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LETTERATURA GRECA
UOMO POLITICO O NEMICO PIETOSO?
Ulisse nelle tragedie sofoclee
La figura di Ulisse, grazie alla sua versatilità e ai numerosi episodi che lo vedono protagonista, torna costantemente ad interessare gli autori greci: tra essi spicca il nome del grande tragediografo Sofocle che lo inserisce come personaggio fondamentale per l'evolversi della vicenda in ben due delle sue opere, ossia il Filottete (409 a.C.) e l'Aiace (~ 450 a.C.).
Nelle due tragedie Odisseo viene però a delinearsi con tratti così ampiamente contrastanti che è impossibile riuscire a stabilire l'esatta opinione dell'autore. Nella prima egli usa la sua abilità oratoria per ingannare Filottete: tutto ciò che fa è finalizzato ad ottenere un interesse particolare che non lascia alcuno spazio ad un'umana preoccupazione per l'eroe malato e abbandonato. Nell'Aiace invece queste caratteristiche vengono ribaltate e passa in primo piano l'importanza della persona: Ulisse prova compassione per il suo rivale, nonostante questi abbia sgozzato un gregge di pecore e si sia poi suicidato per questo disonore, e fa di tutto perché Agamennone gli conceda una sepoltura degna del coraggio e della virtù dimostrata in passato.
La figura quindi oscilla tra due poli opposti, quello dello scaltro politico, a cui interessa la ragion di stato, e quello dell'uomo onesto, pronto a mettere da parte odio e inimicizia in nome del valore assoluto dell'individuo.
In questa tragedia la parte riservata a Ulisse è limitata: egli, da attore che era nell'Odissea, diventa qui un semplice regista che passa in secondo piano rispetto al vero protagonista, Neottolemo. Ma così come al cinema e a teatro è il regista a dirigere gli attori e ad influenzarne l'operato, anche qui Ulisse ha il compito di muovere i capi della vicenda e delinearne l'evolversi, anche se alla fine questa gli sfugge di mano e lo costringe a subire una sconfitta non in programma.
Tra i due personaggi intercorre un rapporto conflittuale che vede l'anziano calcolatore opporsi al giovane impetuoso. Neottolemo non vuole abbassarsi ad eseguire gli ordini meschini di Odisseo: la sua indole lo spinge, infatti, ad agire a viso aperto, ad usare la forza e non sotterfugi e inganni. Sulle prime la sua risposta al piano di Ulisse è quindi un orgoglioso "preferisco fallire agendo rettamente che vincere in modo disonesto" (Filottete, vv. 94-95), ma finisce poi per farsi manovrare da quell'eccellente burattinaio che è il Laerziade. Solo nel finale il figlio di Achille riesce a svincolarsi dalle imposizioni del suo accompagnatore e a riacquistare la libertà decisionale e critica.
È interessante notare che entrambi hanno una personalità capace di adattarsi e di cambiare: la mutevolezza di Ulisse è però frutto della sua astuzia ed è sempre guidata da un'attenta riflessione preventiva, capace di valutare i pro e i contro della situazione; quella di Neottolemo subisce invece gli influssi degli impulsi che la sua giovane età e la sua nobile natura gli suggeriscono. Sottomesso, subdolo, pietoso, irremovibile, egli non pianifica il suo stato d'animo a tavolino, ma evolve progressivamente nel corso della vicenda: alla fine la sua onestà e la sua trasparenza vincono sull'inganno di Odisseo e sconfiggono il potere mistificatore della sua parola.
Nell'intera opera il fil rouge costituito dal sofisma si intreccia su due livelli: Neottolemo, infatti, deve ingannare Filottete e farselo amico per sottrargli l'arco che permetterà di conquistare Troia, ma il giovane è a sua volta ingannato da Odisseo che, raggirandolo con il logos, riesce a convincerlo dell'onestà e della necessità del piano, costringendolo ad andar contro la sua indole sostanzialmente leale. Quando gli viene chiesto se non ritiene vergognoso dire menzogne l'itacese risponde sicuro "no, se la menzogna apporta salvezza" (Filottete, v. 109): la falsità è lo strumento essenziale e legittimo per portare a termine il compito a cui è stato destinato e si concretizza continuamente tramite discorsi dissimulatori che ingannano entrambi i personaggi della vicenda e che permettono di relativizzare ogni aspetto della situazione a suo vantaggio.
In questa tragedia Ulisse è il simbolo del perfetto uomo politico che pone al primo posto nella sua scala di valori la ragion di stato: tutto è concesso per conseguire la vittoria, anche abbassarsi a manovre poco chiare o comunque poco degne di un eroe omerico. Egli guarda solo al kerdoV, al guadagno, e per ottenerlo permette addirittura che Neottolemo sparli di lui, aspetto che a prima vista potrebbe sembrare inaccettabile, dal momento che ci si trova nel contesto della cultura di vergogna.
È bene sottolineare che questo guadagno non è comunque utile solo all'uomo Ulisse, cosa che lo farebbe risultare un personaggio oltremodo meschino e biasimevole, ma è finalizzato al bene di tutto l'esercito greco: egli è lo strumento della volontà generale e non nutre nessun odio personale per Filottete. Il comportamento del Laerziade è quindi legittimo e anche molto realistico: egli è capace di mettere da parte la pietà e colpire il nemico nel momento in cui meno se lo aspetta.
Egli non rispetta l'uomo-Filottete per salvare gli uomini-Greci: è il suo essere fedele alla comunità che lo porta a relativizzare la giustizia, facendo diventare bene ciò che è male e viceversa. È naturale quindi che il suo universo valoriale entri in contrasto con quello del giovane Neottolemo: questi incarna, infatti, la giustizia divina e nel suo agire e nel suo parlare, principalmente nell'ultima sezione della tragedia, risuonano i grandi imperativi morali della grecità, rispetto ai quali i mortali sono però impotenti. La pietà per l'esule sancita dalla legge di Zeus ha, infatti, nel finale il sopravvento sull'utilitaristico piano imposto da Ulisse e sulla sua etica pragmatica.
Nell'Aiace, nonostante il ruolo effettivo di Ulisse sia ridotto a due brevi comparse all'inizio e alla fine della tragedia, il suo personaggio e, in particolare, il fatto che le armi di Achille siano state assegnate a lui e non ad Aiace sono la scintilla scatenante l'intera catena di eventi che porta il figlio di Telamone al suicidio e da cui ha origine la questione della sepoltura.
Come nel Filottete anche qui Ulisse viene visto dal protagonista unicamente come un mascalzone intrigante, un manigoldo a cui vengono tributati gli onori che dovrebbero spettare al degno successore di Achille, al più forte dei Greci, non al più astuto. Tuttavia, nel dipanarsi della vicenda, questi aspetti negativi di Ulisse vengono mitigati e addirittura ribaltati alla luce del suo comportamento dopo la morte del nemico.
La contesa delle armi
In quest'opera Ulisse si fa controllore della
giustizia divina, assumendo quindi un atteggiamento in contrasto con quanto
faceva nel Filottete, dove invece la calpestava in nome della ragion di stato; egli
si scontra apertamente con quello che è suo capo ed amico, Agamennone, pur di
difendere l'onore di Aiace, ormai morto, ed è capace di riconoscerne il grande
valore, mettendo da parte l'odio che era sempre corso tra loro, giungendo ad
affermare: "Il suo valore trionfa sul mio odio"[1].
Questo modo d'agire può lasciare perplessi dal momento che, diversamente
dall'altro scritto, dove l'avversione era solo di Filottete nei confronti di
Ulisse, qui l'odio è addirittura vicendevole, eppure non impedisce che, nel
momento della morte, l'itacese sostenga l'importanza di non essere accecati da
un sentimento ostile e di accettare razionalmente il valore dell'avversario.
Ulisse muta la sua condotta nei riguardi del rivale di sempre dal momento che le circostanze esterne sono cambiate e assume quindi una posizione moderata; Agamennone al contrario non riesce ad abbandonare la sua rigidità, sottolineando come questo sia necessitato dal suo ruolo di comandante supremo degli Achei: "Non è facile, per chi ha il potere, farsi degli scrupoli"[2].
La norma religiosa entra in contrasto con il ruolo politico del capo intransigente che giudica un qualsiasi cambiamento di atteggiamento come una dimostrazione di fiacchezza e debolezza, non accorgendosi invece del fatto che non sia incoerente per un capo accettare la legge del mutamento e fidarsi dei consigli degli amici. Il valore della persona è superiore a quello delle convenzioni sociali e si deve essere pronti ad aprirsi all'altro senza essere bloccati in un unico schema comportamentale, ma potendo alternare amicizia e inimicizia, odio e pietà, senza per questo risultare ambigui: la giustizia divina va rispettata qualunque sia il legame che intercorre tra le persone.
Aiace è sconvolto dalla legge del mutamento universale, Ulisse invece no: il primo non riesce ad accettare di essere uscito sconfitto dal certamen delle armi e non è in grado di sopportare l'umiliazione e la derisione degli altri Greci, cosa che lo spinge a suicidarsi; il secondo invece vede nella condizione dell'avversario quello che un giorno spetterà a tutti, lui compreso, e per questo agisce in modo completamente opposto a quello che ci si potrebbe aspettare, difendendo Aiace e favorendone la sepoltura. La morte rende uguali e per questo egli ritiene che tutti debbano poter ricevere gli onori a loro riservati, anche se colpevoli di tracotanza, come Aiace che aveva affermato l'indipendenza della sua forza dagli dei ("Ma io conquisterò la gloria anche senza di loro, ne sono certo (.) Fiancheggia altri Argivi, o regina! Qui dove ci sono io i nemici non passeranno mai"[3]).
In questa tragedia emerge pertanto non la scaltrezza di Ulisse, ma tutta la sua saggezza, accompagnata addirittura quasi da una forma di pietas estranea all'etica eroica omerica che prevedeva il disprezzo del nemico anche dopo la morte: gioire della fine di Aiace e privarlo della sepoltura sarebbe un guadagno ignobile che offenderebbe non l'eroe, ma le leggi degli dei.
L'eroe in queste due tragedie arriva sia in una posizione di completa negatività, sia in una di totale positività: da una parte l'amara constatazione del processo di inversione di ruoli su cui si regge la vita umana lo porta ad elaborare "un'etica di reciprocità e solidarietà"[4] pronta a redimere le controversie e a riconoscere il valore del nemico; dall'altra la condizione in cui versa Filottete, ormai caduto dal suo trono e finito in un'isola deserta, non suscita in lui alcuna pietà, ma anzi diventa un vantaggio per poterlo ingannare e derubare meglio.
L'Ulisse di ambedue le opere è dotato della fondamentale caratteristica dell'intelligenza che però si colora in modo diverso: nel Filottete prevale l'intelligenza astuta (mhtiV), la furbizia, la capacità quindi di raggiungere l'obiettivo senza l'uso della forza, ma solo col potere del linguaggio; nell'Aiace trionfa invece l'intelligenza che comprende e accetta la legge del mutamento e che si configura più come swfrosunh, ossia nei termini di moderazione e rispetto nei confronti degli dei. Ulisse in questa tragedia è il saggio che si sottomette alla legge divina, non l'uomo politico che tenta di scardinarla in ogni modo. Nel Filottete egli si scontra con Neottolemo che implora pietà nei confronti del malato, qui invece è Ulisse che domanda la stessa cosa ad Agamennone riguardo al defunto, sfoderando un'enorme capacità persuasiva. In entrambe le situazioni è però visibile come l'esito sia vincolato dalle imposizioni dell'insovvertibile legge suprema: andarle contro significa essere destinati al fallimento ed è proprio per questo che l'eroe risulta vincitore solo quando, come nell'Aiace, se ne fa garante.
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