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NOTIZIE SU OMERO E QUESTIONE OMERICA
Al poeta Omero fin dall'antichità classica sono stati attribuiti i due poemi Iliade e Odissea; intorno alla sua figura sono nate numerose leggende, spesso anche contrastanti tra loro, ma nessuna dubitava che il poeta fosse realmente esistito. Lo storico Erodoto, vissuto in Grecia, nel V secolo a.C., racconta che Omero nacque a Smirne intorno alla metà del IX secolo a.C. e che viaggiò tra i popoli dell'area del Mediterraneo, recitando i versi dell'Iliade; racconta anche che nella vecchiaia, divenuto cieco, scrisse l'Odissea. Erodoto segue una tradizione immutata sulla cecità di Omero: questa caratteristica contribuiva a creare intorno al poeta un'aurea di sacralità, poiché gli antichi spesso attribuivano ai ciechi capacità profetiche. Ciò che afferma Erodoto, è tuttavia solo una delle ipotesi che si sono elaborate sulla vita del poeta (non è da trascurare il fatto che la maggior parte delle sue tarde biografie riportino diverse notizie senza alcuna possibile corrispondenza con la realtà, come ad esempio l'aneddoto relativo alla sua gara poetica con Esiodo). . Tutto ciò che oggi si sa di Omero è leggenda. Il suo luogo di nascita è incerto: Erodoto ci parla di Smirne (nella moderna Turchia), ma si dice anche che possa essere la città di Chio, in Grecia, o quella di Colofone (in Asia Minore); incerta è anche l'origine del suo nome, forse di etimologia non greca: potrebbe derivare da ho mè horôn, ossia 'il non vedente', ma altri avanzano l'ipotesi che il suo significato sia quello di 'ostaggio' oppure di 'raccoglitore' . . Non si sa neanche se in quei tempi remoti sia veramente esistito un uomo chiamato Omero, quale la tradizione ce lo ha raffigurato, o se si debba vedere in lui il tramandarsi di una leggenda, quasi un simulacro che nasconde la personalità di vari poeti, di epoche e regioni diverse. Per quanto riguarda l'età in cui visse (e quindi l'epoca dell'Iliade e dell'Odissea), le date oscillano tra il XII e il VI secolo a.C., anche se le tesi più accreditate propendono per il VII o l'VIII secolo. Ad Omero, considerato il primo poeta epico, gli antichi attribuirono molte opere: oltre all'Iliade e all'Odissea egli avrebbe composto dei poemi ciclici (Tebaide, Epigoni, Ciprie, ecc.), una raccolta di inni, alcuni epigrammi e dei poemetti di genere giocoso. A nessuno venne in mente che Omero potesse non essere mai esistito finché, nel III secolo a.C., Zenodoto sollevò dei dubbi circa la paternità di alcuni versi dell'Iliade e dell'Odissea, presto seguito da Ellanico e Xenone i quali, insospettiti dall'apparente disomogeneità linguistica ed ambientale che correva tra i due poemi, ipotizzarono che il secondo fosse stato composto da un ignoto aedo ben cento anni dopo il primo. Nel corso dei tre millenni che ci separano dalle due grandi opere di Omero, gli studiosi hanno affrontato il problema, se si dovesse vedere in esse una composizione unitaria e di univoca paternità, o, viceversa, frammentaria, avvenuta in epoche notevolmente distanti fra loro e ad opera di autori diversi. C'è chi ha negato con convinzione la paternità omerica di entrambe le opere - o almeno dell'Odissea -, mettendo in luce le molte discrepanze letterarie e concettuali che si notano fra i due poemi, e soprattutto rilevando la indubbia impossibilità di una composizione così grandiosa da parte di un singolo uomo, in un'epoca - per di più - in cui non si conosceva nemmeno la scrittura, è arduo, infatti, pensare a un lavoro di memoria di così vasta portata, condiviso con altri che poi a loro volta dovevano ricordarlo. Ma c'è anche chi, al contrario, ha sostenuto la reale esistenza di Omero quale effettivo autore almeno dei nuclei centrali delle due opere, argomentando questa tesi col fatto che il Poeta avesse a disposizione un vasto materiale di leggende e di miti, cui poi avrebbe dato unità d'ispirazione. Era l'inizio dei dibattiti e delle ricerche sulla cosiddetta 'questione omerica', riguardante soprattutto la vera paternità dei due poemi epici a noi pervenuti, ma allargata anche ad altri quesiti, coi quali ci si chiedeva se Omero fosse realmente esistito, se i due poemi facessero parte di un tutt'uno omogeneo, se appartenessero a più autori e, in questo caso, in che modo fossero stati composti e tramandati. Già Aristarco di Samotracia tentò di dare una spiegazione: l'Iliade e l'Odissea appartengono uno alla giovinezza e l'altro alla vecchiaia dello stesso autore (Omero, naturalmente). Col passare del tempo, però, le soluzioni non sembrarono più così a portata di mano e le correnti 'unitaria' e 'antiunitaria' (che sostenevano rispettivamente la tesi dell'autore unico e quella della pluralità di autori) si arricchirono delle ipotesi più variegate. G. B. Vico pensava che Omero non fosse mai esistito, ma che fosse semplicemente stato assunto come simbolo della poesia greca dell'età eroica, nonostante i due principali poemi di quest'ultima si dovessero a più autori. A sua volta Wolf prospettò l'ipotesi che, in assenza della scrittura e nell'impossibilità di mandare a memoria 28.000 versi, differenti aedi fossero stati divulgatori dei diversi canti, riuniti poi in forma di poemi epici nell'epoca di Pisistrato. A loro si aggiunse una visione 'archeologica' dell'Iliade e dell'Odissea, che vennero concepite come un insieme di stratificazioni attribuibili ad epoche differenti o come ampliamenti da nuclei originari. Con il passare del tempo lo sviluppo delle lettere comparate, della filologia, dello studio della letteratura popolare e degli scavi archeologici (che confermerebbero l'esistenza della scrittura già in epoca micenea), ha dato vita alla corrente cosiddetta 'neounitaria', la quale non nega l'esistenza di originari canti primitivi, ma allo stesso tempo afferma con forza l'unità dei due poemi in quanto composti da un singolo autore, che avrebbe raccolto i nuclei originari e li avrebbe ordinati in maniera personale utilizzando il dialetto ionico ed il verso esametro, vale a dire la lingua e la metrica dell'Iliade e dell'Odissea. A questa corrente si aggiunge l'interpretazione dell'Iliade e dell'Odissea come 'enciclopedie tecnologiche', ossia come collezione di saperi e di pratiche oralmente tramandate, indispensabili alla coesione culturale. Ma questa dotta disputa rimonta a molto tempo fa. Oggi, più o meno generalmente, si ammette che i poemi omerici trovino origine nelle antiche leggende e nei canti che facevano parte della tradizione orale popolare. Molti commentatori hanno trovato, sia nell'Iliade che nell'Odissea, alcuni passi contrastanti, e da questo pensavano di poter concludere che i poemi fossero opera di persone diverse. Ma è una questione da prendere con pazienza, che non avrà forse termine, ed intanto Omero se ne sta sospeso nel limbo dei poeti con la sua grande opera che tanta influenza avrà nella letteratura di tutti i tempi, della cultura occidentale. Al di là di tutte le possibili versioni, è quasi certo che Omero non sia mai esistito e che i due poemi siano stati tramandati da più aedi erranti. Ma, nonostante l'autore dell'Iliade e dell'Odissea si riduca ad un fantasma, rimane il mistero di una costruzione e di una sintesi che, probabilmente nel VI secolo, ordinarono la materia informe ed eterogenea dei racconti più antichi e ci tramandarono due opere dalla fortuna e dalla forza inestinguibili tra i greci come tra i romani (il primo a tradurre l'Odissea in metro saturnio fu Livio Andronico, ed Ennio sostenne addirittura di essere la reincarnazione di Omero), passando per il Medioevo (tramite l'Omero latino) e per l'Umanesimo, fino ai giorni nostri, offrendo a chiunque voglia leggerle due storie rimaste miticamente straordinarie e avvincenti. Quale che sia la verità, rimane ad altezze irraggiungibili la grandezza e la bellezza dei poemi omerici.
RIASSUNTO DELL'ODISSEA
Il nome del poema "Odissea" deriva da quello del protagonista "Odisseo".
L'Odissea si compone di ventiquattro libri, e copre un arco di tempo di quaranta giorni. Può essere suddivisa complessivamente in tre parti, considerando le tre azioni principali:
I viaggi di Telemaco alla ricerca del padre (primi quattro libri);
I viaggi di Odisseo (otto libri, dal V al XII);
Il ritorno di Odisseo ad Itaca e la sua vendetta contro i Proci (gli ultimi dodici libri, dal XIII al XXIV).
Il poema inizia con un proemio, o invocazione alla musa, con il quale, invocando Calliope, musa della poesia epica, il poeta le chiede di raccontare le vicende di Odisseo, "uomo dal multiforme ingegno" (in greco πολύτροπον), con il proemio l'autore indica anche l'argomento di cui si tratterà, i viaggi dell'eroe e le sue sventure.
La vicenda si svolge dieci anni dopo la fine della guerra di Troia, quando ormai tutti gli eroi che sono sopravvissuti hanno già fatto ritorno alle loro case. Solo Odisseo non può rivedere la propria casa, perché perseguitato dall'ira di Poseidone, dio dei mari, irato con lui perché aveva accecato l'unico occhio al figlio Polifemo, benché fosse il più forte fra i grandi Ciclopi. A causa dell'inimicizia del dio, Odisseo vive mille sciagure per mare, durante una delle quali perde tutti i suoi compagni, che avevano osato divorare i buoi sacri al Sole Iperione. Alla fine, giunge nell'isola di Ogigia, dimora della bellissima ninfa Calipso che, invaghitasi di lui, non lo lascia più partire.
La narrazione vera e propria si apre sull'Olimpo.
È giunta ormai l'Estate, stagione destinata dagli dei al rientro di Odisseo in patria. Gli dei, approfittando di una momentanea assenza di Poseidone, si riuniscono nell'Olimpo per decidere la sorte dell'eroe. Si decide di inviare Ermes, dio messaggero, dalla ninfa Calipso, per ordinarle di lasciar partire Odisseo, secondo il volere degli dei. Ad Itaca intanto la reggia di Odisseo è stata invasa dai Proci, giovani nobili della città e delle isole vicine, che aspirano alla mano di sua moglie, la bellissima Penelope, si ritiene infatti che l'eroe sia morto ormai da lungo tempo.
In attesa della decisione della donna, essi da tre anni sperperano i suoi beni, a spese di Telemaco suo figlio. Questi infatti è ancora troppo giovane, per riuscire ad opporsi alla situazione. Per questo la dea Atena si reca da lui sotto le sembianze di Mente, re dei Tafi, amico di lunga data del padre, per incitare il giovane infondendogli vigore e coraggio, e gli consiglia di partire alla ricerca del padre che è sicuramente ancora in vita. Telemaco parte e si reca a Pilo, dove il re Nestore, non avendo alcuna notizia del suo vecchio compagno d'armi Odisseo, lo invita a recarsi a Sparta, presso Menelao l'ultimo di quanti sono tornati in Grecia dopo la guerra di Troia. Qui Telemaco apprende che suo padre è vivo.
Intanto sull'Olimpo gli dei si riuniscono nuovamente, e Atena protesta perché Ermes non è stato ancora inviato dalla ninfa Calipso. Zeus ordina al messaggero di recarsi sull'isola di Ogigia; e la ninfa, una volta appreso il volere degli dei, tenta invano di trattenere ancora Odisseo, che si fabbrica una zattera e salpa.
Per diciassette giorni, la navigazione si svolge tranquillamente, ma Poseidone, di ritorno dalla terra degli Etiopi, si accorge della sua zattera sul mare e, infuriato, scatena una grande tempesta. Grazie all'aiuto di Atena, Odisseo riesce a salvarsi e raggiunge a nuoto l'isola dei Feaci. Qui la figlia del re Alcinnoo, Nauscaa, lo incontra mentre gioca in riva al fiume con le sue ancelle, e lo conduce alla reggia di suo padre dove viene accolto benevolmente. Odisseo, udendo cantare la storia della guerra di Troia da un aedo, si commuove, e svela così la sua identità, raccontando le sue incredibili avventure, dietro invito del re.
Inizia qui la grande analessi dell'Odissea, con la quale Odisseo narra tutte le sue vicende e i suoi viaggi in terre lontane, perseguitato dal destino e dalle ire degli dei a lui avversi.
Partito da Troia, il vento lo aveva spinto nelle terre dei Ciconi, con i quali aveva combattuto, perdendo molti uomini. Una volta ripartito con i compagni sopravvissuti, si era scatenata una terribile tempesta ad opera di Zeus, ed erano stati in balia delle onde per diversi giorni, fino a che non erano riusciti ad approdare nell'isola dei Lotofagi, mangiatori di loto, un frutto che dà l'oblio. Partiti anche da qui, giunsero all'isola delle capre, abitata solo da questi animali. Di fronte a questa terra era situata l'isola dei Ciclopi, e Odisseo volle recarvisi per conoscere questo popolo. Purtroppo però si pentì ben presto della sua decisione. Entrato in un'enorme spelonca vicino al mare, scoprì che questa era l'abitazione del più grande e forte Ciclope, Polifemo, figlio di Poseidone, che divorò gran parte dei suoi compagni, finché, con un astuto stratagemma, Odisseo riuscì ad accecare il suo unico occhio. Riuscito a prendere il largo, Odisseo urlò a Polifemo il suo nome, ma fu un'imprudenza perché il gigante pregò suo padre, Poseidone, di vendicarlo, e il dio non smise di essere irato con l'eroe fino a che egli non riuscì ad approdare ad Itaca.
Dopo questa avventura Odisseo ed i suoi compagni, giunsero alla reggia di Eolo, dio dei venti, che fu molto ospitale, e gli donò un otre, contenente i venti avversi alla sua navigazione. I suoi compagni però, credendo si trattasse di un tesoro, aprirono l'otre, scatenando così una violenta tempesta, che li riportò indietro. Partiti una seconda volta giunsero alla terra dei Lestrigoni, giganti cannibali, dove molti uomini perirono. Odisseo riuscì a ripartire, giungendo all'isola di Ea, abitata dalla maga Circe. Molti compagni di Odisseo furono trasformati in maiali, ma lui riuscì a salvarsi dall'incantesimo grazie ad un'erba magica donatagli da Ermes. Odisseo minacciò di morte la dea, che lo pregò di risparmiarle la vita e in cambio tramutò nuovamente i suoi compagni in uomini.
Trascorsero qui un anno, ma Odisseo sentiva sempre più nostalgia della sua patria lontana, decise quindi di mettersi in viaggio, e chiese a Circe di lasciarlo partire. La maga acconsentì, avvertendolo però che si sarebbe dovuto recare nel regno degli inferi, per interrogare l'indovino Tiresia, l'unico che dopo la morte aveva ancora la facoltà di predire il futuro.
Una volta giunto nel regno degli inferi, Odisseo incontrò molte persone che conosceva e delle quali ignorava la morte, come la sua stessa madre, morta di dolore per la sorte del figlio, e l'anima di Agamennone, suo compagno a Troia, ucciso dall'amante della moglie. Incontrò, Achille, divenuto re degli inferi, e parlò anche con Tiresia, che gli svelò la sorte che lo attendeva. Sarebbe tornato sano e salvo ad Itaca se non avesse mangiato i buoi del Sole Iperone, ma ad Itaca avrebbe trovato ad attenderlo uomini che consumavano le sue sostanze e aspiravano alla mano di sua moglie, per questo però avrebbe ottenuto vendetta. Negli inferi vide molte altre anime, anche di eroi importanti, ma giunse in fretta il momento della partenza, e dovette abbandonare quei luoghi.
Tornarono all'isola di Circe, e il mattino dopo salparono, dopo aver ascoltato i consigli che la dea aveva da dare.
Giunsero, come aveva detto loro la donna, all'isola delle Sirene, dove, secondo i consigli ricevuti, Odisseo tappò le orecchie ai suoi compagni con della cera fusa, per evitare che fossero ammaliati dal canto delle sirene, e si fece legare saldamente all'albero maestro. Seguendo gli ordini ricevuti, i suoi compagni non lo slegarono quando udirono le sue urla, ma strinsero più saldamente i nodi.
Passata quest'insidia giunsero agli scogli di Scilla e Cariddi, due mostri tremendi, ma riuscirono a sfuggire alle loro insidie, perdendo però alcuni fra i loro compagni. Finalmente giunsero all'isola sacra al dio Sole, e Odisseo, ricordando gli ammonimenti di Circe e di Tiresia, intimò ai suoi di non cibarsi degli animali che qui pascolavano, per nessun motivo. Quel giorno si levò un vento ostile, che non si posò per parecchi giorni. Odisseo e i suoi compagni avevano finito la maggior parte delle provviste, ma finché l'eroe vegliava su i suoi uomini, essi non toccavano le bestie sacre. Un giorno però, mentre Odisseo pregava gli dei lontano dagli altri, fu colto da un sonno improvviso, e i suoi compagni ne approfittarono per cacciare le giovenche più belle. Risvegliatosi, Odisseo sentì il profumo dell'arrosto, e corse al campo, maledicendo gli dei che lo avevano fatto addormentare.
Il giorno stesso salparono, ma Zeus, poiché Iperone aveva chiesto vendetta, scagliò un fulmine sulla loro nave, morirono tutti, e solo Odisseo si salvò, e riuscì dopo qualche tempo ad approdare all'isola di Ogigia, dove lo accolse la ninfa Calipso.
Qui finì il racconto. Il re Alcinoo, commosso dalla sua storia, promette ad Odisseo il suo aiuto, e lo fa riportare ad Itaca con una nave.
Qui giunto Odisseo incontra Atena, che lo trasforma in un mendico, si dirige poi alla capanna di Eumeo, il suo porcaro, che pur non riconoscendolo lo accoglie con benevolenza. Parlando con lui Odisseo scopre che Eumeo gli è rimasto fedele, poiché si lamenta continuamente di come vadano male le cose al palazzo da quando era assente il suo padrone.
Il giorno dopo Odisseo incontra suo figlio Telemaco, di ritorno dal suo viaggio, e, rivelandogli la sua vera identità, lo abbracciò commosso; insieme poi meditano un piano per far strage dei Proci.
Accompagnato da Eumeo, Odisseo, si reca alla reggia, travestito ancora una volta da mendico; nonostante ciò viene riconosciuto dal suo vecchio cane Argo, che muore dopo averlo visto per l'ultima volta. Odisseo, commosso, lo abbraccia, ed entra nella sala del banchetto. Chiede qualcosa da mangiare, ma viene insultato dai Proci, e perfino da un altro mendicante, che aveva sempre vissuto nel suo palazzo. Alla sera viene ricevuto da Penelope, che gli chiede notizie del suo sposo, e gli fa preparare un bagno ed un letto. L'anziana nutrice, Euriclea, lavandogli i piedi si accorge di una cicatrice che gli aveva procurato un cinghiale, molto tempo prima, e lo riconosce. Penelope frattanto, ispirata da Atena, comunica di essere pronta a scegliere uno sposo: potrà aspirare alla sua mano solo chi riuscirà, tendendo il pesante arco di Odisseo, a far passare la freccia attraverso dodici anelli, posti su dodici scuri piantate per terra. Anche Odisseo, sotto le sembianze del mendico, chiede di poter partecipare alla gara, ottenendo il permesso da Telemaco. Preso l'arco in mano, lo tende senza fatica, facendo attraversare alla freccia tutti i dodici anelli. Subito dopo Odisseo e Telemaco si vendicano delle angherie subite e fanno strage dei Proci e dei servi infedeli, mentre Atena fa addormentare Penelope infondendole un profondo torpore.
Quando, al suo risveglio, l'ancella Euriclea l'avverte del ritorno di Odisseo, ella non è del tutto convinta, e perciò chiede al suo sposo di spostare il loro letto in un' altra stanza, e quando egli le risponde che quel letto non può essere spostato perché costruito sul tronco di un enorme ulivo, la donna lo abbraccia commossa.
Il giorno dopo Odisseo si reca dal vecchio padre, e lo riconduce alla reggia.
I sopravvissuti alla strage e i parenti degli uccisi vorrebbero vendicarsi di Odisseo, ma con l'aiuto di Atena tutto si risolve e il poema termina con i trattati di pace fra Odisseo e le famiglie dei Proci.
RIASSUNTO DEL PRIMO CANTO
"O Musa, o dea figlia di Giove, ti chiedo di raccontarci la storia di quell'uomo dal grande ingegno, che vagò a lungo, dopo aver distrutto con i suoi compagni la sacra città di Troia. Quell'uomo che vide molti paesi e che conobbe molti popoli, durante il viaggio che lo riportava alla sua terra. Colui che viaggiando per mare patì molti dolori, tentando di salvare la sua vita e quella dei propri compagni dalle molte insidie che dovettero affrontare. Ma, pur desiderandolo con tutte le sue forze, non riuscì neanche così a ricondurli in patria sani e salvi. Infatti perirono tutti, gli stolti! Poiché osarono nutrirsi dei buoi sacri al Sole Iperone, e perciò il dio, irato con loro, gli impedì di ritrovare la via di casa.
O Musa, ora ti prego, racconta anche a noi la storia di quell'eroe, la storia di Odisseo."
Erano trascorsi ormai molti anni dalla fine della guerra che aveva visto opposti Achei e Troiani. Già da tempo, tutti coloro che vi avevano partecipato, sedevano in pace nelle loro case, o almeno quelli che erano sfuggiti ad una terribile morte. Solo Ulisse si trovava lontano dalla sua patria e dalla sua donna.
Egli era infatti trattenuto presso un'isola chiamata Ogigia, dalla bellissima ninfa Calipso, che, nonostante fosse dea e immortale, desiderava ardentemente unirsi in matrimonio con lui.
Era ormai giunta l'estate, la stagione che era stata destinata dagli dei al suo rientro in patria, ad Itaca. Tutti gli dei provavano compassione per la sua sorte; tutti tranne uno, Poseidone. Fortunatamente in quel periodo il dio dei mari si trovava in una terra lontana, presso gli Etiopi, un popolo diviso in due: parte al tramonto del sole, parte al sorgere. Si era recato laggiù per ricevere un'ecatombe di tori e di agnelli, e qui si rallegrava stando seduto a banchetto.
Approfittando della sua assenza, gli altri dei si radunarono sull'Olimpo, nella reggia di Zeus, padre dei numi. Fu proprio lui a prendere per primo la parola, ricordando la sorte di Egisto, che era stato ucciso da Oreste, figlio di Agamennone, per vendicare l'assassinio del padre. Zeus prese la parola dicendo:
"Non cesseranno mai i mortali di incolpare gli dei per ogni loro sciagura? Eppure sono essi stessi la causa dei loro mali, e chiamano Destino la loro follia.
Allo stesso modo Egisto sposò la moglie legittima dell'Atride Agamennone, e lo uccise quando tornò da Troia, nonostante sapesse che ciò comportava la sua fine; gli avevo inviato Ermes, messaggero alato, perché lo avvertisse che Oreste lo avrebbe ucciso una volta diventato adulto, quando avrebbe desiderato il regno di suo padre. Purtroppo però Egisto non ascoltò i consigli di Ermes, e ne pagò il prezzo."
Gli rispose allora la dea Atena dagli occhi azzurri:
"Oh Padre, figlio di Crono, tu che stai al di sopra di tutti i regnanti. È giusto che Egisto sia perito in questo modo: chiunque faccia tali cose, si merita la sua stessa fine. Io piuttosto mi preoccupo per la triste sorte di Odisseo, sventurato! Giace ormai da troppo tempo e soffre, in quell'isola coperta di boschi, nel cuore dei mari. Là dove abita nel suo palazzo una bellissima dea, figlia dell'esiziale Atlante, che conosce le profondità di tutto il mare, e che sostiene le alte colonne che tengono separati la terra e il cielo. Ella lo trattiene, pensoso e inconsolabile, nella sua isola, con soavi e dolci parole, per cercare di allontanare dal suo cuore il pensiero della sua amata Itaca: egli invece desidera solo rivedere per un'ultima volta la sua patria, prima di morire. Neppure questo ti smuove, Zeus Olimpio? Forse non ti erano graditi i sacrifici che Odisseo t'innalzava, presso le navi degli Argivi, durante la guerra di Troia? Provi così tanto rancore nei suoi confronti?"
L'eterno addensatore delle nubi le rispose:
"Figlia mia! Quali parole ti sei lasciata sfuggire! Perché dovrei essere irato nei confronti dell'uomo che sta al di sopra di tutti per senno, e che ha sempre onorato gli dei immortali, che abitano il vasto cielo, con tanti sacrifici? Poseidone è irato con lui, non io! Gli serba rancore perché accecò suo figlio Polifemo il Ciclope, privandolo del suo unico occhio, nonostante fosse il più forte fra tutti i suoi compagni. Fu generato dalla ninfa Toosa figlia di Forco, signore dei mari infecondi, che si era unita a Poseidone in antri oscuri. Per questo il dio perseguita Odisseo, facendolo errare per i mari lontano dalla sua patria, lasciandolo in vita. Ora speriamo tutti insieme nel suo ritorno in patria, in modo che Poseidone smetta di essere ostile, non potrà infatti opporsi al volere di tutti gli dei."
Allora gli rispose nuovamente Atena, con una luce azzurrina negli occhi:
"Se tutti gli dei sono d'accordo sul ritorno di Odisseo in patria, mandiamo Ermes il Messaggero all'isola di Ogigia affinché comunichi alla ninfa dai bei capelli lucenti, qual è il volere degli dei immortali. Nel mentre io mi recherò ad Itaca, per incoraggiare suo figlio, perché convochi in assemblea tutti gli Achei, e scacci via tutti i pretendenti alla mano di sua madre, i Proci, che gli hanno invaso il palazzo e si cibano dei suoi armenti. Una volta fatto ciò lo invierò a Pilo e a Sparta, perché possa sentire da qualche parte notizie di suo padre, e perché possa anch'egli acquistare fama durante i suoi viaggi."
Così detto, Atena, indossò i suoi calzari d'oro, che potevano portarla sulla terra immensa e sul mare volando col soffio del vento. Prese poi la sua lancia, pesante e massiccia, ornata in cima da una punta aguzza di rame, con la quale doma intere schiere di eroi, degna figlia del re dell'Olimpo, Zeus. Discese velocemente dalle alte vette dell'Olimpo giungendo subito ad Itaca, e si fermò nel vestibolo del palazzo di Odisseo. Nella sua mano la lancia sfavillava; prese le sembianze di Mente, capo del popolo dei Tafi.
Trovò i Proci superbi, che si dilettavano seduti sulle pelli dei buoi che essi stessi avevano ucciso, avevano araldi e servitori che mescolavano il vino e l'acqua nei crateri, alcuni pulivano i tavoli con spugne piene di fori, altri ancora dividevano le carni. In disparte, scorse Telemaco, figlio di Odisseo, simile ad un dio per bellezza, assorto, e infelice nell'animo; pensava infatti a suo padre, e lo immaginava spuntare dal nulla per sbaragliare tutti i Proci e riprendersi il proprio palazzo e le proprie ricchezze. Fra questi pensieri scorse Pallade Atena, e alzatosi si diresse verso il vestibolo, sdegnato che in casa sua uno straniero attendesse per così lungo tempo alla porta. Le si accostò e gli prese la mano destra nella sua, poi prese la sua lancia e le rivolse queste parole:
"Salve, straniero. Qui sarai accolto da amico, e dopo esserti saziato e rinfrancato dirai di che cosa hai bisogno".
Ciò detto la precedette, e Pallade lo seguì.
Ripose la lancia in un'astiera, presso una lunga colonna, dove si trovavano molte armi simili, appartenenti ad Odisseo. Quindi portò la dea a sedersi su un bel seggio con uno sgabello, sul quale stese un magnifico tappeto ornato, dopodiché ne prese uno per sé e si sedette di fianco all'ospite, in disparte dai Proci, cosicché il visitatore non fosse infastidito dal tumulto, e non disprezzasse il banchetto, trovandosi in mezzo ad arroganti, e in modo tale da poterlo interrogare sulla sorte del padre assente.
Giunse un'ancella, portando in un vaso d'oro dell'acqua purissima, che versò in un bacile d'argento, affinché lo straniero potesse lavarsi; accanto ad essi posò una tavola ben levigata, e una vecchia governante venne a posarvi dei pani, sui quali aveva messo cibi di ogni genere.
Vennero portate carni di ogni sorta in larghi piatti, e coppe d'oro, e un araldo spesso passava per versare del vino.
Entrarono i Proci, occupando in ordine i sedili e i troni; gli araldi versarono acqua sulle mani, le ancelle riempirono i canestri di pane, e i fanciulli riempirono i crateri col vino. I pretendenti gettarono le mani sui cibi pronti che stavano davanti a loro. Dopo che ebbero scacciato il desiderio di cibo, altre cose stavano loro a cuore: il canto e le danze, ornamento di ogni banchetto. Un araldo pose in mano a Femio, il cantore, una bellissima cetra, ed egli iniziò a cantare davanti ai commensali. Mentre questi suonava la cetra, Telemaco parlò ad Atena, piegando la testa in modo che gli altri non udissero:
"Mio caro ospite, mi chiedo se tu ti sdegnerai perché ti rivelo i miei pensieri: questi uomini che vedi hanno a cuore solamente il suono della cetra e il canto, e mangiano impunemente il cibo di un uomo le cui ossa giacciono da qualche parte ad imputridire sotto la pioggia, o nel fondo dei mari. Ma se un giorno egli decidesse di tornare ad Itaca, certamente preferirebbero avere le ali ai piedi, piuttosto che indossare ricche vesti o piuttosto che possedere grandi ricchezze. Vani desideri! Di certo egli ha già trovato una morte funesta, a causa del Destino: non abbiamo più alcuna speranza, anche se qualcuno sulla terra dovesse raccontarmi che è ancora in vita, credo che ormai il giorno del suo ritorno sia passato per sempre. Ma ora dimmi, senza nascondermi nulla: chi sei e da dove vieni? Dov'è la tua città? Dove sono i tuoi parenti? Con quale nave sei giunto ad Itaca? Chi sono i tuoi compagni? Non credo che tu sia giunto sin qui a piedi. E dimmi ancora, sei giunto al mio palazzo per la prima volta, o sei stato ospite di mio padre? Ti chiedo questo perché molti stranieri frequentavano la nostra casa, quando egli vi abitava."
"Ti risponderò molto sinceramente. -disse la dea- Mi vanto di essere Mente, figlio del bellicoso Anchialo, regno sui Tafi che amano veleggiare sui mari. Son giunto ad Itaca con una mia nave e con dei compagni, sono diretto verso un popolo che parla una lingua diversa dalla nostra, a Temesa, dove scambierò il mio ferro con del bronzo. La mia nave è ancorata lontano dalla città, nella baia di Reitro, sotto il Neio boscoso. Io e tuo padre ci vantiamo di essere ospiti paterni l'uno dell'altro sin dalle origini. Puoi chiederlo al vecchio eroe, Laerte, padre di Odisseo. Dicono che ormai egli non si rechi più in città, e che viva lontano, in campagna, presso una vigna, con una vecchia ancella, che lo aiuta e gli porge cibo e bevande, quando ritorna stanco dal vigneto. Sono giunto qui, ora, perché qualcuno mi disse che tuo padre si trovava ad Itaca, mentre invece gli dei lo tengono ancora lontano. Infatti l'illustre Odisseo non è ancora sceso nel regno dei morti, ma è vivo, ed è trattenuto in qualche luogo lontano, nel vasto mare, da uomini selvaggi e crudeli, che gli impediscono di partire contro la sua volontà. Ascolta, ora ti dirò ciò che sento, perché gli dei immortali me lo mettono nel cuore, nonostante io non mi possa vantare di essere un indovino o un augure: Odisseo non starà a lungo lontano dalla propria patria, anche se lo trattenessero catene di ferro, perché un uomo di ingegno pari al suo riuscirà prima o poi a liberarsi da qualsiasi legame. Ma ora voglio porti una domanda: sei veramente suo figlio? Infatti gli somigli straordinariamente nel viso e negli occhi. Io e lui ci intrattenevamo molto spesso prima che si imbarcasse per Troia, dove si recarono i migliori degli Argivi, su concave navi. È da allora che io non vedo Odisseo, ed è da allora che lui non vede me."
Le disse di rimando Telemaco:
"Risponderò alle tue domande: La mia venerabile madre afferma che sono suo figlio. Io non saprei dirlo, perché nessuno ha mai conosciuto di persona il proprio padre. Ah! Se solo io fossi figlio di un uomo che vivesse nei suoi possedimenti, colto da una serena vecchiaia! Ma, poiché me lo chiedi, sappi che molti dicono che io sono il figlio dell'uomo più sventurato della terra."
"Certamente gli dei non decisero per te una discendenza senza gloria, -gli rispose Pallade- poiché Penelope ti generò così fatto. Ma dimmi, che banchetto o che riunione è mai questa? Perché ne hai avuto bisogno? È forse la festa per un matrimonio? Non mi pare che questo sia un banchetto pagato, e sembra che molti uomini insolenti vi partecipino. Uno straniero giunto nel vostro palazzo si sdegnerebbe di fronte a simili bassezze."
Il giovane riprese:
"Poiché vuoi sapere qualcosa di più riguardo a queste vicende ti dirò. Sappi che al mondo non vi fu casa più irreprensibile e ricca di questa, finché il suo padrone viveva nel suo paese. Ma gli dei decisero per lui una sorte diversa, meditando sinistri eventi. Non potrei essere più addolorato, neanche se egli fosse morto combattendo sotto le mura di Troia, fra i suoi compagni, o tra le braccia degli amici dopo che fosse finita la guerra. Infatti, se fosse successo questo, i Greci gli avrebbero alzato un monumento, e in questo modo avrebbe potuto dar gloria anche a suo figlio. Invece ora è stato portato chissà dove dalle arpie, se n'è andato ingloriosamente, e mi ha lasciato solo dolori e rovine. E io, lamentandomi, non piango più solo la sorte di mio padre, poiché ora gli dei hanno in serbo per me altri tristi affanni. Tutti coloro che regnano sulle isole vicine, su Dulichio, su Samo e sulla boscosa Zacinto, e quanti signoreggiano sulla scoscesa Itaca, bramano la mano di mia madre, e consumano i miei averi. E lei non può rifiutare un matrimonio, per quanto indesiderabile, né può porre fine a tutto questo. E intanto i Proci, banchettando da mattina a sera, distruggono tutte le mie sostanze e i miei averi, e fra poco distruggeranno anche me."
Atena, intenerita da queste parole, gli disse:
"Indubbiamente hai molto bisogno che Odisseo ritorni, e che punisca gli audaci pretendenti. Ah! Se solo ora egli entrasse e si fermasse sulla soglia del suo palazzo, con l'elmo, lo scudo e le due lance! Così lo vidi io per la prima volta, mentre beveva e si divertiva nella nostra casa, quando tornò da Efira e da Ilo, dove era stato per chiedere al figlio di Mermero un veleno mortale, che doveva servirgli per ungere le punte bronzee delle frecce; in realtà poi trovò questo veleno presso mio padre, poiché il Mermeride, temendo gli dei, non aveva osato donarglielo. Se solo egli si presentasse qui armato, sicuramente i proci avrebbero breve vita. Ma sta agli dei decidere quando tornerà, e se si potrà vendicare di questa gente. Perciò ti esorto a trovare il modo di liberarti di questi ospiti sgraditi. Ascolta le mie parole e pensa bene a ciò che ti dirò. Domani all'alba convoca in assemblea gli eroi Achei, rivolgi loro un discorso, e chiamando gli dei come testimoni ingiungi ai Proci di far ritorno alle loro case. E se tua madre desidera in cuor suo risposarsi, che torni alla casa di suo padre, dove sarà preparato il suo matrimonio e una ricca dote, come si conviene che abbia una figlia amata. Ascolta poi il consiglio che do a te: scegli una nave, la migliore, e salpa con venti rematori, va ad informarti sulla sorte di tuo padre che manca ormai da molti anni. Forse troverai chi sappia darti notizie attendibili sul suo destino, o forse udrai la voce di Zeus che saprà aiutarti. Prima va a Pilo, e interroga il saggio Nestore. Quindi recati a Sparta presso il biondo Menelao, poiché questi fu l'ultimo a giungere in patria tra tutti gli Achei che combatterono sotto le mura di Troia. Se per caso dovessi scoprire che Odisseo è ancora vivo, pazienta per un anno ancora. Se invece ti dovessero informare della sua morte, fai ritorno in patria, e preparagli un sepolcro, con ricchi doni funebri, quanti si addicano a lui, poi dai a tua madre un nuovo sposo. Quando avrai fatto tutto ciò, pensa, ed escogita un piano per poter uccidere i Proci in casa tua, o con l'inganno o apertamente. Ormai è passato per te il tempo dei trastulli e dei balocchi, sei diventato un adulto. Non odi la gloria a cui è stato elevato Oreste, dopo aver ucciso Egisto dai torti pensieri, assassino di suo padre?. Ma ora devo andare, i miei compagni mi aspettano da molto tempo. Dunque, amico mio, pensa a ciò che ti ho detto, e metti in atto i miei consigli: hai l'aspetto di un eroe, abbine il cuore, cosicché il tuo nome risuoni più forte nei giorni a venire."
Riprese il figlio di Odisseo:
"Senza dubbio mi dici queste cose con intenzioni amichevoli, come un padre a suo figlio, ed io me le ricorderò per tutti i giorni che mi aspettano. Ma tu, quantunque sia la fretta che hai di partire, fermati almeno per il tempo necessario ad un tiepido bagno, così, dopo che ti sarai riconfortato, ritornerai alla nave con un mio dono prezioso, che per te sarà un mio ricordo, di quelli che gli amici donano agli ospiti."
"Ora non posso veramente trattenermi più a lungo, -gli rispose la dea- desidero partire al più presto. Se il tuo cuore ti spinge a farmi un dono, lo porterò con me a Tafo, nella mia casa, e in cambio ti farò anch'io un dono gradito"
Dunque Atena dall'occhio ceruleo, dopo aver parlato, ispirò nel giovane forza e coraggio, e ravvivò nella sua mente l'immagine del padre. Poi si Alzò in volo, come un uccello, e sparì, lasciando il giovane stupefatto, che comprese solo in quel momento che il suo ospite era in realtà un dio, ma ciò gli diede più forza e vigore, e subito si diresse verso i Proci. Questi sedevano ascoltando il canto dell'aedo. E lui cantava, piangendo, del triste ritorno da Troia, che Pallade Atena crucciata aveva imposto agli Achei.
In alto, chiusa nelle sue stanze, Penelope colse quel canto divino. Scese le alte scale della sua casa, seguita da due ancelle. Non ancora giunta al cospetto dei Proci, si fermò presso la porta della sala e coprì il suo volto con gli splendidi veli della veste. Quindi piangendo si rivolse al divino aedo:
"Femio, dalla bocca divina, Poiché conosci storie degli dei e dei mortali, che gli aedi celebrano, narra una di queste, ed essi, ascoltando il tuo canto, bevano vino in silenzio. Ma cessa questo triste canto, che mi tormenta il cuore".
"Madre, -disse di rimando l'assennato Telemaco- perché vieti al dolce cantore di dilettarci come gli suggerisce il cuore? I guai che canta non accaddero certo per causa sua, ma fu Zeus a volerli, ed è lui che li manda quando e a chi vuole. Non mi sembra che Femio meriti il tuo sdegno perché ha cantato la triste sorte dei Danai. Gli uomini amano maggiormente udire un canto che non hanno mai sentito prima, e che giunge a loro nuovo. Dunque non ti deve pesare l'udire questo canto, perché mio padre non è il solo che non ha potuto far ritorno alla sua casa dopo la guerra, molti altri uomini morirono. Ora risali alle tue stanze e preoccupati dei tuoi lavori, la tela e la canocchia, e comanda alle ancelle di mettersi al lavoro. Dei discorsi si devono occupare gli uomini, e questo è mio dovere più che di ogni altro, devo badare a queste faccende, perché sono io l'uomo in questa casa."
Penelope, stupefatta, serbò nel suo cuore le parole del figlio, e fece ritorno alle sue stanze con le ancelle, e qui pianse a lungo il caro sposo Odisseo, finché Atena le inviò sulle palpebre un dolce sonno. I Proci, ancor più accesi dal desiderio di sposarla, dopo averla vista, rumoreggiarono nel palazzo ombroso. Ma Telemaco disse loro:
"Pretendenti di mia madre, oltraggiosi e insolenti, ora divertiamoci al banchetto, e non si facciano schiamazzi, perché è bello ascoltare il canto di un vate come questo, pari agli dei per voce. Ma, una volta sorto il sole, ci raduneremo tutti nella piazza, dove vi dirò senza paura di uscire dal mio palazzo. Occupatevi di altri banchetti, mangiate fra voi le vostre ricchezze alternandovi fra le vostre case, ma se vi sembra meglio vivere a spese di uno solo fra voi, fatelo. Io invocherò gli dei immortali, e se Zeus mi darà una ricompensa per i miei patimenti, punirà le vostre colpe, e il vostro sangue tingerà queste pareti."
Tutti i Proci si stupirono e si morsero le labbra, inarcando le sopracciglia, poiché Telemaco aveva parlato come un uomo coraggioso. Per tutti loro parlò Antinoo figlio di Eupite:
"Certamente ti insegnarono i numi, a parlare con un tale coraggio, e come un grande oratore. Mi auguro che il re dell'Olimpo Zeus non ti ceda mai lo scettro di Itaca, circondata dai mari."
Riprese a parlare Telemaco:
"Forse, Antinoo, mi serbi rancore per quanto ho detto? Sappi che otterrò anche questo, col favore di Zeus. O forse pensi che regnare per un uomo sia una cosa assai negativa? Io di certo non penso questo, perché ad un re splende subito il tetto sopra la testa e subito diviene più onorato. Ma sono molti quelli che a Itaca potrebbero governare, giovani e vecchi, perché ormai mio padre giace sotto terra. Nessuno però potrà mai togliermi la mia casa e i miei schiavi, ed io qui regnerò, perché tutte queste cose egli preparò solo per me."
Si alzò allora Eurimaco figlio di Polibo, e disse:
"Telemaco, saranno gli dei a decidere chi fra gli Achei regnerà su Itaca. Indubbiamente tu sei il padrone della tua casa, e nessuno ti priverà delle tue ricchezze finché Itaca sarà abitata. Ma ora voglio chiederti di quello straniero giunto oggi ad Itaca. Da dove giunse? Di quale terra si vanta di essere? Dov'è la sua stirpe e la sua patria? Forse ha portato qualche notizia sull'imminente ritorno di tuo padre? O è giunto qui per un suo affare? Se n'è andato in fretta, sembrava quasi che volesse stare in disparte da noi. Di certo non aveva affatto l'aspetto di un pover uomo."
Riprese a parlare Telemaco:
"Ormai non credo più alla notizia del ritorno di mio padre, figlio di Polibo. Mia madre accoglie ancora indovini, e ascolta notizie, ma io non mi curo più, né di notizie né di indovini. Lo straniero è mio ospite paterno, si vanta di essere Mente, figlio del bellicoso Anchialo, e regna sui Tafi, che amano il mare."
Rispose così, ma dentro al suo cuore aveva riconosciuto la dea immortale discesa dal cielo. I Proci, volgendo lo sguardo alle danze e ai canti, si rallegrarono, e aspettarono che calasse il buio della sera. E finalmente l'oscura sera sopraggiunse su loro che si divertivano, e ciascuno di essi andò a riposarsi nella propria casa.
Telemaco si recò nella stanza che era stata costruita per lui nel magnifico giardino, in un luogo che guardava da ogni parte, con l'animo turbato da molti pensieri. Lo seguiva l'ancella Euriclea, figlia di Ops Pisenoride. Quando era ancora giovane e bella l'aveva comprata Laerte, dando il valore di venti buoi, né la toccò mai, temendo di incorrere nelle ire della consorte, nonostante l'avesse cara al pari suo. Euriclea portava delle fiaccole accese, seguendo Telemaco, lo amava come se fosse suo figlio, e lo aveva cresciuto fin da bambino. L'ancella aprì la porta della stanza, Telemaco entrò e si sedette sul letto, si sfilò la veste sottile e la diede in mano alla donna, che la piegò con arte e la pose accanto al letto, poi uscì dalla stanza, tirò la porta con l'anello d'argento, tirò la fune e il chiavistello scorse. Nella stanza buia il ragazzo dormiva, sotto una coperta di lana, pensando, per quell'intera notte, al viaggio che Atena gli aveva posto in cuore.
ODISSEO
È l'eroe e il protagonista del poema, il suo nome latino è Ulisse. In questo primo canto non viene citato se non indirettamente, ma anche quando non è fisicamente presente, Odisseo domina il poema perché non si parla che di lui e del suo sospirato ritorno in patria, o della sua temuta morte. Figlio di Laerte, marito di Penelope e padre di Telemaco. Fin dall'inizio del poema vengono delineati i suoi tratti essenziali, è descritto come l'uomo dal multiforme ingegno titolo che senza dubbio rispecchia perfettamente la sua indole. Si tratta di un eroe totalmente differente dall'Achille dell'Iliade, questi infatti sconfigge tutti i suoi nemici con l'uso della forza, mentre Odisseo è prima di tutto astuto: sua è l'idea del cavallo di Troia, come ci spiega Virgilio nell'Eneide, ed è sempre lui che riesce a salvare i suoi compagni dalle mille peripezie del loro viaggio, almeno finché non giungono all'isola del Sole Iperione. Nell'invocazione alla Musa, vengono messi in risalto tutti gli aspetti fondamentali della sua personalità ed anche le principali tappe della sua vicenda: il suo lungo peregrinare, la conoscenza di uomini e luoghi diversi, le pene sofferte. Tutte le sue esperienze di dieci anni sono sintetizzate nei primi quattro versi del poema con quattro verbi: Errò (πλάγχθη), Vide (ίδεν), Conobbe (έγνω), Patì (πάθεν).
Con lui il poeta sembra voler celebrare l'esaltazione dell'uomo comune sulla divinità.
TELEMACO
Figlio di Penelope e di Odisseo, che lo lasciò ancora bambino quando partì per la guerra di Troia. All'epoca dei fatti Telemaco ha circa vent'anni. È lui il vero protagonista di questo primo canto, così come dei tre seguenti, che fanno appunto parte della Telemachia, il viaggio di Telemaco alla ricerca di notizie sulla sorte del padre. Il giovane non può essere riconosciuto, secondo le usanze del tempo, legittimo successore di Odisseo, in assenza del padre, così come afferma lui stesso parlando con uno dei Proci, Antinoo:
".sono molti quelli che a Itaca potrebbero governare, giovani e vecchi, perché ormai mio padre giace sotto terra".
Omero ci presenta il giovane figlio dell'eroe, in mezzo ai Proci che banchettano nella reggia. All'inizio del canto, il giovane ci appare come una figura scialba e incolore, priva di una propria personalità, forse a causa dell'assenza del padre, proprio negli anni in cui ne avrebbe avuto maggior bisogno, è cresciuto infatti in un ambiente triste, con la madre sempre in lacrime, ed il nonno ormai vecchio e stanco. Ma quando la dea Atena, sotto le sembianze di Mente, gli infonde coraggio e lo sprona, sembra divenire tutto d'un tratto un uomo adulto, desideroso di agire. Per la prima volta si oppone coraggiosamente ai Proci, affrontandoli e minacciandoli di una tremenda vendetta, che avrebbe ottenuto con l'aiuto degli dei, se non fossero partiti per sempre dalla sua casa. Telemaco è un giovane forte e lo dimostra più volte, ma quando la sera si ritira nella propria stanza, vuole che la sua anziana nutrice Euriclea lo accompagni con il lume della torcia, come fosse ancora un bambino. Dal suo animo traspare l'ingiustizia che sta subendo, e sogna il ritorno del padre, per ristabilire l'ordine nella reggia; d'altro canto però egli non reagisce a questa situazione e non vi si oppone, almeno fino all'intervento di Atena. Benché ancora molto giovane Telemaco dimostra un grande rispetto verso gli ospiti, infatti si dispiace che Atena, sotto le sembianze di Mente, sia rimasta a lungo sull'ingresso della reggia, senza essere invitata da qualcuno ad entrare. Al re confida la sua pena per la sorte di Odisseo, la cui morte lo ha privato della gloria che altrimenti avrebbe avuto. Spesso Telemaco tratta sua madre molto duramente, nonostante sia evidente l'affetto che nutre per lei, quando più volte la difende dagli attacchi dei Proci; ma il suo affetto per Odisseo è addirittura immenso, quasi idolatria, sebbene non lo abbia nemmeno conosciuto, del resto nella reggia ogni cosa sembra parlare del padre. Per questo nella mente del giovane, Odisseo diviene modello di perfezione e imitazione.
PROCI
Sono giovani nobili della città di Itaca e delle isole vicine: Samo, Dulichio e Zacinto, che aspirano alla mano di Penelope, bellissima moglie di Odisseo. Ritenendo morto quest'ultimo, e approfittando della giovane età di Telemaco, invadono la reggia, consumando le ricchezze di Odisseo e banchettando con il suo cibo. Da tre anni vivono ormai nel palazzo dell'eroe, aspettando una decisione di Penelope, che, rimasta fedele al marito, lo attende, e non vuole risposarsi. Appena constatano la sicurezza e la determinazione acquisite da Telemaco ormai cresciuto, i Proci rimangono atterriti e tramano vendetta per le sue aspre parole e per le sue minacce di scacciarli dal palazzo. Si capisce che in tutta l'Odissea i pretendenti devono apparire come vittime predestinate di una giusta vendetta, eppure nel descriverli, con tutta la loro arroganza, superbia e insolenza, il poeta non riesce a dimostrare che essi sono completamente dalla parte del torto: più che altro si limita a mettere in luce i lati odiosi del loro comportamento e arriva a dare addirittura quei giudizi morali che nell'Iliade erano così rari.
Antinoo, figlio di Eupite, capeggia i Proci, dei quali è anche il più arrogante. Quando Telemaco intima ai Proci di lasciare la reggia, è lui che risponde in modo insolente, augurandogli di non divenire mai re di Itaca. Afferma anche che loro se ne andranno solo quando Penelope avrà scelto uno sposo, e ingiunge a Telemaco di costringere sua madre alle nozze, rimandandola nella casa di suo padre.
Eurimaco, figlio di Polibo, insieme ad Antinoo è uno dei capi dei Proci. Anch'egli dice a Telemaco di rimandare la madre alla casa paterna, perché si scelga un nuovo sposo, inoltre è sempre lui a porre fine, con un atteggiamento di falsa magnanimità, alla disputa fra Antinoo e Telemaco, su chi debba essere il re di Itaca.
PENELOPE
Figlia di Icario, madre di Telemaco e fedele moglie di Odisseo. Da vent'anni attende il ritorno del suo sposo, trascorrendo le lunghe ore del giorno nella solitudine delle sue stanze, con il pensiero e il cuore costantemente rivolti al consorte. Le sue uniche occupazioni sono tessere, e piangere la sorte del marito, o accogliere indovini e stranieri che la confortino con notizie anche false. Forse è l'unica a credere veramente nel giorno del ritorno di Odisseo, eppure, quando quel giorno arriva, non sa se credere a ciò che vede. Molto spesso viene trattata duramente dal figlio Telemaco, che ama profondamente; come quando, sentendo cantare da un aedo la storia della guerra di Troia, chiede di non sentire quella canzone che le turba l'animo, ma viene quasi rimproverata da Telemaco, che le risponde dicendo che ciò che il cantore narra non è certo avvenuto per colpa sua, e che lei dovrebbe occuparsi di attività atte ad una donna, e non intromettersi nelle faccende degli uomini. Penelope non reagisce, e capisce che il figlio non è più un ragazzo, ma sta diventando un uomo, e deve comportarsi come tale, perciò ubbidisce al suo volere e si ritira quando le viene chiesto di farlo.
ATENA
Il suo nome latino è Minerva. È la figlia preferita di Zeus, ed è la dea dalla saggezza, della guerra e delle arti. Nell'Odissea è la protettrice di Odisseo, e di suo figlio Telemaco. Guida l'eroe nel suo viaggio di ritorno e nelle vendetta; per i suoi scopi all'occorrenza assume l'aspetto di un uomo, di una fanciulla o di un giovane. È Atena che convince Zeus a far si che Odisseo lasci l'isola di Ogigia per far ritorno alla propria terra. Sotto le sembianze di Mente, re dei Tafii, si reca ad Itaca per consigliare a Telemaco di partire in cerca di notizie del padre. Nei momenti cruciali è sempre al fianco di Odisseo per aiutarlo e consolarlo. È il suo intervento che determina e condiziona gli avvenimenti, come quando nel primo canto, sprona Telemaco, infondendogli vigore e coraggio, e ravvivando in lui l'immagine del padre, per questo poi il giovane sembra più risoluto e più adulto, anche nell'atteggiamento verso i Proci e verso la madre. È sempre la dea che aiuta Penelope nei momenti di sconforto e di pianto, avvolgendola in un dolce sonno ristoratore, e dandole coraggio e speranza.
ZEUS
Il suo nome latino è Giove. È il padre degli dei. Atena, durante la riunione per decidere il destino di Odisseo, si lamenta con lui per la triste sorte dell'eroe. Zeus, afferma che la colpa del destino degli uomini non è certo sua, ma della loro stessa stoltezza, e ribadisce che non è lui ad essere irato con Odisseo, ma il dio dei mari Poseidone. Si dimostra però il dio della Giustizia, quando acconsente a lasciar partire Odisseo dall'isola di Ogigia, dove lo tiene relegato la ninfa Calipso, e per questo le invia Ermes, messaggero degli dei, per informarla del suo volere. Molto spesso è lui stesso ad aiutare Odisseo a salvarsi. Anche se dietro richiesta del dio Sole è costretto a punire con la morte tutti i suoi compagni, che si erano nutriti con i buoi sacri al dio.
COMMENTO PRIMO CANTO
Così come nel primo poema attribuito ad Omero, l'Iliade, il primo canto dell'Odissea si apre con un proemio, con il quale il poeta chiede a Calliope, Musa della poesia epica, di ispirarlo, permettendogli di narrare la storia dell'eroe Odisseo.
Nel proemio questo eroe ci viene descritto come uomo ingegnoso, che viaggiò molto e conobbe molti popoli, è un tipo di eroe totalmente diverso dall'Achille dell'Iliade, che sconfigge i nemici con la sua grande forza. Odisseo non appare però per tutta la durata del primo canto, che fa parte, come i tre seguenti, della Telemachia, ossia il viaggio di Telemaco, figlio di Ulisse (nome latino dell'eroe), che parte, ispirato dalla dea Atena, alla ricerca di notizie sulla sorte del padre. Il primo canto ci dà un' idea generale sulla sorte di Odisseo, e ci informa sui fatti accaduti ad Itaca dopo la sua partenza. La sua reggia è stata invasa dai Proci, i principi delle zone circostanti, che aspirano alla mano di sua moglie Penelope, rimastagli fedele nonostante siano passati ormai vent'anni dalla sua partenza per Troia. D'altra parte il povero Telemaco è ancora troppo giovane per poter difendere da solo la sua casa e sua madre dalle angherie dei Proci.
Questo canto può essere suddiviso in diverse parti, a seconda dei cambiamenti di scena e dell'ambientazione.
La prima parte è esclusivamente introduttiva. In questa parte è compresa l'invocazione alla Musa, con la quale il poeta, oltre a rivolgersi alla sua dea ispiratrice, la stessa dell'Iliade, ci svela alcune importanti caratteristiche del suo personaggio, e racconta la situazione che si presenta ad Itaca nel periodo in cui Odisseo deve lasciare l'isola di Ogigia per fare ritorno in patria; inoltre ci informa delle tragiche circostanze in cui Odisseo perde i suoi compagni: "poiché mangiarono i buoi sacri al Sole Iperone".
Subito dopo questa breve sezione, Omero ci parla della riunione degli dei sull'Olimpo, per decidere della sorte di Odisseo. In questa seconda parte entrano in scena le due divinità protagoniste di tutto il canto, in primo luogo Atena, la dea della sapienza, protettrice di Odisseo e di suo figlio Telemaco, che conserva gli stessi epiteti attribuitigli nell'Iliade (Pallade Atena, o Atena dall'occhio ceruleo); l'altra divinità protagonista di questo primo canto non è altri che Zeus, padre dei numi, o addensatore di nubi (sempre gli stessi epiteti che troviamo nel primo poema). Come dei in questo canto troviamo anche il Sole Iperione, Ermes il messaggero e Poseidone, dio ostile ad Odisseo, perché accecò suo figlio, Polifemo il Ciclope, che è momentaneamente assente, si trova infatti presso il popolo degli Etiopi, e ritornerà solo quando Odisseo salperà dall'isola di Ogigia. Questi dei però vengono citati solo indirettamente. È interessante riportare il mito di Oreste, che ricorre molto spesso nel brano. Zeus prende per primo la parola, durante l'assemblea degli immortali, proprio ricordandosi della morte di Egisto, ucciso appunto da Oreste, figlio di Agamennone per vendicare la morte del padre, da lui assassinato con la complicità della moglie dell'eroe, Clitemnestra.; non viene però precisato che Oreste ucciderà anche sua madre, e per questo sarà perseguitato per tutta la vita dalle Erinni. In ogni caso Oreste viene assimilato a Telemaco, e i Proci, superbi pretendenti alla mano di sua madre Penelope, vengono assimilati ad Egisto, e in effetti faranno la sua stessa fine, come predice in un certo senso la dea Atena, quando dice, riferendosi alla sorte di Egisto: chiunque faccia tali cose, si merita la sua stessa fine.
Dopo questa seconda parte, Atena si reca alla reggia di Odisseo, ad Itaca, per riconfortare il povero Telemaco. E qui si viene alla terza parte, dove ricorre il tema del dio che, sotto mentite spoglie, discende sulla terra per intervenire nelle faccende dei mortali, così come, del resto, avveniva nell'Iliade quando gli dei che parteggiavano per i Greci o per i Troiani, assumevano spoglie mortali per difendere i loro protetti. Sempre in questa parte, che comprende il dialogo tra Atena (sotto le sembianze di Mente, capo dei Tafi) e Telemaco, si ha un quadro generale dello stile di vita dei Proci, che approfittando della loro forza di gruppo, vivono a spese di Odisseo, nella sua casa, trattando Telemaco con arroganza e superbia. Descrivendo i loro modi di fare, Omero vuole portare a due poli opposti le loro figure e quella di Odisseo, in modo che il lettore, alla fine del poema, debba trovare giusta la morte che viene loro inflitta da Odisseo. Sempre in questa sezione, possiamo trovare molti brani interessanti sugli usi dei Greci a banchetto, e sembra quasi di rivivere la scena, quando Omero ci parla degli araldi, e delle ancelle, che versano vino nei crateri d'oro, e acqua nei catini d'argento, perché gli ospiti possano lavarsi prima del pranzo; tutti frammenti che testimoniano anche la ricchezza della casa di Odisseo; interessante è soprattutto la scena della vecchia ancella che porta dei pani, ricolmi di ogni sorta di cibo, in questo modo gli ospiti, dopo il pasto, potevano, nel vero senso della parola, mangiare anche i piatti. Un'altra citazione interessante riguarda il senso di ospitalità dei Greci, si può notare per esempio lo sdegno di Telemaco, quando lo straniero (ossia Atena) sta così a lungo sulla porta nella sua casa; oppure quando Telemaco parla con Mente (sempre Atena), questi gli dice che si può vantare di avere un legame di ospitalità con suo padre, e viceversa, fin dalle origini.
Quando Atena si alza in volo, dopo aver infuso coraggio nel cuore di Telemaco, mostra la sua natura divina, e il giovane, rinfrancato da quell'apparizione, si alza per andare a parlare con i superbi Proci. Si passa così alla quarta parte.
Lo straniero se n'è andato, e Telemaco si sente incoraggiato e capisce che non può più passare il tempo nella disperazione, ma deve agire, perché ormai sa di essere divenuto un uomo. E lo dimostra nella scena seguente.
Femio, l'aedo, ha intonato un canto che parla della guerra di Troia, a cui vent'anni prima aveva partecipato Odisseo (questo è in effetti l'episodio di collegamento fra i due poemi). Penelope, udendolo, scende dalle sue stanze, ed entra nella sala, intimandogli di smettere, perché sono ricordi troppo dolorosi per il suo cuore.
Qui interviene Telemaco, che dice alla madre, quasi con asprezza, che non è certo del cantore la colpa di quelle disgrazie, e la prega di tornare alle sue stanze a tessere, e di non intervenire più nelle faccende degli uomini. Penelope, stupita dalle parole del figlio, ammutolisce, ma poi, come se comprendesse che è ormai tempo che sia lui l'uomo di casa, ubbidisce e torna nelle sue stanze. Sembra che Telemaco sia effettivamente cambiato dopo le parole della dea, e lo dimostra anche attaccando i Proci, che festeggiano come se nulla fosse, augura loro addirittura la morte, nella sua stessa casa. In un primo momento anch'essi restano sbigottiti, ma subito il più arrogante, Antinoo, risponde con insolenza, seguito da Eurimaco, non inferiore a lui quanto a prepotenza, che suggerisce a Telemaco di mettere da parte l'astio, e di sedere con loro a banchetto. In questa sezione il carattere insolente ed arrogante dei Proci si manifesta apertamente, e viene opposto alla gelida rigidezza di Telemaco, che senza scatti d'ira, parlando da uomo, preannuncia ai pretendenti la loro stessa fine, invocando come testimoni gli dei. L'immagine proposta delle pareti coperte di sangue, rende l'idea di ciò che succederà in quella stessa sala ventun libri più tardi.
A questo punto si passa alla quinta ed ultima parte.
Cala la sera sui commensali che banchettano, cessa il dolce canto dell'aedo, cessano le urla e gli schiamazzi. Tutto e pace e silenzio. Ciascuno si reca nella propria casa a riposare. L'idea di pace è tranquillità viene resa veramente in modo sublime dal poeta. Tutto si conclude con l'ancella Euriclea che accompagna Telemaco nelle proprie stanze, a lume di fiaccola, per poi chiudere il chiavistello della porta e andarsene. Nel sonno Telemaco medita le parole che Atena gli ha posto nel cuore.
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