consente di arrivare alla definizione dell'idea attraverso la divisione.
Nella filosofia aristotelica dialettica acquista il valore di un procedimento razionale non dimostrativo, che rende legittima la diversità d'opinione; accanto alle proposizioni vere o false, vanno considerate anche quelle probabili: 'dialettico è il sillogismo che deduce qualcosa partendo da premesse fondate sull'opinione. () Fondate sull'opinione sono le cose che appaiono accettabili a tutti, o alla grande maggioranza, o ai sapienti e tra questi o a tutti, o alla grande maggioranza o ai più noti e famosi'. Secondo questa definizione si capisce perché Aristotele abbia visto in Zenone di Elea il fondatore della dialettica: i suoi paradossi si basano su una convinzione del movimento e della molteplicità accettata dalla maggioranza.
Con Kant il termine 'dialettica' indica la critica delle idee della ragione (anima, mondo, Dio) attraverso le quali l'uomo cerca di comprendere delle totalità al di là di ciò che può sperimentare: è la dialettica trascendentale. In questa sezione della Critica della ragion pura Kant esamina i diversi sofismi che la ragione produce nel tentare argomentazioni razionali su tali idee. La dialettica è pertanto una particolare 'sofistica' alla quale deve porre rimedio il criticismo dimostrandone l'illusorietà. Particolare rilievo hanno le antinomie della cosmologia razionale, ragionamenti che concludono legittimamente in maniera opposta, attraverso i quali la ragione cerca di superare i limiti dell'esperienza sensibile unificando aspetti opposti della realtà.
La presenza di tali opposizioni e la necessità di superarle in una visione sintetica è l'elemento su cui si fonda la concezione idealistica della dialettica: la contraddizione è la struttura fondamentale della realtà e anche del pensiero che deve comprenderla, come afferma Hegel, 'tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale'. In questa fondamentale unitarietà delle filosofie idealistiche vanno però precisate le diversità dei vari filosofi: per Fichte dialettica designa sia l'opposizione Io Non-io, sia il metodo dell'indagine filosofica che deve comprendere il valore fondamentale della libertà; in Schelling designa l'identità degli opposti nell'infinito, l'opposizione determina la tensione che genera il continuo farsi della natura l'arte diventa lo strumento intellettuale più adeguato alla comprensione dell'infinito; in Hegel designa il progressivo realizzarsi dell'assoluto attraverso la contraddizione; è metodo di indagine e essenza dell'assoluto e contiene pertanto sia le varie determinazioni della natura, dell'uomo e della storia, tre sono i momenti fondamentali in cui si articola: il porsi del concetto astratto, il negarsi di tale concetto nel suo opposto, la sintesi dei due momenti contraddittori in cui permane 'ciò che vi è di affermativo nella loro soluzione e nel loro trapasso'.
In Marx la dialettica hegeliana subisce una trasformazione materialistica, 'la mistificazione che la Dialettica subisce nelle mani di Hegel non impedisce in alcun modo che egli per primo abbia descritto le sue forme generali di movimento in modo comprensivo e consapevole; in Hegel la dialettica poggia sulla testa. Bisogna rimetterla sui piedi per scoprire il nocciolo razionale nell'involucro mistico'; la dialettica diventa quindi metodo di indagine della storia umana come 'storia di lotte di classe' (materialismo storico).
Jean Paul Sartre per il quale la dialettica è 'attività totalizzatrice; essa non ha altre leggi che le regole prodotte dalla totalizzazione in corso e queste concernono evidentemente le relazioni dell'unificazione con l'unificato, cioè i modi della presenza efficace del divenire totalizzante nelle parti totalizzate'.
'Con la parola 'Stato' si designa modernamente la maggior organizzazione politica che l'umanità conosca, riferendosi tanto al complesso territoriale e demografico su cui si esercita la signoria (potere politico), quanto al rapporto di coesistenza e di coesione di leggi e di organi che su quello imperano' (Enc. Italiana, Stato). Secondo questa definizione gli elementi costitutivi dello Stato sono il potere politico sovrano, il territorio e la popolazione. Essa comprende tutte le forme di aggregazione politica che si sono avute in Europa dalla polis greca ad oggi, non considera la differenza fra i diversi rapporti che storicamente si sono determinati fra il potere, il popolo e il territorio e che sono stati, in epoche e regioni diverse, molto difformi fra loro. La riflessione sul modo di essere ideale o reale di questi rapporti ha caratterizzato le diverse filosofie politiche. Machiavelli è stato il primo filosofo della politica a usare il termine 'Stato' nel concetto odierno precedentemente 'status' indicava il grado di un individuo o di un gruppo nella società; 'Repubblica' era il termine che indicava lo Stato.
La prima concezione organica dello Stato come struttura necessaria della convivenza umana la troviamo nella Repubblica di Platone che con la 'teoria delle idee' cerca di dare un fondamento saldo alla polis ormai in crisi. La ricerca del concetto di giustizia non può ignorare l'origine e la formazione dello Stato, l'organismo che garantisce la giustizia all'uomo giusto e la pena all'ingiusto. Lo Stato nasce dalla necessità di soddisfare i bisogni dell'uomo che, da solo, non sarebbe autosufficiente. Lo Stato infatti altro non è che un organismo identico all'uomo, ma più grande, e come nell'uomo tutte le diverse parti dell'organismo contribuiscono al soddisfacimento del bisogno così nello Stato tutti i componenti dovranno contribuire al bene comune. Da questo presupposto nasce la divisione dei compiti fra i cittadini, fondata sulle attitudini di ognuno, per la realizzazione del fine comune, la giustizia, il bene. Sono queste le condizioni del cosiddetto 'comunismo platonico' e della repubblica ideale al cui governo devono stare i filosofi, coloro che possiedono la saggezza.
Aristotele sviluppa la sua riflessione quando la crisi della polis è irreversibile e la Grecia viene conquistata da Filippo di Macedonia. Aristotele non cerca un modello ideale di Stato, vuole esaminare le costituzioni esistenti al fine di valutarne la maggiore o minore rispondenza al bene comune. Non ha senso cercare di costruire un modello ideale perché, nel campo della politica, l'uomo opera a partire da situazioni specifiche e da opinioni discutibili; non può quindi dedurne principi razionali universali e assolutamente certi, la politica è scienza 'di ciò che accade per lo più'. Anche Aristotele, in questo segue Platone, vede nello Stato l'organismo che consente il pieno sviluppo delle qualità di ogni uomo che per natura è socievole, 'lo Stato esiste per natura ed è anteriore all'individuo, perché, se l'individuo di per sé non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui sono le altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla in quanto basta a se stesso, non è membro di uno Stato, ma è una belva o un dio' (Politica, I, 2, 1253 a 18).
La teorizzazione più completa dello Stato moderno è di Thomas Hobbes. Hobbes ritiene che sia possibile applicare anche alla politica il metodo deduttivo per ricavare leggi universali sulle quali fondare la convivenza degli uomini. I principi fondamentali su cui si basa la sua teoria dello Stato sono universalmente accettati dagli uomini sulla base della loro esperienza e perciò assolutamente sicuri:
1. ogni uomo ha per natura il desiderio di usare per sé le cose comuni a tutti (cupidatas naturalis)
2. ogni uomo per natura teme la morte violenta come il peggiore dei mali (ratio naturalis).
Lo 'Stato di natura', lo Stato nel quale nessuna legge vincola l'uomo, è necessariamente caratterizzato dalla 'guerra di tutti contro tutti' perché l'uomo, desiderando per sé le cose comuni, si pone in situazione conflittuale con gli altri; nello Stato di natura dunque 'l'uomo è lupo per l'altro uomo' e teme per la propria incolumità. Da ciò deriva la necessità di realizzare un accordo fra gli uomini che superi la forza della legge naturale e garantisca l'incolumità di ognuno. Lo Stato nasce da questo contratto fra gli uomini secondo il quale ognuno rinuncia ai propri diritti di natura e cerca la pace per salvare la vita. Per ottenere questo risultato è necessario istituire un potere a cui affidare la difesa della propria vita infatti 'l'autorità e non la verità fa la legge'. Il contratto da cui nasce lo Stato viene quindi stipulato fra i singoli individui che rinunciano individualmente al loro diritto di natura- lo Stato è 'il grande Leviatano', il 'Dio mortale' attraverso il quale gli uomini si sottraggono alla legge di natura e si sottomettono alla legge del sovrano. Per queste ragioni Hobbes può esser considerato il teorico dello Stato assoluto. Nello Stato di Hobbes la legge naturale non ha alcuna rilevanza, il sovrano è l'unica fonte della legge. Hobbes in questo modo si contrappone alle teorie giusnaturalistiche del tempo che vincolavano l'attività legislativa del sovrano al rispetto dei 'diritti naturali', i diritti che l'uomo possiede per natura e il cui disconoscimento trasforma la legge in arbitrio. Secondo le dottrine giusnaturalistiche il sovrano è vincolato al rispetto dei diritti naturali (diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà) perché il contratto che sta alla base dello Stato non vincola solo il suddito, come sostiene Hobbes, ma anche il sovrano; lo Stato nasce per tutelare i diritti del singolo, non per violarli. n giusnaturalismo in questo modo pone le basi teoriche dello Stato liberale moderno. I più significativi teorici di questa idea di Stato sono Locke e Spinoza che sostengono apertamente il valore della tolleranza come elemento essenziale della convivenza sociale.
Un ulteriore e più precisa teorizzazione dello Stato liberale avviene durante l'Illuminismo, che non solo riafferma i vincoli del sovrano, ma sostiene la legittimità della 'difesa' popolare contro i soprusi. Denis Diderot alla voce Autorità politica dell'Enciclopedia scrive: 'Nessun uomo ha ricevuto dalla natura il potere di comandare agli altri. La libertà è un dono del cielo e ogni individuo della stessa specie ha diritto di goderne non appena ha l'uso della ragione. () Il principe riceve dai suoi stessi sudditi l'autorità che ha su di loro, e tale autorità è limitata dalle leggi della natura e dello Stato. () Le condizioni del patto sono diverse nei differenti Stati. Ma dappertutto la nazione ha il diritto di difendere di fronte a tutti il contratto che ha stipulato; nessun potere può cambiarlo; e quando esso non ha più valore, la nazione torna a godere del diritto di stipularne un altro con chi e nei termini che più le piacciono' . Per la cultura illuminista il diritto alla libertà è il più importante fra i diritti naturali; Rousseau afferma che rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità di uomo e Kant pone come imperativo categorico la considerazione dell'uomo sempre come fine e mai come mezzo. Per questa ragione la cultura illuminista è uno dei cardini del moderno pensiero liberale.
La teorizzazione della sovranità popolare, del diritto del popolo alla rivolta caratterizza il pensiero politico dell'Ottocento e l'idea dello Stato come fatto naturale o storico anima le diverse filosofie.
L'idealismo sostiene la naturalità dello Stato, anzi lo Stato è necessario all'esplicazione della libertà dell'individuo. Per Fichte lo Stato nasce da un contratto sociale e il suo fine è l'educazione alla libertà: un potere è legittimo se mette i cittadini nella condizione di essere autonomi, sia sul piano culturale che su quello materiale. Se il governo mantiene il patto su cui si fonda lo Stato il cittadino deve sottomettersi ad esso: 'nella nostra età, più che in ogni altra epoca precedente ogni cittadino con tutte le sue forze è sottomesso alla finalità dello Stato, è completamente penetrato da esso e è divenuto suo strumento' (Tratti fondamentali dell'epoca presente, X); se invece il patto non viene rispettato, allora diventa cogente la legge morale. L'idea dello Stato etico, dello Stato che assicura la libertà ha la sua teorizzazione più importante in Hegel: dovere supremo del singolo è essere parte dello Stato, perché solo nello Stato l'uomo può avere una esistenza razionale, 'l'eticità è l'idea della libertà (.. .) è il concetto di libertà divenuto mondo esistente. (. ..) Lo Stato è la realtà dell'idea etica' (Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto, 142, 257).
Con la sconfitta della Restaurazione determinata dalle rivoluzioni dell'Ottocento la teorizzazione dello Stato liberale matura definitivamente: compito dello Stato è garantire giuridicamente le libertà individuali e collettive, esercitare il potere entro norme precise, fare partecipare le rappresentanze della società alla elaborazione delle leggi e delle decisioni di governo. L'affermazione del primato della legge e del diritto di voto come strumento di partecipazione e legittimazione popolare delle rappresentanze politiche sono il fondamento di queste teorizzazioni: Stato liberale e Stato di diritto diventano sinonimi. Le prime teorizzazioni dello Stato liberale pongono l'accento sulla libertà personale che, nella nascente società industriale è prima di tutto libertà economica; lo Stato deve porsi al di sopra dei singoli e limitare il proprio intervento in economia perché sarebbe una limitazione della libertà individuali. John Stuart Mill e Herbert Spencer possono esser presi a modello di questo liberalismo. Mill teorizza la necessità di leggi che garantiscano la rappresentatività dei gruppi politici e riforme tese a realizzare una migliore distribuzione delle ricchezze avendo di mira una maggiore giustizia, lo Stato deve essere 'il governo di tutti per tutti'. Spencer sostiene che l'intervento dello Stato frena il progresso della società perché ostacola l'individuo nella sua ricerca del massimo utile possibile. E' facile notare come la concezione dello Stato liberale sia caratterizzata tanto da una visione democratica che da una moderata e conservatrice.
Contro le idee liberali si afferma, grazie al suo radicarsi fra i nuovi ceti operai urbani, la concezione dello Stato socialista. L'analisi dello Stato accompagna tutta l'evoluzione del pensiero socialista e assume varie connotazioni in epoche e in regioni diverse, a volte estremamente distanti fra loro; Lenin ad esempio chiama Kautsky 'rinnegato' e questo dimostra la distanza fra le loro posizioni teoriche. Senza fare la storia dell'idea socialista di Stato vale la pena soffermarsi sull'analisi marxiana. Per Marx lo Stato è un prodotto storico destinato a modificarsi con l'evoluzione della società, 'lo Stato non esiste dall'eternità. Vi sono società che ne hanno fatto a meno e non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. In un determinato grado dello sviluppo economico, necessariamente legato alla divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione lo Stato è diventato una necessità' (Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). L'esame storico delle diverse forme statuali mette in evidenza come esse siano sempre state lo strumento del dominio della classe dominante sulle altre e se le differenze di classe sono determinate dal sistema economico, allora è necessario agire sull'economia per modificare la società anche se, va detto, l'economia è determinante per la definizione dei rapporti di classe solo in ultima istanza, 'secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx, né da me' (Engels, lettera a J. Bloch). L'avvento di una società senza classi diventa perciò immediatamente superamento dello Stato come forma di oppressione di classe. Quando il proletariato assume la direzione della società ma non ha ancora realizzato la società comunista, per realizzare il proprio fine, la società senza classi, deve usare contro la borghesia gli strumenti del dominio di classe, dello Stato, deve esercitare la dittatura del proletariato finché 'le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. () Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentra un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti' (Marx, Manifesto del Partito comunista del 1848). L'estinzione dello Stato è l'obiettivo del movimento socialista.
Nel mondo attuale, che qualcuno ha cominciato a definire post-industriale, l'organizzazione sociale è diventata molto più complessa. La grave crisi economica del 1929 aveva indotto i governi a intervenire nell'economia per mantenere il controllo delle tensioni sociali che la disoccupazione poteva generare. Sulla base delle teorie di Keynes che mirano a mettere l'accento sugli elementi dinamici dell'economia per favorire lo sviluppo, si viene formando lo Stato sociale. Il controllo delle dinamiche sociali è diventato essenziale nella società odierna e i pensatori politici hanno elaborato la nozione di sistema politico (T. Parsons, Sistema sociale, 1951) comprendendo in questo concetto l'insieme delle azioni e delle istituzioni sociali che si propongono di dirigere una società verso un fine condiviso dai suoi membri. Nella odierna società che è caratterizzata dalla partecipazione di tutti i cittadini attraverso le loro rappresentanze politiche e le loro associazioni al governo della cosa pubblica, il problema del consenso è diventato fondamentale.
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