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Letteratura latina




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LETTERATURA LATINA


Medea, un'eroina senecana

La tragedia "Medea" più di tutte esplicita la potenza delle donne, sovente sottovalutata, che impaurisce l'uomo.

Nonostante la protagonista sia divisa tra il ruolo di madre e moglie tradita, poiché abbandonata dal marito, riesce a sovrastare Giasone distruggendo tutto ciò che egli ama, infrangendo lo stereotipo di donna fragile e succube del volere maschile.

Medea quindi, con il suo spaventoso coraggio, si trasforma in un'eroina femminista ante litteram capace di vendicare le altre eroine delle letteratura, Arianna, Didone, Calypso, anch'esse sedotte e abbandonate.


I modelli

La tragedia senecana viene definita palinsestica, poiché l'autore sovrappone diversi modelli al fine di crearne uno proprio. Egli sfrutta molteplici fonti per creare la sua opera, il tema di Medea infatti non è nuovo alla letteratura greca e latina e viene trattato da svariati autori, non solo dall'attico Euripide (che presenta la vicenda come Seneca in medias res), ma anche autori successivi, come Apollonio Rodio (le Argonautiche, in cui si raccontano la giovinezza della maga e l'antefatto della tragedia, non presente in Euripide) e Ovidio (Heroides, in cui emerge la rabbia e il lamento dell'eroina abbandonata), più funzionali al suo progetto etico[1]. Tuttavia il risultato che si ottiene è piuttosto disarmonico, il senso del testo risulta pienamente coglibile solo da lettori colti che comprendono le allusioni intertestuali e che sono in grado di riflettere sulla vicenda narrata.


La trama (antefatto)

Giasone, figlio del re di Iolco, Esone, spodestato dal fratello Pelia, parte alla ricerca del vello d'oro per soddisfare la richiesta dello zio e quindi recuperare il trono che gli spetta.

Giunto nella Colchide insieme ai suoi compagni, gli Argonauti, conosce la giovane maga Medea, figlia del re Eeta, che lo aiuterà ad impossessarsi del vello dopo aver superato numerose prove. La donna decide di aiutare il giovane se in cambio egli la sposerà e la porterà con sé; Giasone accetta e supera con successo le difficili prove grazie ai trucchi svelatigli da Medea.

Noncuranti del disappunto del re Eeta, nottetempo Giasone, gli Argonauti, Medea e il giovane fratello Absirto salpano verso Iolco con il vello. Eeta, accortosi del "furto" parte all'inseguimento, ma Medea, prevedendo la reazione del padre, uccide il fratello e ne disperde le membra in mare, per rallentare così la corsa del genitore.

Tornati a Iolco però il re, zio di Giasone, non mantiene la parola nonostante il nipote abbia esaudito la sua richiesta. Il giovane chiede di nuovo aiuto a Medea che, ingannando le figlie del re (promette loro che il padre,attraverso una formula magica, sarebbe ringiovanito se fatto a pezzi e messo a bollire in un pentolone) fa uccidere il padre alle stesse.

Giasone e la consorte ora diventerebbero i sovrani di Iolco, se non fosse che il popolo, alla luce delle azioni malvagie e soprannaturali di Medea, è loro avverso e costringe i due a fuggire. Giungono infine a Corinto dove vivono serenamente.

La tragedia senecana inizia quando, dopo anni di convivenza e due figli avuti con Medea, Giasone viene scelto da Creonte, re di Corinto, come futuro sposo della giovane figlia Creusa per dare allo stesso la possibilità di successione al trono. Giasone accetta abbandonando Medea e i figli. L'indifferenza di Giasone davanti alla disperazione della moglie suscita in essa un desiderio di vendetta.

Fingendosi rassegnata, invia un dono alla giovane Creusa, un mantello impregnato di veleno.

Creusa, ignara della presenza del veleno, lo indossa provocandosi la morte fra dolori strazianti; il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello, morendo. Il fuoco infine si propaga all'intera reggia e Medea completa la propria vendetta  uccidendo i figli avuti con Giasone così da eliminarne la discendenza e condannarlo all'infelicità perpetua.





Analisi del testo: vv. 982-994: la vendetta è donna

Seneca, attento osservatore delle passioni umane, mette in evidenza i due volti più caratteristici di una donna: quello di madre e quello di amante.

Se in una donna comune queste due realtà convivono serenamente, in Medea l'antagonismo non potrebbe essere più forte. Da un lato la moglie/amante, ferita nella sua femminilità e abbandonata per una donna molto più giovane di lei, dall'altro una madre,consapevole della tragedia che sta per consumarsi, ma ritrosa nel compierla.

Lei, che per aiutare Giasone uccise l'innocente fratello facendolo a pezzi, tradì il padre rivelando i trucchi per superare le prove, abbandonò la sua patria e donò la sua verginità al suo "salvatore", ora viene messa da parte.

Medea non si pente dei delitti compiuti e sa che se compierà di nuovo un omicidio la mano non sarà inesperta, ma il suo cuore non osa ancora confessare a se stesso come agirà. Nel suo intimo Medea vorrebbe che Giasone avesse avuto già un figlio con Creusa per poter vendicarsi su di lui, ma alla fine sceglie. I suoi figli pagheranno. E' consapevole di ciò che sta per fare, ma l'animo esita. Sono innocenti, ma l'ira sovrasta l'affetto di madre ( nei versi finali è sempre più stretta l'alternanza tra la figura di madre e quella di moglie e quindi l'alternanza tra logos -razionalità- e alogon -furor-).

L'ira infine ha vinto: Medea ha ucciso un figlio. Ora la sua verginità è stata vendicata così come il padre e il fratello. Nonostante prevalga l'alogon (Medea amante), la Medea madre è distrutta dal dolore. L'amante tuttavia ritiene che ciò non sia sufficiente (aristeia rovesciata) e, nonostante si penta del fatto, una grande gioia la pervade e la porta ad uccidere anche il secondo figlio, questa volta sotto gli occhi del padre. L'uomo-traditore è stato castigato. La donna-amante ha vinto.


 


Iam iam recepi sceptra germanum patrem,
spoliumque Colchi pecudis auratae tenent;
rediere regna, rapta virginitas redit.
O placida tandem numina, o festum diem,
o nuptialem! Vade, perfectum est scelus;
vindicta nondum: perage, dum faciunt manus.
Quid nunc moraris, anime? quid dubitas potens?
iam cecidit ira? paenitet facti, pudet.
Quid, misera, feci? misera? paeniteat licet,
feci. Voluptas magna me invitam subit,
et ecce crescit. Derat hoc unum mihi,
spectator iste. Nil adhuc facti reor:
quidquid sine isto fecimus sceleris perit.



Breve analisi retorica

  • Vs 984: Rediere regna, rapta virginitas redit → chiasmo; allitterazione della "r"; funzione ostensiva della retorica per evidenziare le parti più importanti
  • Vs 993: Spectator→ utilizzo di termini teatrali (metateatro; Medea, pur essendo lei stessa un personaggio, si rivolge a uno spettatore - Giasone-)


Lo stile senecano è prevalentemente anticlassico (ma molto curato), lontano dall'ordine e dall'armonia ciceroniana tanto che Quintiliano nella sua opera, Institutio oratoria, lo censura. Paratattico, vivace, brillante. Le immagini vengono collegate per associazione di idee e le figure retoriche predilette sono metafora e antitesi. Ha una forte propensione all'immagine e si serve spesso di sententiae  (brevi frasi che riassumo il contenuto di ciò che è stato detto).











































L'intento di Seneca è quello di creare un "museo degli orrori" in cui le protagoniste siano le passioni che corrompono l'animo umano (Seneca è uno stoico, la sua filosofia quindi verte sull'etica e sull'eliminazione delle passioni per giungere all'apatia). In questo modo lo spettatore, vedendole rappresentate, si "purifica" dalle proprie. Non è una caso che molte tragedie, non solo senecane, trattino il tradimento, l'ira, la vendetta e molto altro.

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