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Letteratura italiana: Italo Svevo e Luigi Pirandello rendono i loro protagonisti emblema dell'uomo moderno




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Letteratura italiana: Italo Svevo e Luigi Pirandello rendono i loro protagonisti emblema dell'uomo moderno


ITALO SVEVO

Aron Hector Schmitz nasce nel 1861 a Trieste da una famiglia di origine benestante, proveniente dall' Ungheria. Sulle orme del padre, Italo compie studi commerciali, prima in Germania e poi a Trieste. Con il fallimento dell'azienda paterna, si impiega in banca, iniziando la collaborazione con l' "Indipendente", giornale di ampie vedute socialiste.
Conosce lo scrittore irlandese James Joyce, il quale lo incoraggiò a scrivere un nuovo romanzo e, dopo il 1910, entra in contatto con la psicoanalisi freudiana: entrambi gli eventi influenzeranno la successiva produzione letteraria.

In Svevo confluiscono filoni di pensiero di Schopenhauer e Freud. Soprattutto quest'ultimo è ammirato e stimato come il maestro dell'analisi. Ma Svevo rifiuta sempre di aderire totalmente al sistema teorico di Freud: accetta la        psicoanalisi come tecnica di conoscenza, ma la respinge sia come visione totalizzante della vita, sia come terapia medica.

Italo Svevo è autore di tre fra le opere più emblematiche della narrativa novecentesca: "Una vita","Senilità" e "La coscienza di Zeno".











Una vita


Alfonso Nitti, trasferitosi dalla campagna a Trieste, trova un impiego in banca, ma non riesce a stabilire contatti umani e vede le sue ambizioni economiche e letterarie frustrate. Vive una relazione con Annetta Maller, figlia del proprietario della banca. Potrebbe ricoprire la figura del pater familias sposando Annetta, ma Alfonso, preso dall'inettitudine, fugge al paese natale con la scusa di dover dare conforto alla madre gravemente ammalata. In seguito alla morte della madre è convinto di aver trovato finalmente il suo modus vivendi che consiste nel dominare le passioni.  Ritornato a Trieste, rivede Annetta e le scrive una lettera, questa però si è sposata con suo cugino Macario, scatenando la gelosia di Alfonso. Annetta non risponde a questa lettera e nel frattempo suo fratello vuol fare un duello con Alfonso che continua ad infastidire Annetta. Il protagonista preferisce suicidarsi, conscio del suo fallimento.


Il primo romanzo si configura come racconto di un vinto, cioè di un uomo sconfitto dalla vita. Alfonso Nitti, protagonista della storia, è sconfitto non da cause esterne, sociali, ma interiori, proprie del suo modo di essere. Il protagonista incarna la figura dell'inetto, cioè di un uomo caratterizzato non da un'incapacità generica, ma, prendendo spunto dalla dottrina di Schopenhauer, da una volontà precisa di rifiutare le leggi sociali e la logica della lotta per la vita.













Senilità


Emilio Brentani, impiegato con una modesta fama di letterato, vive con la malinconica sorella Amalia, bruttina ed ormai sfiorita: ella è innamorata dell'amico del fratello Stefano Balli, al quale Emilio invidia il suo atteggiamento spregiudicato che fa molto colpo sulle donne. Il protagonista nel vano tentativo di imitarlo cerca di conquistare una bella popolana, Angiolina, priva di scrupoli morali. Emilio però si invaghisce a tal punto da perdonare i numerosi tradimenti della ragazza. Anzi il carattere così privo di moralità non fa altro che aumentare il fascino di Angiolina sul ragazzo, tanto che non riesce a fare a meno di lei. Perciò chiede aiuto a Balli con risultati disastrosi. Poiché sia Angiolina che Amalia, per la quale l'esperienza del fratello ha dato l'input a una specie di rivelazione sul diritto dell'amore, si innamorano del pittore, Emilio cerca invano di allontanare l'amata dall'amico e quando tenta di fare lo stesso con la sorella, questa, incapace di affrontare la realtà, sceglie la via più breve e semplice e infatti si stordisce con l'etere, finché non si ammala di polmonite. Poiché molto debole, muore assistita dal fratello e dall'amato Stefano. Intanto Angiolina continua a tradire il povero Emilio. Lui molto afflitto decide allora di lasciarla cercando di consolarsi vagando nella solita routine «senile».


Nei suoi due primi romanzi, "Una vita" e "Senilità" i protagonisti, Alfonso Nitti ed Emilio Brentani, sono due intellettuali falliti nelle loro aspirazioni ed incapaci di inserirsi nella dinamica della vita degli altri, due "inetti" o sconfitti morali che soffrono il problema al punto da suicidarsi il primo e star male il secondo. Sono queste le opere principali della prima fase dell'attività letteraria di Svevo, quelle che non avranno alcun successo e saranno seguite da un lunghissimo periodo di silenzio durante il quale egli si dedicherà quasi unicamente all'attività commerciale come se temesse d' "ammalarsi" di letteratura al pari dei suoi personaggi





A distanza di venti anni, dopo aver conosciuto e subìto le influenze di James Joyce, scrive e pubblica "La coscienza di Zeno" che presenta alcune novità strutturali quali la forma del diario in cui subentra la narrazione in prima persona e non presenta gli eventi in ordine cronologico ma segue il flusso di coscienza,ad ulteriore conferma della frantumazione dell'io. Il protagonista è una coscienza che si costruisce attraverso il ricordo e le impressioni perchè Freud (che si cela dietro la figura del dottor S.) affermava che le psiconevrosi vanno curate con l'ausilio del racconto fatto liberamente, senza formalità e registri. Ma Svevo nega alla psicoanalisi un valore terapeutico, riconoscendogliene uno conoscitivo; il protagonista Zeno Cosini abbandona la cura consigliata dal terapeuta e vede nella distruzione del mondo l'unica soluzione possibile, perchè la vera malattia è nel conformismo della società. La sua analisi passa da individuale ad universale.


La coscienza di Zeno


II romanzo si apre con la Prefazione. Lo psicanalista 'dottor S.' induce il paziente Zeno Cosini, vecchio commerciante triestino, a scrivere un'autobiografia come contributo al lavoro psicanalitico. Poiché il paziente si è sottratto alle cure prima del previsto, il dottore per vendicarsi pubblica il manoscritto. Nel preambolo Zeno racconta il suo accostamento alla psicanalisi e l'impegno di scrivere il suo memoriale, raccolto intorno ad alcuni temi ed episodi. "Il fumo" racconta dei vari tentativi attuati dal protagonista per guarire dal vizio del fumo, che rappresenta la debolezza della sua volontà. In "La morte di mio padre" è raccontato il difficile rapporto di Zeno con il padre, che culmina nello schiaffo dato dal genitore morente al figlio. In "Storia del mio matrimonio" Zeno si presenta alla ricerca di una moglie. Frequenta casa Malfenti e si innamora di una delle figlie del padrone di casa, Ada, la più bella delle tre; costei però lo respinge. Dopo essere stato rifiutato da un'altra delle ragazze, viene accettato dalla materna e comprensiva Augusta.




Episodio significativo è lo schiaffo che il padre da a Zeno poco prima di morire. Zeno ha sempre odiato il padre, motivo per cui si lega alla figura del signor Malfenti, e lo schiaffo è tardivo come anche l'educazione che mai gli era stata impartita, perciò il suo "io" è tentennante ed è in balia dell'istinto.

Zeno provoca inconsciamente la reazione del padre ormai in punto di morte: egli è ormai deluso dal figlio che non è mai riuscito a concludere molto nella sua vita. Lo schiaffo è visto sia come la punizione che il padre gli affligge, sia come gesto involontario dovuto alla malattia. La psicoanalisi ha riconosciuto nel gesto un lapsus freudiano.


Al contrario di Alfonso Nitti ed Emilio Brentani, Zeno è consapevole della sua malattia, considera gli altri sani e cristallizzati nel loro stato. Egli invece si considera inetto ed è per questo disposto a cambiare e sperimentare nuove forme di esistenza. Ribalta quindi il concetto di sanità e malattia in quanto l'inetto (o contemplatore) è il vero sano, colui a cui sono mancate le certezze in cui ha sempre creduto e che proprio per questo è disponibile ad ogni forma di sviluppo, al contrario di chi è conformato alla società (i lottatori) che rimane immutabile perchè ancorato alle certezze che la stessa società offre e che crollerebbero col cambiamento.

Fulcro dei romanzi è l'inettitudine. I protagonisti vivono fra la voglia di affermazione, consapevoli della propria superiorità rispetto al mondo che li circonda, e l'innata incapacità di azione che porterà A. Nitti al suicidio, E. Brentani a vivere nella consapevolezza della sua inettitudine e Zeno Cosini a capire che l'uomo è artefice del disfacimento cosmico, è creatore di mostri distruttivi ma può contribuire alla rinascita del mondo. La loro inettitudine consiste nella tendenza ad auto-compatirsi e alla loro incapacità di lottare e vivere nella società, l'inetto è colui che non riesce a ritagliarsi un ruolo autonomo nella società. I romanzi sono riconducibili alla filosofia di Schopenhauer e alla sua distinzione fra lottatori e contemplatori. I primi sono gli eroi della "voluntas" coloro che, certi dei loro mezzi e sicuri delle loro verità, cercando sempre di prevalere sugli altri, sono la classe borghese nascente; i contemplatori, invece, sono i personaggi protagonisti di tutti i romanzi sveviani, sono schiavi della loro insicurezza, dell'eccessiva riflessione su se stessi e destinati a soccombere. Sono esecutori della "noluntas".


LUIGI PIRANDELLO

Pirandello nacque nel 1867 a Cavusu, luogo che al momento della sua nascita aveva cambiato la sua denominazione originaria in 'Caos'. 

A Girgenti, Pirandello sposò Maria Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio del padre. Questo matrimonio, probabilmente concordato, soddisfaceva anche gli interessi economici della famiglia di Pirandello. Nonostante ciò tra i due coniugi nacque veramente l'amore e la passione Grazie alla dote della moglie, la coppia godeva di una situazione molto agiata, che permise loro di trasferirsi a Roma.

A completare l'amore tra gli sposi nacque il primo figlio Stefano a cui seguirono, due anni dopo, Rosalia e Fausto.

Ma un allagamento e una frana in una miniera di zolfo del padre, nella quale era stata investita parte della dote di Antonietta e da cui anche Pirandello e la sua famiglia traevano un notevole sostentamento, li ridusse sul lastrico.

Questo avvenimento accrebbe il disagio mentale, già manifestatosi, della moglie di Pirandello, Antonietta. Ella andava sempre più spesso soggetta a crisi isteriche, causate anche dalla gelosia, a causa delle quali o Antonietta rientrava dai genitori in Sicilia, o era Pirandello a esser costretto a lasciare la casa. Solo diversi anni dopo, egli, ormai disperato, acconsentì che Antonietta fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico. La malattia della moglie portò lo scrittore ad approfondire, portandolo ad avvicinarsi alle nuove teorie sulla psicoanalisi di Sigmund Freud, lo studio dei meccanismi della mente e ad analizzare il comportamento sociale nei confronti della malattia mentale.



Autore di molte novelle fra cui "La carriola" e romanzi quali "Il fu Mattia Pascal" e "Uno nessuno e centomila", il cui tema centrale sarà la pazzia.



Pirandello svolge una ricerca inesausta sull'identità della persona nei suoi aspetti più profondi, dai quali dipendono sia la concezione che ogni persona ha di sé, sia le relazioni che intrattiene con gli altri. Egli mette in evidenza il contrasto esistente tra la fluidità inarrestabile della vita, che è diversa di momento in momento e che presenta contemporaneamente aspetti molteplici ed anche contraddittori, e l'esigenza di cristallizzare quel flusso continuo in immagini certe, stabili, alle quali ancorare la conoscenza che si ha, o meglio si crede di avere, di sé e degli altri.


Gli uomini nascono liberi ma il Caso interviene nella loro vita precludendo ogni loro scelta: l'uomo nasce in una società precostituita dove ad ognuno viene assegnata una parte secondo la quale deve comportarsi.

Ciascuno è obbligato a seguire il ruolo e le regole che la società impone, anche se l' "io" vorrebbe manifestarsi in modo diverso: solo per l'intervento del caso può accadere di liberarsi di una forma per assumerne un'altra, dalla quale non sarà più possibile liberarsi per tornare indietro, come accade al protagonista de "Il fu mattia pascal"

L'uomo dunque non può capire né gli altri né tanto meno sé stesso, poiché ognuno vive portando - consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente - una maschera dietro la quale si agita una moltitudine di personalità diverse e inconoscibili.










Il fu Mattia Pascal

Mattia Pascal vive in un immaginario paese ligure, Miragno, dove il padre, che si era arricchito con i traffici marittimi e il gioco d'azzardo, ha lasciato in eredità alla moglie e ai due figli una discreta fortuna. A gestire l'intero patrimonio è un avido e disonesto amministratore, Batta Malagna, la cui nipote, Romilda, viene messa incinta da Mattia dopo che non è riuscito a farla sposare all'amico Pomino. Mattia viene costretto a sposare Romilda e a convivere con la suocera vedova che non manca di manifestare il suo disprezzo per il genero che considera inetto.
Tramite l'amico Pomino, Mattia ottiene un lavoro come bibliotecario ma dopo un po' di tempo, infelice per il lavoro che trova umiliante e per il matrimonio che si è rivelato sbagliato, decide di fuggire da Miragno e di tentare l'avventura in Francia. Arrivato a Montecarlo e fermatosi a giocare alla roulette, in seguito ad una serie di vincite fortunate, diventa ricco. Deciso a ritornare a casa per riscattare la sua proprietà e vendicarsi dei soprusi della suocera, un altro fatto muta il suo destino.
Mentre è in treno legge per caso su un giornale che a Miragno è stato ritrovato nella roggia di un mulino il cadavere di Mattia Pascal. Sebbene sconvolto, comprende presto che, credendolo tutti ormai morto, può crearsi un'altra vita. Così, con il nome di Adriano Meis, inizia a viaggiare prima in Italia e poi all'estero, fintantoché decide di stabilirsi a Roma in una camera ammobiliata sul Tevere. Si innamora, ricambiato, di Adriana, la dolce e mite figlia del padrone di casa, Anselmo Paleari, e sogna di sposarla e di vivere un'altra vita, ma presto si rende conto che la sua esistenza è fittizia. Infatti, non essendo registrato all'anagrafe, è come se non esistesse e pertanto non può sposare Adriana, non può denunciare il furto subito da Terenzio Papiano, un losco individuo che lo ha raggirato, e non può fare tutte quelle cose della vita quotidiana che necessitano di una identità. Finge così un suicidio e, lasciato il suo bastone e il suo cappello vicino a un ponte del Tevere, ritorna a Miragno come Mattia Pascal.
Sono intanto trascorsi due anni e arrivato al paese, Mattia viene a sapere che la moglie si è risposata con Pomino e ha avuto una bambina. Si ritira così dalla vita e trascorre le sue giornate nella biblioteca polverosa dove lavorava in precedenza a scrivere la sua storia e ogni tanto si reca al cimitero per portare sulla sua tomba una corona di fiori

Nella "Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa" il protagonista decide di mettere per scritto la sua strana vicenda: Mattia lascerà il manoscritto nella biblioteca dove aveva lavorato con l'obbligo però di aprirlo soltanto cinquant'anni dopo la sua terza, ultima e definitiva morte.                             

Il consiglio di mettere per scritto il suo caso viene a Mattia da un suo amico bibliotecario, il quale inoltre gli suggerisce di scrivere il libro sul modello di quelli scovati nella biblioteca. Mattia però ribatte che non era più tempo di scrivere libri, neppure per scherzo, da quando Copernico ha scoperto che gli uomini sono "atomi infinitesimali su un granellino di sabbia impazzito, che gira e rigira senza sapere perché", le storie degli uomini non hanno più alcun valore. Tuttavia, data la stranezza del suo caso, egli parlerà di sé, ma il più liberamente possibile.

Fra le tante tematiche importanti che Pirandello esamina,in questo libro si sofferma sulla lanterninosofia e sullo strappo del cielo di carta già preso in considerazione in precedenza. La lanterninosofia è oggetto di dibattito fra Adriano Meis, che ha appena subito un intervento per curare il suo strabismo (indice di un diverso modo di vedere il mondo) e il signor  Paleari:

"E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che a noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione? Ma poiché lei ha l'occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d'inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l'illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d'un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana.

Il lume d'una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto,


ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa.Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe?


Ogni uomo ha un lanternino che illumina il proprio cammino e rappresenta il suo modo di vedere le cose; intorno alla luce emessa ci sono le tenebre e solo la morte potrà spegnere il lume e riportare l'uomo nel suo ciclo universale. Vi sono poi i lanternoni che rappresentano gli ideali della società (verità, virtù, bellezza, onore ecc.) ognuno dei quali emette colori diversi. Ma "nell'improvviso buio è descrivibile lo scompiglio delle singole lanternine". Gli ideali, cosi come le certezze, sono crollati e non hanno più valore e ciò provoca disordine fra le lanternine che oltre ad aver perso i loro punti di riferimento non sanno dove rivolgersi per trovarne degli altri.

Strettamente collegata alla lanterninosofia è la vicenda dello strappo del cielo di carta di Oreste.

I due protagonisti, Adriano Meis e Anselmo Paleari, assistono ad una rappresentazione dell "Elettra" di Sofocle, tragedia greca che narra della vendetta che Elettra e il fratello Oreste compiono uccidendo la madre che aveva precedentemente assassinato il loro padre.

Nel momento in cui Oreste è per compiere il gesto di vendetta A.Meis si chiede che cosa avverrebbe se si creasse uno strappo nel cielo di carta che li sovrasta: Oreste si sentirebbe disorientato e vacillerebbe nelle motivazioni che lo spingono a quel gesto. Lo strappo nel cielo diviene immagine pirandelliana per eccellenza e simbolo di un concetto fondamentale quale la perdita dei valori e delle certezze su cui l'uomo aveva fondato la propria esistenza e le proprie sicurezze, il guardare oltre lo strappo simulerebbe l'affacciarsi dell'io su un nuovo mondo da cui si vedrebbe il cielo vero che non impone nuove forme o schemi da seguire.


Uno, nessuno e centomila

Il protagonista di questa vicenda, Vitangelo Moscarda, è una persona ordinaria, che ha ereditato, da giovane, la banca del padre e vive di rendita affidando a due fidi collaboratori la gestione dell'impresa. Un giorno, tuttavia, in seguito alla rivelazione da parte della moglie di un suo difetto fisico (il naso leggermente storto), inizia a scoprire che le persone intorno a lui hanno un'immagine della sua persona completamente diversa da quella che lui ha di sé. È la consapevolezza di essere presente nelle persone intorno a lui in centomila forme differenti che accende il desiderio di distruggere queste forme a lui estranee, con l'obiettivo di scoprire il vero sé. Inizia, quindi, ad agire con il fine di strappare queste immagini sbagliate di sé che sono nelle persone, iniziando con la moglie e il suo Gengè (il nomignolo con cui lo chiamava e cui ella affidava l'immagine del marito). La sua prima consapevolezza, dunque, ha come oggetto ciò che non è, e nel tentativo di distruggere queste errate convinzioni, apre la strada per la scoperta di ciò che è. La difficoltà, però, sta nel conoscere sé stesso, la vera essenza di sé. Vitangelo Moscarda tenta di sorprenderla in un attimo in cui si affaccia sulla realtà, ma nel momento in cui si rende conto di ciò, la fa scomparire. Ne deriva l'impossibilità a conoscere l'io profondo, l'essenza stessa di sé.

Il protagonista arriverà alla follia che non è considerata in modo negativo, ma è considerata come un momento in cui, sospesi tutti i comportamenti prima automatici, la facoltà percettiva riesce ad allargarsi e vedere il mondo con 'altri occhi', perché finalmente libera dalle regole consuete.


A conclusione dell'opera vi è la presa di coscienza che l'unico modo che l'uomo ha per sfuggire alle centomila forme è quello di non avere nessun nome e di sfuggire alla staticità che questo impone. Ma Bergson ha insegnato che la vita non è statica, è dinamica, è in movimento, cosi V. Moscarda comprende che l'unica via di salvezza è rinascere ogni momento in forme diverse.

Egli, pensando di essere "uno" per tutti coloro che conosceva, arriva alla distruzione della propria identità fino a diventare "nessuno", e ciò lo porterà a scoprire di essere "centomila" Moscarda per ognuno dei suoi conoscenti.








La carriola


Nella novella "La carriola" è più facile rintracciare tutte le influenze che hanno rivoluzionato il pensiero di Pirandello. Parte della raccolta "Novelle per un anno", "La carriola" è raccontata dal protagonista desideroso di narrare la sua esperienza.

L'attacco è formulato in modo tale da accrescere la curiosità del lettore.


"Quand'ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d'addosso."


L'identità di questa "lei" rimane nascosta per poi essere rivelata a fine racconto. Il protagonista fa capire alla sua vittima che solo con lei può compiere quell'atto e che se il suo segreto fosse scoperto, per lui sarebbe la rovina perchè è un uomo che gode di un'ottima fama, è un buon padre e un buon marito.

Ma pur sapendo che la sua vittima non può parlare, egli legge nel suo sguardo il terrore che qualcuno possa cercare di scoprire la verità.


Il racconto non segue un ordine cronologico; il protagonista racconta la vicenda in base ad impressioni, ricordi ed emozioni.

Durante un viaggio in treno si ritrova "con un senso d'atroce afa della vita", e in un "attonimento" nel quale "gli aspetti delle cose più consuete gli erano apparsi come privi di senso, e, insieme, d'una pesantezza insopportabile.

Giunto a casa arriva la crisi decisiva quando, trovatosi sul pianerottolo e osservando la targa d'ottone sulla sua porta, gli pare di vedere sé e la sua vita dall'esterno senza riconoscerla come propria.

Ha inizio cosi il processo di straniamento. Nemmeno lui riesce a riconoscersi, arriva anche a desiderare di auto-distruggersi.


La tragedia del protagonista è riassunta nella frase


"chi vive,quando vive,non si vede:vive..se uno può vedere la sua vita è segno che non la vive piu:la subisce,la trascina. Perchè ogni forma è una morte"


"io vedo non ciò che di me è morto;vedo che non sono mai stato vivo,vedo la forma che gli altri,non io,mi hanno data"





Il protagonista ha in casa una cagna che, per tenersi lontana dai figli del padrone, si rifugia nello studio di questo mentre lavora. Egli decide di vendicarsi del perbenismo della sua prigione esistenziale su di lei così, dal giorno del viaggio, si chiude a chiave nella stanza e assapora la voluttà "d'esser pazzo" anche solo per un attimo. Prende la cagnetta delicatamente per le zampe superiori e le fa fare la carriola facendolo quindi muovere le zampette anteriori.


"Comprende,la bestia, la terribilità dell'atto che compio


Egli è uscito dalla sua forma, anche solo per un minuto ed ha vissuto fuori dai rigidi schemi. Ma tuttavia lo sguardo della cagnetta gli fa immaginare una possibile reazione che altri, al posto suo, potrebbero avere se lo vedessero compiere un tale gesto.

La cagnetta, infatti, non è incolpevole poiché anche lei affida la propria tranquillità esistenziale (come i familiari e i clienti) alla responsabile figura del padrone.


Ogni uomo, secondo Pirandello, indossa una maschera che la società gli impone.

Quando l'individuo diviene consapevole delle sue centomila identità (o forme) che ha per ciascuno dei suoi conoscenti, decide di voler conoscere il suo vero io ed essere tale per ciascuna delle persone che lo conoscono.

Risalta cosi il contrasto che si crea fra vita e forma, la vita corrisponde al super-io, e la forma all' io (o al piccolo me), quest'ultima viene imposta dalla società ed in realtà corrisponde alla morte dell'individuo che si cela dietro la maschera che gli viene imposta e che non può emergere se non impazzendo.

L'unico metodo, infatti, a cui l'uomo può ricorrere per togliersi la maschera è la pazzia, intesa come un'uscita dai rigidi schemi che si impongono all'essere. Questo, tolta la maschera, inizierà a vivere veramente.



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