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NICCOLO' MACHIAVELLI
La vita dell'autore
Nasce nel 1469 da antica famiglia borghese. Nel 1498, dopo la caduta del regime repubblicano retto da Gerolamo Savonarola e l'instaurazione di un governo moderato, ottiene presso la Repubblica fiorentina le cariche di segretario della seconda cancelleria e della magistratura dei Dieci di libertà e pace, che manterrà fino al 1512.
Nel 1499 segue le operazioni dell'esercito fiorentino nella guerra contro Pisa; viene inviato come ambasciatore presso Caterina Riario Sforza di Forlì. Nel 1500 si reca in missione diplomatica in Francia, alla corte di Luigi XII, per ottenere l'aiuto nella lotta per la riconquista di Pisa. Nel 1501 sposa Marietta Corsini, da cui avrà sei figli. Compie missioni a Pistoia e Siena. Nel 1502 svolge due missioni diplomatiche presso Cesare Borgia duca di Valentinois (il Valentino). Diventa consigliere e collaboratore di Pier Sederini, eletto gonfaloniere della Repubblica. Nel 1504 svolge una seconda ambasciata presso la corte di Luigi XII, per ottenere l'appoggio della Francia alla città di Firenze, minacciata da Venezia, da Pisa e dalla Spagna. Nel 1506 contribuisce alla riorganizzazione dell'esercito fiorentino; è eletto segretario dei Nove ufficiali dell'ordinanza e della milizia. Tra il 1507 e il 1509 svolge due missioni diplomatiche presso l'imperatore Massimiliano d'Asburgo.
Tra il 1510 e il 1511 si reca per due volte in missione presso Luigi XII.
Nel 1512 con la caduta del regime repubblicano e la restaurazione del principato dei Medici, viene licenziato da tutti i suoi incarichi. Nel 1513 sospettato di complicità nella congiura antimedicea organizzata da Pier Paolo Boscoli, viene imprigionato e torturato; dopo la liberazione, si ritira nel suo podere di campagna, presso San Casciano in Val di Pesa. Scrive Il Principe e inizia la stesura dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Nel 1514 torna a Firenze e tra il 1515 e il 1517 porta a termine la composizione dei Discorsi.
Nel 1518 scrive una commedia (La Mandragola) e una novella (Belfagor arcidiavolo). Traduce la commedia Andria del poeta latino Terenzio. Nel 1519 inizia a scrivere l'Arte della guerra. Nel 1521 pubblica i sette libri del dialogo Dell'Arte della guerra.
Nel 1525 consegna al pontefice Clemente VII (Giulio de' Medici) le Istorie fiorentine. Viene rievocato il suo bando dagli incarichi politici: svolge missioni diplomatiche e militari in Emilia e in Romagna, presso Francesco Guicciardini; è eletto provveditore e cancelliere dei Procuratori alle mura, responsabili della difesa di Firenze.
Nel 1527 dopo la caduta del principato mediceo, il governo repubblicano lo esclude dagli impieghi pubblici; muore a Firenze il 21 giugno.
Un classico legato alla contemporaneità
Il Principe di Niccolò Machiavelli, capolavoro della letteratura italiana ed europea del Rinascimento, è un'opera della fisionomia e del destino singolari. Composto in pochi mesi tra il 1513 e il 1514, esso doveva servire, secondo il progetto di Machiavelli, a raggiungere tre obiettivi: illustrare le regole di comportamento che, in ogni situazione, consentono a un uomo di valore la conquista e la conservazione del potere; spronare al riscatto i principi italiani soggiogati dal dominio francese e spagnolo, affinché fra loro si affermasse un condottiero capace di risollevare le sorti politiche e militari della nazione; assicurare all'autore le simpatie e i favori della potente famiglia Medici, che aveva nelle proprie mani il controllo sia di Firenze, sia di Roma e dello Stato della Chiesa. Scrivendo Il Principe, Machiavelli dunque di intervenire nella situazione politica del suo tempo e insieme mirava a mostrare le proprie competenze, nella speranza che i Medici, conosciute le sue qualità di scrittore e di diplomatico, lo chiamassero alle loro dipendenze.
Ma questi risultati non vennero raggiunti: nessuno dei principi italiani seppe raccogliere le idee e gli auspici di Machiavelli e la famiglia Medici non gradì la dedica e l'omaggio dell'opera, preferendo rimanere estranea al grande disegno teorizzato nel Principe. Così l'opera, scritta mettendo a frutto anni di studi e di meditazioni sull'arte del governo, non poté neppure essere pubblicata e, circolando solo in poche coppie manoscritte, fu quasi dimenticata. Alla morte di Machiavelli, nel 1527, il trattato era ancora inedito e quando venne stampato per la prima volta nel 1532, in un panorama politico profondamente mutato, aveva ormai perduto parte della sua carica propulsiva e rivoluzionaria.
La fortuna postuma
Trascurato durante la vita dell'autore, Il Principe ebbe una straordinaria fortuna postuma, che arriva fino ai nostri giorni. Il testo, fuori dal contesto politico e individuale nel quale era stato pensato e scritto, è divenuto uno dei punti di riferimento fondamentali della cultura occidentale, e intorno a essi si sono interrogati filosofi, letterati e uomini di governo di ogni secolo e paese. Machiavelli aveva composto Il Principe tenendo presente la situazione dell'Italia all'inizio del Cinquecento, ma ben presto i lettori delle epoche successive hanno individuato nelle sue riflessioni una rilevanza di carattere universale.
In questa prospettiva, la storia della fortuna postuma del Principe è segnata anche da ambiguità e contraddizioni: da un lato, a partire dal Sei e Settecento, alcuni pensatori e uomini di governo hanno eletto l'opera a caposaldo della propria filosofia politica. Dall'altro, fin dal Cinquecento, assai più numerosi sono stati i critici e i detrattori che hanno visto il condottiero vagheggiato nel Principe come prototipo del governante malvagio e ipocrita. In Inghilterra si diffuse un'immagine caricaturale che raffigurava Machiavelli come il demoniaco allievo di Lucifero, divulgatore di propositi "infernali" e celebratore dell'azione politica e dell'impresa militare condotto contro i valori tradizionali dell'etica e della morale. Il termine machiavellismo e l'aggettivo machiavellico sono stati così assunti in tutte le lingue europee per definire ogni comportamento, in primo luogo politico, senza principi e senza scrupoli, basato sull'inganno e la violenza.
La genesi dell'opera
Machiavelli scrisse Il Principe quasi di getto, tra il 1513 e il 1514, con alcune aggiunte e correzioni nei due anni seguenti. In quel periodo lo scrittore aveva alle spalle la stagione più felice della sua vita: tra il 1498 e il 1512, infatti, era stato parte attiva nella guida politica di Firenze in qualità di segretario della Seconda Cancelleria. Nel 1512, tuttavia, con l'appoggio della Spagna e di papa Giulio II, la famiglia Medici rientrava in Firenze e metteva fine al regime repubblicano moderato retto dal "gonfaloniere" Pier Sederini, da cui dipendevano le fortune dello stesso Machiavelli: il 7 novembre Niccolò venne licenziato dal suo incarico e, nel febbraio dell'anno successivo, arrestato con l'accusa di aver sostenuto una congiura per uccidere il duca Giuliano de' Medici. Dopo alcune settimane di prigione, Machiavelli uscì dal carcere il 12 marzo 1513, a seguito della grazia concessa in occasione dei festeggiamenti che celebravano l'elezione a papa del cardinale Giovanni de' Medici.
Il fallimento delle speranze
Le attese di Machiavelli furono tuttavia tradite e in pochi anni le sue speranze politiche e militari si rivelarono prive di fondamento. Terminata la stesura dell'opera, Machiavelli scoprì con delusione la diffidenza e il disinteresse della famiglia Medici e dei primi lettori; per superare l'amarezza egli si rivolse dunque ad altri progetti, umani e letterari. Rientrato a Firenze, iniziò a frequentare il circolo antimediceo legato all'aristocratica famiglia Rucellai; portò a termine la composizione dei Discorsi e dell'Arte della guerra; scrisse opere per il teatro fra cui, nel 1518, La Mandragola, considerata la più bella commedia italiana del Rinascimento.
Mentre varie copie manoscritte del Principe, dopo la presentazione ufficiale dell'opera a Lorenzo de' Medici, circolavano fra gli amici dell'autore, Machiavelli fu richiamato dalla potente famiglia fiorentina e riamesso all'attività politica. Quando, nel 1527 i Medici furono nuovamente cacciati da Firenze, nella città venne restaurato il regime repubblicano: Machiavelli, sospetto al nuovo governo, non ottenne alcun incarico e morì nel maggio di quello stesso anno.
Nel 1532, per intercessione dell'amico Biagio Buonaccorsi, fu pubblicata a Roma e a Firenze, la prima edizione a stampa del Principe. Scomparso l'autore, l'opera venne sottoposta dagli editori a una profonda rielaborazione, sia sotto il profilo lessicale sia a livello sintattico, per uniformarla alle concezioni linguistiche dominanti.
I nuclei tematici del trattato
Il trattato è introdotto da una lettera di dedica indirizzata a Lorenzo de' Medici, la cui famiglia, per splendore e potenza, appariva il destinatario ideale del progetto politico di Machiavelli.
Escluso il prologo, che specifica il contesto storico e politico a cui l'opera fa riferimento, la struttura del Principe è nettamente divisa in due parti, che corrispondono ai nuclei ispiratori del trattato e ai tempi della composizione, scandita tra il 1513 e il 1514. La prima parte, scritta probabilmente entro il dicembre del 1513, corrisponde ai capitoli I - XI e costituisce il nucleo più antico dell'opera, formando un testo compiuto e ben definito, una sorta di libro dentro il libro. In questa sezione Machiavelli sviluppa una riflessione di taglio prevalentemente teorico e filosofico sulla natura del potere principesco attraverso un discorso organico, mirato a identificare e definire le dinamiche che, in ogni epoca, portano alla conquista e alla conservazione dello stato da parte di un principe.
La seconda parte del Principe (capitoli XII - XXVI), aggiunta nel corso del 1514, modifica l'assetto dell'opera e determina un mutamento di prospettiva. Machiavelli procede infatti nell'approfondimento di argomenti specifici della sua epoca. Vengono passati in rassegna il tema delle armi, le modalità di comportamento del principe con i sudditi e con gli amici, gli aspetti peculiari della situazione politico - militare italiana. Le regole e i precetti generali esposti nella prima parte del Principe vengono dunque utilizzati dall'autore per proporre una soluzione alla decadenza morale e civile della patria.
Il capitolo XXVI chiude il trattato e svolge una funzione speculare rispetto alla lettera dedicatoria introduttiva. L'autore infatti esorta la famiglia Medici ad agire, a cogliere l'occasione offerta dalla storia per estendere il proprio dominio a tutta l'Italia e liberarla così dall'oppressione degli stranieri.
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