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NUOVE IDEE PER IL ROMANZO
Il modello di romanzo definito nel corso dell'Ottocento nasceva dall'intento degli scrittori di appropriarsi della realtà (della realtà storica e di quella contemporanea, della realtà sociale e di quella psicologica) attraverso la scrittura e dalla convinzione che proprio il romanzo, per la sua particolare libertà, si prestasse più di qualunque altro genere alla "conoscenza" e rappresentazione del mondo nella sua molteplicità di ambienti, caratteri, relazioni sociali, fenomeni di costume.
Quel modello di narrazione prevedeva un soggetto narrante affidabile ed autorevole, con il compito di delimitare, nel magmatico ed illimitato sviluppo del reale, una concatenazione di eventi conclusa e di darle senso alla luce d'una concezione del mondo.
Fu il filosofo Hegel a sottolineare a proposito del romanzo che, come l'epopea delle età eroiche, anche la "moderna epopea borghese" esigeva "la totalità d'una concezione del mondo e della vita" che illuminasse il singolo evento raccontato.
Qui sta dunque la peculiarità del romanzo ottocentesco, in questa capacità di "ridurre il mondo a linee significative", dove al prima e al poi corrispondono precise concatenazioni di causa ed effetto.
Vediamo adesso alcune delle principali novità che il romanzo novecentesco europeo introduce, rispetto a quel modello, sia sul piano tematico che su quello formale.
Soggetto ed oggetto
A partire dalla rivoluzione scientifica seicentesca fino all'alba del secolo XX°, la cultura occidentale è incardinata sull'idea che sia possibile una conoscenza oggettivamente ed universalmente condivisibile della realtà, garantita dalla reciproca autonomia del soggetto e dell'oggetto della conoscenza stessa. In altre parole, esiste una realtà oggettiva, regolata da leggi assolutamente indipendenti dal soggetto che la osserva, mentre il soggetto, da essa distinto, la interpreta secondo categorie logiche, universali. Su questa certezza, già formulata in termini definitivi da Cartesio, si è fondata per tre secoli la conoscenza scientifica, ma anche qualunque altra forma di conoscenza, arte compresa. Tuttavia, proprio con i primi decenni del Novecento, quella persuasione comincia a subire colpi pesanti, sia per il tramonto delle certezze positivistiche e per la crescita di istanze irrazionalistiche e spiritualistiche, sia per le smentite ch'essa subisce ad opera degli stessi scienziati (nascita delle geometrie non euclidee; teoria della relatività di Einstein; principio di indeterminazione di Heisenberg).
Accade insomma, come scrive l'epistemologo S. Amsterdamski, che "la sovranità conoscitiva del soggetto, la sua capacità di acquisire un sapere non mediato soggettivamente - valido per ogni soggetto conoscitivo, indipendentemente dalla sua costituzione fisica e dalla sua collocazione nella storia - viene ora messa in discussione [.] alla luce dello sviluppo stesso della fisica, della biologia, delle discipline sociali."
Cosa significa, in termini di teoria e pratica del romanzo, il non poter più fare affidamento su una realtà autonoma dalla soggettività che la vive, oggettivamente riconoscibile e rappresentabile? Significa che soggetto e oggetto non sono più separabili nella narrazione, e ciò che si può rappresentare sono, al massimo, le reazioni psichiche che la realtà opera nell'interiorità degli individui. Potremmo dire che il mondo interiore assorbe il reale, lo "disincarna" (come afferma Virginia Woolf) e il narratore non è più in grado di raccontare ciò che è, ma deve limitarsi a ciò che pare, come pare a questo o a quello, in questo o in quel momento.
A tutti i maggiori narratori europei del primo quarto di secolo accade appunto questo. Si pensi solo a Marcel Proust, nella cui Récherche il narratore-protagonista non racconta i fatti della sua vita, così come si sono verificati nella esteriore cronologia degli anni, dei mesi, dei giorni, ma il proprio percorso di recupero di come quei fatti si sono depositati nella sua anima, perché quella è la loro vera realtà, il loro vero significato. Il tempo rivisitato è più reale del tempo vissuto.
2. Frammentazione della coscienza, frammentazione della realta'
Conviene a questo punto una precisazione: che un romanzo sia centrato più sui pensieri dei personaggi che sui fatti non è in sé una novità assoluta. Basti pensare ai romanzi di Gabriele D'Annunzio o a quelli dello scrittore americano Henry James, per fare due esempi assai differenti di "romanzi psicologici". Tuttavia, se è vero che in quei romanzi la realtà esterna era raccontata come si rispecchiava nella coscienza dei protagonisti, è anche vero che quel rispecchiamento ne dava un'immagine unitaria, un'interpretazione coerente e, si potrebbe dire, "autentica". Adesso questo non è più vero: i riflessi della realtà esterna nell'interiorità dei personaggi risultano frammentati, ambigui, spesso incoerenti.
Talora, ad esempio, i punti di vista che filtrano il reale sono più di uno, e magari assolutamente non convergenti, per cui non è possibile ricostruire, al di là di "quel che sembra", un condiviso "quel che è". Un procedimento del genere è portato ad esiti molto avanzati nei capolavori di Virgina Woolf, La signora Dalloway e Gita al faro.
Ma è più frequente che sia la coscienza del singolo personaggio ad essere "mobile", incoerente, sensibile a sollecitazioni diverse, spesso inconsce. Nessuno di noi è sempre lo stesso; anzi, per dirla con Pirandello, ognuno vive "come se veramente in lui fossero più anime diverse e perfino opposte, più e opposte personalità".
Ciascuno è in ogni momento il risultato d'un conflitto di pulsioni, doveri, speranze, ideali, presentimenti, paure, che si combinano ogni volta in sintesi diverse. Dunque la rappresentazione del mondo perde unità e coerenza perché è la coscienza che lo rispecchia ad essere molteplice e priva di unità. Per citare ancora Proust, capita spesso nella Récherche che un evento, già definito nei suoi caratteri e nel suo valore, si ripresenti in un altro momento con caratteri diversi e diversi significati, e che magari il pro si muti in contro, e ciò che era parso una sventura si riveli una fortuna.
Interpretazioni autentiche della realtà, come si vede, non ce ne sono più.
3. La crisi del personaggio
L'idea che la personalità di ciascuno non sia una ma molteplice troverà sostegni e conferme nella dottrina psicanalitica (secondo la quale ogni soggetto è prodotto d'un equilibrio precario, sempre bisognoso d'essere ricostituito, tra istanze diverse, consce ed inconsce, interne ed esterne), ma già prima di Freud essa aveva sostenitori, come ad esempio Alfred Binet, che ebbe notevole influenza su Pirandello. Bene: non è difficile comprendere quanto quell'idea della psiche abbia messo in discussione il tipo del personaggio tradizionale e contribuito alla crisi della forma romanzo ottocentesco.
Il personaggio dei romanzi realisti e naturalisti precedenti, infatti, si presentava come un "carattere" unitario, fornito di una sostanziale coerenza di impulsi, ambizioni, progetti, azioni. Proprio grazie a questa assenza di contraddizioni egli si muoveva nel mondo assumendosi delle responsabilità, interagendo con le forze sociali e morali del suo ambiente - ora in consonanza con esse, ora, magari, in opposizione - e lasciandovi comunque il segno della propria azione. Nel romanzo del Novecento, invece, il protagonista è solitamente incapace di dominare il reale proprio per mancanza d'un carattere, d'una volontà unitaria: si "scompone" in una miriade di impressioni, percezioni, impulsi, aspirazioni, prive di continuità e coerenza reciproca. Non a caso l'inettitudine è uno dei temi fondamentali del grande romanzo novecentesco di inizio secolo (da Kafka a Joyce, da Schnitzler a Musil).
4. La nuova concezione del tempo
L'assorbimento del reale nella dimensione interiore del soggetto determina la crisi anche del fondamentale criterio con cui il romanzo tradizionale organizzava la realtà: il tempo.
Il tempo del romanzo ottocentesco è il tempo - reale e misurabile - dell'orologio, fatto di momenti distinti e separati, che si succedono in modo che quello che segue sopprime e sostituisce il precedente. Nelle storie dei Promessi sposi o di Madame Bovary, ciò che veniva dopo era conseguenza e soluzione di ciò che veniva prima. C'erano magari discordanze tra l'intreccio e la fabula, per cui l'autore tornava indietro a raccontare fatti anteriori a quelli che già aveva narrato (analessi) oppure anticipava fatti che sarebbero avvenuti solo in seguito (prolessi). Tuttavia la storia seguiva comunque un filo, che trasportava dal passato al presente al futuro, senza che le tre dimensioni si confondessero.
Nel romanzo del Novecento, invece, predomina una concezione soggettiva del tempo, che ha la sua formulazione più compiuta nella filosofia di Henri Bergson: il tempo non è qualcosa che trascorre e muore, ma si deposita nell'anima dell'individuo, e lì interagisce con il presente e determina l'aspettativa del futuro. Noi siamo dunque, in ogni momento, il prodotto di tutti gli istanti della nostra vita, che non sono separabili, e il passato non è qualcosa di interamente trascorso e concluso, sicché non possiamo distinguere con nettezza ciò che è stato da ciò che è.
Quali sono le conseguenze di questa interiorizzazione del tempo sul piano della scrittura?
-L'effetto più clamoroso è l'indebolimento dell'intreccio, inteso come successione di eventi che vanno in progressione cronologica verso uno scioglimento. Adesso gli eventi si accostano per richiami imprevisti, per analogie, che portano il racconto qua e là, avanti e indietro, nello spazio e nel tempo. Non sono più le analessi e le prolessi del romanzo tradizionale, tecniche narrative che comunque non compromettevano lo sviluppo cronologico della fabula; adesso l'ininterrotto andare e venire nel tempo è condizione psicologica costitutiva d'un soggetto che non si riconosce più nella misurazione sociale, pratica, del tempo. Il superamento delle misure temporali dell'esistenza è ad esempio l'elemento fondamentale della narrazione di Proust.
-Collegato alll'indebolimento dell'intreccio tradizionale abbiamo il venir meno dell'importanza del sommario e il procedere della narrazione preferibilmente per scene ed ellissi. Nel romanzo ottocentesco i momenti salienti dell'intreccio erano raccontati in modo dettagliato nelle scene, ma era il sommario ad assumere un ruolo fondamentale di raccordo delle varie scene dentro un tessuto privo di lacerazioni, interruzioni, deviazioni. Adesso invece le scene tendono a porsi l'una accanto all'altra, e i fatti che intercorrono tra l'una e l'altra sono spesso appena accennati o addirittura taciuti (ellissi). Abbiamo una sorta di prevaricazione del particolare rispetto all'insieme.
-Ma non basta. Il privilegiamento dei fatti da narrare - proprio per la generale svalorizzazione della vita esterna - non risponde più ad alcuna, oggettiva, gerarchia: elementi che, secondo logica, sembrerebbero marginali, hanno la prevalenza su altri che sembrerebbero essenziali. Si raccontano giornate qualsiasi, scelte a caso (come fa ostentatamente Joyce); eventi che dovrebbero essere decisivi vengono accennati quasi distrattamente (la morte del padre è in Proust comunicata al lettore solo per incisi); episodi di cui è difficile scorgere una necessità ai fini della storia si dilatano per pagine e pagine.
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