|
Visite: 7602 | Gradito: | [ Grande appunti ] |
Leggi anche appunti:Italo svevo e la ''coscienza di zeno''italo svevo e la ''coscienza di zeno'' Aron Hector Schmitz (Italo Svevo era Eugenio montaleEUGENIO MONTALE Una lunga giovinezza. Nasce a Genova nel 1896. E' il figlio minore Giorni perdutiBuzzati nel testo "Giorni perduti" tratto dalla raccolta "le notti difficili " gioca |
Con l'avvento del XX secolo si apriva un'epoca nuova, sullo spartiacque tragico della prima guerra mondiale.
Si trattò di un periodo assai complesso e tormentato, che, nonostante numerosi tratti comuni, assunse connotazioni diverse in ogni singolo contesto nazionale.
In Inghilterra tale fase è stata designata dall'autorevole studioso Mario Praz come "età dell'ansia", dal titolo di una poesia di Auden che poneva l'accento sulla misera condizione dell'uomo "poor muddled maddened mundane animal", preda della malevola autorità e del cieco caso (wilful authorithy and blind accident).
Diverse furono le componenti che concorsero a determinare questo senso di smarrimento e d'insicurezza.
Per ciò che riguarda l'ambito più strettamente politico, l'Inghilterra perdeva la propria posizione di predominio, minacciata da nuove forze emergenti - Stati Uniti, Giappone - e dalla Germania bismarkiana, mentre all'interno sempre più si avvertivano gli attriti e le
contraddizioni propri di una società classista.
Lo stabile equilibrio, che aveva consentito ai vittoriani di crogiolarsi in un facile ottimismo, sembrava essere crollato. Il nuovo clima d'instabilità metteva in luce la precarietà di tutto un sistema di valori ritenuti universalmente validi ed imprescindibili.
Sul piano culturale si affermava in Inghilterra lo stesso fervore di rinnovamento che caratterizzò l'Europa del tempo, conseguenza delle profonde trasformazioni in ambito scientifico e filosofico che avevano messo in crisi il dominante positivismo ottocentesco.
Nel campo delle scienze naturali determinanti furono le acquisizioni di Max Plank ed Albert Einstein. Il primo, con la teoria dei quanti, apriva le porte all'esplorazione teorica e sperimentale del mondo atomico e subatomico. Nasceva la meccanica quantistica indeterminata, secondo cui esistono eventi fisici destinati a non essere mai completamente conosciuti. Il secondo, con la teoria della relatività, frantumava la concezione di spazio e tempo come entità assolute.
In sostanza ad essere messa in discussione era l'oggettività e l'universale validità del sapere scientifico.
Affermava, a questo proposito, Benedetto Croce: "Le cosiddette
scienze naturali, (.), riconoscono esse medesime di essere sempre circondate da limiti: limiti i quali non sono poi altro che dati storici e intuitivi. Esse calcolano, misurano, pongono eguaglianze, stabiliscono regolarità, foggiano classi e tipi, formulano leggi, mostrano a loro modo come un fatto nasca da altri fatti; ma tutti i loro progressi urtano sempre in fatti che sono appresi intuitivamente e storicamente. Perfino la geometria afferma ora di riposare tutta su ipotesi, non essendo lo spazio tridimensionale o euclideo se non uno degli spazi possibili, che si studia di preferenza perché riesce più comodo. Ciò che di vero è nelle scienze naturali, è o filosofia o fatto storico; ciò che vi è di propriamente naturalistico è astrazione o arbitrio"[2].
Nel campo delle scienze umane una grande rivoluzione apportarono le teorie di Sigmund Freud, il quale rompeva decisamente con il determinismo psicologico positivistico per dimostrare che le azioni umane sono il risultato di impulsi irrazionali, istinti, paure, desideri repressi annidati in uno strato sommerso dell'io, cui diede il nome di inconscio.
Ancora sul terreno filosofico si affermavano le nuove
concezioni del tempo di William James e Henry Bergson.
Il primo elaborava la teoria del presente specioso, per cui il presente altro non è che un continuo fluire dall'immediato passato ("non più"), all'immediato futuro ("non ancora").
Bergson, invece, criticava il concetto di tempo come sequenza d'istanti che si succedono in ordine cronologico, rappresentabili come una linea che si distende nello spazio. Vero tempo è quello vissuto, condensato nell'esperienza della coscienza, non misurabile quantitativamente, né inquinato dall'idea di spazio, ma costituito da una "durata" unitaria e globale: "Ci sono (.) due concezioni possibili della durata, l'una pura di ogni mescolanza, l'altra in cui interviene di nascosto l'idea di spazio. La durata assolutamente pura è la forma che assume la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e gli stati interiori. (.) Ma abituati a quest'ultima idea (quella dello spazio), ossessionati anzi da essa, la introduciamo a nostra insaputa nella nostra rappresentazione della successione pura; giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da percepirli simultaneamente, non più l'uno nell'altro, ma l'uno accanto all'altro; in breve proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata in estensione, e la successione prende per noi la forma di una linea continua o di una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi" .
La "durata" bergsoniana è, dunque, un continuo fluire in cui il passato non si perde ma penetra prepotentemente nel presente: "In realtà il passato si conserva da se stesso automaticamente. Esso ci segue tutt'intero in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino nel presente che esso sta per assorbire in sé, (.). Che cosa siamo, infatti, che cos'è il nostro carattere se non la sintesi della storia da noi vissuta sin dalla nascita, prima anzi di essa, giacché portiamo con noi disposizioni prenatali?"
La portata di queste nuove idee fu tale da privare l'uomo del Novecento del conforto di qualsiasi certezza, sprofondandolo in sentimenti di angoscia, ansia e relatività.
Sul piano letterario, tale atmosfera di disagio e di smarrimento si tradusse nel rifiuto del naturalismo e nella impossibilità di un'indagine obiettiva ed oggettiva del reale, di cui si percepiva l'estrema insicurezza e
precarietà.
Si apriva un'età di arditissime sperimentazioni, volte all'acquisizione di nuove tecniche espressive e conoscitive che rispondessero all'esigenza da parte degli scrittori di un'organizzazione diversa della struttura letteraria.
Si assisteva in questi anni, in ambito narrativo, al passaggio dal romanzo d'origine essenzialmente borghese (volto alla rappresentazione della realtà sociale e finalizzato alla creazione di tipi umani incarnanti gli aspetti più caratteristici della propria epoca, secondo valori pubblici universalmente condivisi) ad un tipo di narrazione che aveva spostato il proprio centro di focalizzazione dalla società all'individuo, da una visione oggettiva e collettiva della realtà a sottili interpretazioni individuali di ciò che abbia maggior significato nelle esperienze umane.
La realtà appariva inconoscibile e disarticolata, in quanto non poteva più esistere nessuno sguardo inquadratore che la riunificasse. Il narratore onnisciente ottocentesco, detentore di un bagaglio di conoscenza tale da potersi porre al di sopra e all'interno del personaggio, nella posizione di burattinaio o di spettatore consapevole, perdeva la sua centralità e le sue sicurezze. L'onniscienza lasciava il posto al punto di domanda.
Si trasformava, in rapporto alla nuova concezione del tempo, anche l'organizzazione della materia del romanzo: siccome "l'uomo è la somma di tutte le proprie esperienze emotive, e questa somma è una presenza costante e pregnante nella sua coscienza, è la sua coscienza stessa, allora non v'era più scopo di condurre il personaggio attraverso una serie di 'esperienze rivelatrici'; per mettere in luce tutta la sua storia e le sue potenzialità, bastava condurre un'attenta esplorazione della sua personalità, un'esplorazione che poteva iniziare in un momento qualsiasi della sua vita e esplicarsi in un arco di tempo anche molto breve, anche in un solo giorno" .
Non più, quindi, la certezza di un tempo lineare e progressivo all'interno del quale ordinare gli eventi secondo un rapporto di consequenzialità. La narrazione si faceva verticale piuttosto che orizzontale, mirava a raggiungere la profondità piuttosto che l'estensione.
Di fronte a questo nuovo modo di procedere, il corposo realismo ottocentesco appariva privo di spessore, come la resa di uno sguardo che registra ogni cosa ma si muove solo in superficie.
Si passava, in sostanza, da una rappresentazione del mondo
esteriore a quella della realtà più segreta ed interiore, in cui l'individuo era
visto come prigioniero del proprio flusso di coscienza.
Flusso di coscienza: definizione
A seguito dell'influenza esercitata, nel campo delle lettere, dalle nuove acquisizioni filosofiche e scientifiche e dalle ricerche di Freud e di Jung, i maggiori esponenti della narrativa europea a cavallo fra Ottocento e Novecento si proposero di sondare i più profondi e inesplorati livelli della vita psichica, raccogliendo arditamente la sfida di tradurre in parole ciò che è inespresso, inconoscibile e anteriore alla verbalizzazione stessa.
Maturava l'esigenza di una nuova tecnica che permettesse di registrare sulla pagina scritta la simultaneità di sensazioni, sentimenti, idee, in ogni momento della durata o tempo interiore, affinché l'opera divenisse "Image exacte de notre logique intime, reflet de notre réalité profonde" .
Tale tecnica è quella che noi italiani, assieme ai francesi e ad altri popoli, chiamiamo monologo interiore. In Inghilterra esistono, invece, due espressioni: interior monologue (diretta traduzione dal francese) e stream of consciousness. La presenza simultanea di queste due opzioni linguistiche, ha generato una confusione terminologica ben difficile da districare.
Prima di soffermarci sulle diverse posizioni assunte dalla critica, sarà opportuno ricordare l'origine di entrambi i termini e le prime volte in cui furono usati. L'espressione stream of consciousness è legata all'ambito della psicologia, in quanto formulata per la prima volta dallo psicologo William James (fratello di Henry James) nel capitolo nono dei Principi di Psicologia, intitolato The stream of thought. Per confutare la concezione della coscienza come una successione di frammenti, elaborata da Hume, lo studioso scriveva: "Such word as 'chain' or 'train' do not describe it fitly as it presents itself in the first instance. It is nothing joined; it flows. A 'river' or a 'stream' are the metaphors by which it is most naturally described. .let us call it the stream of thought or subjective life" .
La felice espressione passò ben presto all'ambito della
letteratura, introdotta da May Sinclair, che in una sua recensione del 1918
l'applicava ai romanzi di Dorothy Richardson.
Nella sua accezione attuale l'espressione monologo interiore (vnutrenji monolog), invece, comparve per la prima volta nel 1856 in un saggio del critico russo Cernicevski sui Racconti di Sebastopoli di Tolstoj, ma, osserva Carapezza, "il termine vi ricorre quasi casualmente, una sola volta e senza particolari sottolineature" , mentre "a conferirgli il posto attuale nella terminologia critica fu (.) Valery Larbaud" .
Il poeta e romanziere francese incontrò Joyce nel 1920 e due anni più tardi, dopo aver letto l'Ulisse pubblicò, sull'opera, un articolo assai entusiastico, che diede inizio ad un acceso dibattito sul monologo interiore.
Della nuova tecnica egli stesso aveva tentato una prima definizione nella sua prefazione alla terza edizione del romanzo di Dujardin, Les lauriers sont coupés, dove scriveva: "Une de ces formes avait particulièrement frappé les esprits par sa nouveauté, sa hardiesse, et les possibilités qu'elle offrait pour exprimer avec force et rapidité les pensées les plus intimes, les plus spontanées, celles qui paraissent se former à l'insu de la conscience, et qui semblent antérieures au discours organisé. C'est à cette forme qu'on a donné, en France et peu après la publication de Ulysses, le nom de monologue interieur" .
Sempre nella prefazione all'opera di Dujardin, Larbaud riporta la definizione più autorevole e attendibile di monologo interiore: quella di James Joyce. Rifiutandosi di accettare la paternità del nuovo genere narrativo, che Larbaud gli attribuiva, Joyce indicava in Dujardin il suo precursore, nel cui romanzo (apparso nel 1888) ".le lecteur se trouvait.installé, dès les premières lignes, dans la pensée du personnage principal et c'est le déroulement ininterrompu de cette pensée qui, se substituant complètement à la forme usuelle du récit, apprenait au lecteur ce que fait ce personnage et ce que lui arrive" .
Passato inosservato al tempo della sua pubblicazione, il romanzo di Dujardin veniva in questo modo riabilitato e considerato germe
di quelle che sarebbero state le caratteristiche del romanzo novecentesco.
Forte della sua nuova posizione, lo scrittore francese, nel 1931, in un testo dedicato a Joyce e al monologo interiore (Le monologue interieur. Son apparition, ses origines, sa place dans l'oeuvre de James Joyce e dans le roman contemporain) ne dava la definizione seguente: "Le monologue interieur est, dans l'ordre de la poésie, le discours sans auditeur et non prononcé, par lequel un personnage exprime sa pensée la plus intime, la plus proche de l'inconscient, antérieurement à toute organisation logique, c'est-à-dire en son état naissant, par le moyen de phrases directes réduites au minimum syntaxial, de façon a donner l'impression tout venant" . Si trattava, insomma di un artificio per il quale il lettore era direttamente introdotto "nella vita interiore del personaggio senza alcun intervento di spiegazione o di chiosa da parte dell'autore" .
Sebbene Dujardin individuasse, come soggetto della nuova tecnica, i 'pensieri anteriori ad ogni organizzazione logica', nel suo romanzo
si susseguono ricordi, progetti, desideri, fantasticherie in forma già verbale e razionalizzata. Il Debenedetti sostiene che si possa più propriamente far rientrare l'opera di Dujardin nella categoria del soliloquio, piuttosto che in quella del monologo: ".fa meraviglia che Joyce abbia detto in maniera tanto perentoria di avere trovato lì il modello del suo monologo. Semmai vi aveva trovato l'esempio di una delega totale del compito di raccontarsi rilasciata al personaggio, di un nuovo modo di raccontarsi con cui il personaggio assolve quella delega, scoprendosi dentro e fuori, informandoci dell'azione e comunicandoci il proprio modo di viverla o il proprio commento, insomma le proprie armoniche interiori a ciò che succede: tutto questo attraverso un succedersi fittissimo di notazioni, prelevate istante-per-istante"[15].
Unico merito da Debenedetti attribuito a Dujardin consiste nell'aver aggiunto alle tre dimensioni, che normalmente si percepiscono in una visione 'stereoscopica' del personaggio, una quarta, insieme spaziale e temporale: "La novità di Dujardin è di fare occupare simultaneamente al personaggio il posto in cui si trova, quello a cui lo riporta il ricordo e
quello in cui lo proietta la sua immaginazione del futuro" .
Malgrado le incontestabili imperfezioni e goffaggini, Dujardin
era stato il primo a basare l'intera sua opera sulla forma del monologo interiore, apportando al genere narrativo una considerevole innovazione, che solo il maturare dei tempi e l'evolversi delle condizioni culturali avrebbero permesso di comprendere.
Bisogna sottolineare che né Larbaud né Dujardin utilizzarono nei loro trattati il termine stream of consciousness, la cui nozione veniva da loro riassorbita in quella di monologue intérieur .
Diversi studiosi e critici di lingua inglese, a partire dagli anni '50, ritennero invece necessaria una netta separazione fra i due termini sulla base della loro appartenenza ad ambiti culturali distinti.
A giudizio di Robert Humphrey il monologo interiore era soltanto una delle tecniche che serviva alla rappresentazione letteraria dello stream of consciousness, che tuttavia riteneva "properly a phrase for psychologists .
Alla definizione di monologo interiore data da Dujardin, egli ne opponeva una più semplice e precisa: "Interior monologue is, then, the technique of representing psychic content and processes at various levels of conscious control; before they are formulated for deliberate speech" .
Rifacendosi al testo di Humphrey, anche Scholes e Kellog osservavano come, trovandosi spesso combinati nella letteratura moderna, monologo interiore e flusso di coscienza non venivano più distinti e s'ignorava quanto fossero diverse le loro storie: "Il 'flusso di coscienza', affermavano i due studiosi, è propriamente un termine psicologico più che letterario. Descrive un certo tipo di processo psicologico (.) il termine flusso di coscienza sarà usato per designare qualsiasi presentazione in campo letterario di esempi di pensiero illogico, non grammaticale e prettamente associativo" . Il monologo interiore veniva invece descritto come "termine letterario (.) sinonimo di soliloquio muto (.) presentazione immediata e diretta dei pensieri (non espressi a voce) di un personaggio, senza che vi sia la mediazione di alcun narratore" .
In base a questa distinzione, i due autori facevano risalire le origini del monologo interiore ad un passato molto più lontano rispetto a quello in cui affondava le radici il flusso di coscienza: "Come espediente narrativo il monologo interiore ha una storia molto più antica del flusso di coscienza (.) Alcuni autori che svilupparono e sfruttarono il monologo nel mondo antico sono: Omero, Apollonio Rodio, Virgilio, Ovidio, Longo e Senofonte di Efeso" .
Intanto anche in Francia si cominciava a mettere in discussione la stessa espressione monologo interiore. Nel 1966 Michel Raimond scriveva: ""L'expression monologue intérieur (.) est (.) quelque peu contradictoire puisqu'elle suggère l'idée de parole, mais aussi de solitude, de profondeur, d'un en-deçà de la parole. Les expressions anglaises stream of thought (courent de pensée), puis stream of consciousness (courent de conscience) puis thought train (enchainement de la pensée) font mieux apparaitre le caractère de deroulement des états de conscience" .
Venti anni dopo Genette, ritenendo "goffa" la definizione di
monologo interiore, proponeva di sostituirla con quella di discorso immediato: ".dato che l'essenziale, come non è sfuggito a Joyce, non è tanto il fatto che sia interiore, ma che sia immediatamente emancipato ('fin dalle prime righe') da qualsiasi tutela narrativa"[24].
Ritenendo fondata la separazione fra monologo interiore e stream of consciousness designeremo col primo termine una delle tecniche del romanzo del flusso di coscienza del quale cercheremo, nelle prossime pagine, di tracciare la genealogia.
Antecedenti dello stream of consciousness
Nella sua storia della letteratura inglese, Mario Praz individua due genealogie: "l'inglese che segue la linea Sterne - Meredith - James - Conrad, la francese che passa per Diderot - Rousseau - Stendhal - Flaubert" . A questi ultimi aggiungerei come ulteriore tappa l'immancabile nome di Proust. Ritengo, inoltre, che non si possa trascurare il grande contributo apportato da autori come Svevo o dai russi Tolstoj e Dostoevskij.
Vediamo ora in che modo ciascuno di questi scrittori contribuì alla nascita del nuovo romanzo.
In anticipo di due secoli sugli scrittori novecenteschi, Sterne applicava alla narrativa la teoria lockiana delle associazioni d'idee, nella resa singolarissima di una nuova dimensione temporale, quella che Bergson
avrebbe teorizzato due secoli più tardi. Nel suo Tristam Shandy, usando una narrazione in prima persona, Sterne spostava l'attenzione dalla successione cronologica di avventure ed eventi (tipica del romanzo realistico) a ciò che il personaggio pensa e sente, in un sovrapporsi di episodi apparentemente non correlati fra loro. Come si vede l'originale tecnica da lui inventata molto aveva in comune con il particolare modo di scrivere in cui in seguito si sarebbero cimentati i romanzieri del Novecento.
Del Meredith sottolineeremo la particolare vena psicologica, nonché l'interesse per i problemi relativi al modo di acquistare coscienza di sé.
Quanto a Henry James, poi, con le sue opere egli gettava le basi del moderno romanzo psicologico. Con geniale intuizione riduceva il campo visivo dall'onniscienza classica alle percezioni, ai pensieri e alle opinioni del personaggio, dal cui punto di vista l'azione veniva filtrata, mentre l'autore doveva sembrare assente dall'opera e in nessun modo doveva intervenire a dirigere o manovrare lo svolgersi degli eventi.
Anche Conrad contribuiva in modo determinante allo sviluppo
di nuovi moduli narrativi. Introducendo una o più figure di narratori, egli permetteva al lettore di guardare agli eventi da prospettive diverse e molteplici; inoltre, nel seguire pensieri e ricordi dei suoi personaggi Conrad spostava l'azione avanti e indietro nel tempo, manipolando la tradizionale sequenza temporale.
La genealogia francese di Mario Praz parte da Diderot, che dal suo temperamento vigoroso e appassionato era indotto ad una scrittura tutt'altro che logicamente e rigorosamente costruita: egli componeva con spontaneità ed intrecciava i temi seguendo le sue associazioni d'idee.
Tappa successiva è Rousseau con le Rêveries du promeneur solitaire, in cui l'intrecciarsi dei ricordi segue un procedimento che anticipa quello che più tardi sarà adottato da Proust e si riconnette agli Essais cinquecenteschi di Montaigne: i monologues bavardés che Larbaud colloca all'origine della sua storia dei precedenti del monologo interiore .
Quanto a Stendhal, straordinarie furono le sue intuizioni, mai portate a compimento nei suoi romanzi, circa l'effetto estremamente realistico realizzabile attraverso un'ipotetica ed improbabile forma narrativa in cui l'autore, come uno stenografo invisibile, riuscisse a tener dietro al rapido corso dei pensieri e dei sentimenti del protagonista: "On pense beaucoup plus vite qu'on ne parle. Supposons qu'un homme pût parler aussi vite qu'il pense et sent, que cet homme une journée entière prononçat de manière à n'être entendu que d'un seul homme tout ce qu'il pense et sent, qu'il y eût, cette même journée, toujours à côté de lui un sténographe ivisible qui pût écrire aussi vite que le premier penserait et parlerait. Supposons que le sténographe, après avoir noté toutes les pensées et sentiments de notre homme, nous les traduisit le lendemain en écriture vulgaire, nous aurions un caractère peint pendant un jour aussi ressemblant que possible" . In questo modo Stendhal teorizzava ciò che soltanto un secolo più tardi, nella prosa novecentesca, avrebbe raggiunto una piena maturazione.
Altra tappa è Flaubert che fece uso dello stile indiretto libero e dell'adozione del punto di vista del protagonista, attraverso i quali il narratore cedeva, man mano e in maniera sempre più diretta, la parola al
personaggio.
Citiamo, infine, Proust che non compare nella ricostruzione genealogica di Praz, ma che pare inevitabile ricordare per il totale sconvolgimento da lui operato nella tradizionale dimensione narrativa.
Ponendosi alla ricerca del tempo perduto, l'autore s'inoltrava nel labirintico terreno della memoria per trovare, con un'operazione a ritroso, un nuovo significato dell'esistenza. Tale operazione si realizzava attraverso le "intermittenze del cuore", attimi rivelatori che richiamano le "epifanie" di Joyce e che nascono da percezioni del reale in grado di sollecitare la messa in moto del processo involontario della memoria, alterando il nostro ritmo d'esistenza e consentendo al passato di confluire nel presente.
In base a questi presupposti, nell'opera di Proust ad una trama lineare si sostituiva un intreccio di continui rimandi temporali: analessi, prolessi, espansioni e contrazioni della durata contrassegnavano il ritmo narrativo. Inoltre, adottando la prima persona, Proust spostava il punto d'osservazione dall'esterno all'interno della vicenda, sovrapponendo il ruolo del personaggio a quello del narratore, il cui compito diveniva
semplicemente quello di un'imparziale registrazione.
Dello stream of consciousness ritroviamo qualche avvisaglia anche nel romanzo russo. Si pensi al confuso intreccio di pensieri e percezioni esterne nel monologo interiore della Anna Karenina di Tolstoj, colta nei momenti che precedono il suicidio. Ma più vicino agli scrittori del nostro secolo è, forse, Dostoevskij, nelle cui opere trova posto il brulichio del pensiero in formazione. Egli è colui che, prima di Joyce, ha portato la forma del monologo "à toute la perfection diverse et subtile que cette forme littéraire pouvait attendre" .
Grande fu pure il contributo apportato dal romanziere italiano Italo Svevo, amico di Joyce e fra i primi in Italia ad avere familiarità con le teorie freudiane, nei cui romanzi si rileva la presenza delle più innovative tecniche narrative: dalla dissoluzione del personaggio all'assunzione del tempo interiore come asse portante della narrazione e all'invadente monologo interiore del personaggio.
Tuttavia una sostanziale differenza separa la grande narrativa psicologica dai romanzi dello stream of consciousness: nella prima troviamo il personaggio che consapevolmente si narra e si analizza, i secondi
pretendono d'essere l'imparziale annotazione di pensieri e sentimenti che, all'insaputa del personaggio, l'autore ha misteriosamente colto e rappresentato.
Le tecniche e i maggiori esponenti dello stream of consciousness novel
Come Robert Humphrey sottolinea, i cosiddetti romanzieri dello stream of consciousness escogitarono ognuno un proprio metodo da seguire nella rappresentazione della coscienza: ".the techniques for presenting stream of consciousness are greatly different from one novel to the next, it has led to the dilemma one has when one acknowledges that a particular piece of writing displays stream of consciousness technique and then turns to an entirely different kind of technique which has generally been labeled stream of consciousness also and sees no great similarity between the two. (.) then, we shall be dealing with techniques and not with the stream of consciousness technique" .
Di seguito Humphrey propone una classificazione delle
tecniche di rappresentazione basilari, che possiamo ritenere come la più attendibile e a cui tutti gli studiosi successivamente si sono rifatti.
Humphrey indica, come fondamentali per la rappresentazione del flusso di coscienza, quattro tecniche: 1) monologo interiore diretto, 2) monologo interiore indiretto, 3) descrizione onnisciente, 4) soliloquio . Come si vede si tratta sia di vere e proprie innovazioni formali che di rielaborazioni e revisioni delle modalità narrative tradizionali.
Una disamina di queste tecniche e degli autori nelle cui opere compaiono con maggiore frequenza, tenendo presente tuttavia che spesso esse si mescolano in un unico romanzo, aiuterà senz'altro ad una visione più chiara del genere letterario dello stream of consciousness e dei suoi maggiori rappresentanti.
Cominceremo, quindi, con il chiarire che cosa sia il monologo interiore diretto, quello di cui si accredita l'invenzione a Dujardin.
Essenziale caratteristica di questa tecnica è, innanzi tutto, l'uso della prima persona: l'istanza narrativa viene a cancellarsi quasi completamente in modo tale che l'impressione è quella di una registrazione oggettiva dello scorrere e dell'incoerente concatenarsi di pensieri, immagini,
sensazioni, ricordi nella mente del personaggio.
Mancano, quindi, interventi o commenti autoriali che possano funzionare da guida o fornire spiegazioni al lettore, il quale da solo deve riuscire ad orientarsi nella vicenda. Trattandosi, infatti, della descrizione di processi interiori, non si può formalmente ipotizzare la presenza di un lettore, o di un destinatario, o di un pubblico.
Osserva Debenedetti che "la condizione sine qua non del monologo interiore è la completa assenza di testimoni; qualunque testimone inibirebbe il flusso e la possibilità di confessarlo" .
Visto che a parlare nel romanzo è la voce interiore del personaggio, il linguaggio utilizzato è proprio del suo particolare modo di esprimersi; il tempo in cui si svolge il discorso narrativo è il presente, dato che l'illusione che s'intende creare è quella d'immediatezza e di contemporaneità fra i pensieri nel loro svolgersi e la loro rappresentazione.
L'esempio classico di monologo interiore diretto è quello di Molly Bloom nell'ultimo capitolo dell'Ulisse. In esso il lettore si ritrova a seguire i vagabondaggi della coscienza della donna, che svegliata dal rientro
del marito (il quale le giace ora a fianco addormentato) attende di riprendere
sonno. Ne ricordiamo il frammento iniziale: "Yes because he never did a thing like that before as ask to get his breakfast in bed with a couple of eggs since the City Arms hotel when he used to be pretending to be laid up with a sick voice doing his highness to made himself interesting to that old faggot Mrs. Riordan that he thought he had a great leg of and she never left us a farthing all for masses for herself and her soul greatest miser ever was actually afraid to lay out 4d for her methylated spirit telling me all her ailments."[32]. Il passo continua, così, attraverso strati di coscienza sempre più profondi, finché Molly non si addormenta e si conclude il romanzo.
Vediamo quali sono gli elementi che ci consentono di definire questo brano monologo interiore diretto: è scritto in prima persona, senza il minimo intervento da parte dell'autore e senza un presupposto uditore; il flusso dei pensieri di Molly è rappresentato così come si suppone si svolga all'interno della sua mente: le idee si accavallano velocemente
ed una interrompe l'altra; il carattere d'incoerenza è ancor più sottolineato
dalla totale assenza di punteggiatura.
Ben si presta tale tecnica all'intento che il grande scrittore irlandese si proponeva di raggiungere attraverso la sua narrativa: "It is a method for doing what Joyce wanted to do, and that is to present life as it actually is, without prejudice or direct evaluations. It is then the goal of the realist and the naturalist. The thougths and actions of the characters are there, as they were created by an invisible, indifferent creator. We must accept them, because they exist" .
Tornando alla classificazione di Humphrey, vediamo in che modo opera il monologo interiore indiretto.
Nel monologo indiretto, attraverso l'uso della terza persona, viene data al lettore l'impressione della continua presenza di un'istanza narrativa superiore, che invece nel monologo diretto, come abbiamo visto, manca completamente.
Attraverso i propri interventi, per quanto limitati, l'autore può
adempiere a due importanti funzioni - quella di guida per il lettore e quella
di selezione dei materiali - senza peraltro intaccare la fluidità e verosimiglianza della rappresentazione.
Diremo con Humphrey che: "Indirect interior monologue is, then, that type of interior monologue in which an omniscient author presents unspoken material as if it were directly from the consciousness of a character and, with commentary and description, guides the reader through it. It differs from direct interior monologue basically in that the author intervenes between the character's psyche and the reader. The author is an on the scene guide for the reader. It retains the fundamental quality of interior monologue in that what it presents of consciousness is direct; that is, it is in the idiom and with the peculiarities of the character's psychic processes" .
Humphrey indica Virginia Woolf come la scrittrice che maggiormente fece uso di questa tecnica; propongo, a mò di d'esemplificazione, il conosciutissimo passo d'apertura di Mrs Dalloway:
"Mrs Dalloway said she would buy the flowers herself. For Lucy had her work cut out for her. The doors Would be taken off their hinges; Rumpelmayer's men were coming. And then, thought Clarissa Dalloway, what a morning - fresh as if issued to a children on a beach. What a lurke! What a plunge! For so it has always seemed to her, when, with a little squeak of the hinges, which she could hear now, she had burst open the French windows and plunged at Bourton into the open air. How fresh, how calm, stiller than this of course, the air was in the early morning; like the flap of a wave; the kiss of a wave, chill and sharp and yet (for a girl of eighteen as she was) solemn, feeling as she did, standing there at the open window, that something awful was about to happen."[35].
Rispetto al monologo di Joyce quello di Virginia Woolf è
caratterizzato da maggiore logicità e da un effetto di unità esteriore che può farlo apparire maggiormente convenzionale. Il Debenedetti affermò addirittura che i risultati cui la Woolf era pervenuta non potevano dirsi davvero così innovativi. Nel romanzo della scrittrice, infatti, "tutto si connette al lume della psicologia più diurna e visibile, sul filo delle associazioni logiche, mentali, sensorie". L'opera non è altro, quindi, che una "intensificazione più selettiva, più infinitesimale, se così può dirsi del tipo d'investigazione del personaggio quale ci presentava, sia pure in aspetti più macroscopici, il romanzo tradizionale"[36]. Il critico, insomma, sosteneva che soltanto nella forma diretta si poteva a giusto titolo parlare di monologo interiore.
In realtà c'è una comunanza di fondo che avvicina il monologo di Molly Bloom a quello di Clarissa Dalloway ed è il carattere voluto e costruito d'incoerenza e di disunità, tipico della coscienza, che si ravvisa nelle continue divagazioni rispetto ad un argomento dato o nei riferimenti intenzionalmente lasciati in sospeso. Pur adottando metodi diversi, i due autori avevano mirato allo stesso risultato, quello di un'efficace resa del funzionamento dei processi mentali.
Altra tecnica di rappresentazione, a detta di Humphrey, è la descrizione del flusso di coscienza fatta da un narratore onnisciente: ".in which an omniscent author describes the psyche through conventional methods of narration and description" . Questa che è in realtà una tecnica tradizionale, appare, in combinazione con le altre, nelle opere di gran parte degli scrittori di stream of consciousness, i quali seppero farne un uso davvero originale ponendovi al centro un soggetto nuovo: quello della realtà interiore.
E' nei romanzi di Dorothy Richardson che tale tecnica appare con maggiore frequenza, alternata dapprima soltanto con frammenti di monologo interiore indiretto e poi, negli scritti più maturi, anche con scampoli di monologo interiore diretto. Vedremo più avanti in che modo le tecniche suddette si mescolano nella creazione richardsoniana.
L'ultima tecnica inclusa da Humphrey nella sua classificazione è quella del soliloquio, che si differenzia dal monologo interiore in quanto presuppone un uditorio immediato a cui il monologante si rivolge nella comunicazione dei suoi intimi pensieri, sentimenti ed idee relativi allo svolgersi degli eventi esteriori. Pur concentrati nella resa della realtà soggettiva, i romanzieri che fecero uso di tale tecnica non rinunciavano
alla trama e all'azione. Osserva a questo proposito Humphrey: ".novels using soliloquy represent a successful combination of interior stream of consciousness with exterior action. In other words, both internal and external character is depicted in them. The method for achieving this could not have been interior monologue, for greater coherence and more unity were needed than that technique provides; nor did simple description prove sufficiently variable. It was the soliloquy which was flexible enough to carry the double load" .
Di questo metodo troviamo mirabili esempi nel romanzo The Waves di Virginia Woolf. Senza commenti o spiegazioni autoriali, il romanzo si costruisce attraverso i 'soliloqui drammatici'(così denominati dalla stessa scrittrice ) dei sei personaggi: Bernard, Rhoda, Jinny, Louis, Neville e Susan.
Si legga il passo seguente: " 'I love' said Susan 'and I hate. I
desire one thing only. My eyes are hard. Jinny's eyes break into a thousand
lights. Rhoda's like those pale flowers to which moths come in evening. Yours grow full and brim and never break. But I am already set on my pursuit. I see insects in the grass. Though my mother still knits white socks for me and hems pinafores and I am a child, I love and hate'. 'But when we sit together, close,' said Bernard, 'we melt into each other with phrases. We are edged with mist. We make an unsubstantial territory'. 'I see the beatle,' said Susan. 'It is black, I see; it is green, I see; I am tied down with single words. But you wander off; you slip away; you rise up higher, with words and words in phrases'".
Sebbene l'intervento di ciascun protagonista sia introdotto dalle parole 'Susan disse', 'Bernard disse', è chiaro che non si tratta di una conversazione: il rivelare e rivelarsi del personaggio, pur se rivolto formalmente ad un potenziale interlocutore, è interiore e non pronunciato.
Per queste vie i più abili scrittori del Novecento modellavano la loro inedita e innovativa modalità di scrittura.
The Age of Anxiety di W. H. Auden, cit. in M. Praz, Letteratura inglese dai romantici al Novecento, Milano, BUR, 1992, p. 233. ("povero confuso folle mediocre animale).
Benedetto Croce, cit. in R. Marchese/A. Grillini, Scrittori e opere 3, Milano, La Nuova Italia, 1988.
H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, trad. it. di G. Bartoli, Torino, Borimghieri, 1964, pp. 107-8.
H. Bergson, L'evoluzione creatrice, in Le opere, trad. it. di P. Serini, Torino, Utet, 1971,
pp. 155-6
Si riprende liberamente il discorso di A. Carapezza, Lo stenografo invisibile, Palermo, Quaderno 8 nuova serie, Università degli studi di Palermo, 1995, p. 13. La lettura di tale saggio mi è stata particolarmente utile per l'organizzazione di questo paragrafo.
Jean de Pierrefeu, Journal des Débats, 19 dicembre 1923, cit. in M. Raimond, La Crise du Roman des Lendemains du Naturalisme aux Années '20, Paris, José Corti, 1966, p. 266. ("Immagine esatta della nostra intima logica, riflesso della nostra realtà profonda").
W. James, Principles of Psychology, London, 1907, p. 620. ("Parole come 'catena' o 'successione' non la descrivono adeguatamente così come si presenta in primo luogo. Non è niente di concatenato; essa fluisce. 'Fiume' o 'corso d'acqua' sono le metafore con cui si descrive più naturalmente . lo chiameremo flusso del pensiero o della vita soggettiva").
V. Larbaud, Préface alla terza edizione di E. Dujardin, Les lauriers sont coupés, Messien Paris, 1925, p. 6. ( "Una di queste forme aveva particolarmente colpito gli spiriti per la sua novità, la sua arditezza, e le possibilità che offriva di esprimere con forza e rapidità i pensieri più intimi, più spontanei, quelli che paiono formarsi all'insaputa della coscienza, e che sembrano anteriori al discorso organizzato. E' a questa forma che si è dato, in Francia e poco dopo la pubblicazione dell'Ulisse, il nome di monologo interiore").
Ivi, p. 7. (".il lettore si trovava.immesso, fin dalle prime righe, nel pensiero del personaggio principale, ed è lo svolgimento ininterrotto di questo pensiero che, sostituendosi completamente alla forma abituale di racconto, informa il lettore di ciò che il personaggio fa e di quanto gli accade".)
E. Dujardin, Le monologue interieur. Son apparition, ses origines, sa place dans l'oeuvre de James Joyce et dans le roman contemporain, Paris, A. Messein, 1931, p. 256. ( "Il monologo interiore è, nell'ordine della poesia, il discorso senza ascoltatore e non pronunciato, mediante il quale un personaggio esprime il suo pensiero più intimo, più vicino all'inconscio, anteriore a qualsiasi organizzazione logica, cioè in forma embrionale, con frasi dirette ridotte al minimo della sintassi, in modo da dare l'impressione del 'casuale'".)
Cfr. A. Carapezza, op. cit., p. 21.
R. Humphrey, Stream of consciousness in the Modern Novel, Berkley, Los Angeles, Londra, University of California Press, 1954, p. 1. ("propriamente una frase per psicologi").
Ivi, p. 24. ("Il monologo interiore è, allora, la tecnica di rappresentazione dei contenuti e dei processi psichici a vari livelli di controllo cosciente; prima che vengano formulati in un discorso deliberato").
M. Raimond, op. cit., p. 17. ("L'espressione monologo interiore (.) è (.) un po' contraddittoria poiché suggerisce l'idea di parola, ma anche di solitudine, di profondità, di un al di qua della parola. Le espressioni inglesi stream of thought (corrente di pensiero), poi
stream of consciousness (corrente di coscienza) poi thought train (concatenazione del pensiero) mostrano meglio il carattere di svolgimento degli stati di coscienza").
Stendhal, Filosofia nova, cit. in Attilio Carapezza, op. cit., p. 13. ("Si pensa molto più velocemente di quanto si parla. Supponiamo che un uomo potesse parlare altrettanto velocemente di quanto pensa e sente, che quest'uomo per un'intera giornata pronunciasse in modo da essere ascoltato da un solo uomo tutto ciò che pensa e sente, che ci fosse, quella stessa giornata, sempre accanto a lui uno stenografo invisibile che potesse scrivere altrettanto velocemente di quanto il primo pensi e parli. Supponiamo che lo stenografo, dopo aver annotato tutti i pensieri e i sentimenti del nostro uomo, ce li traducesse il giorno successivo in scrittura comune, noi avremmo un personaggio dipinto nel corso di una giornata tanto somigliante quanto possibile").
A. Gide, Dostoïevsky, cit. in M. Raimond, op. cit., p. 262. ("a tutta la perfezione multiforme e sottile cui questa forma letteraria poteva pervenire").
R. Humphrey, op. cit., p. 23. (".le tecniche per rappresentare il flusso di coscienza sono enormemente diverse da romanzo a romanzo; ciò ha condotto al dilemma che ci si trova ad affrontare quando si riconosce che un'opera narrativa esibisce la tecnica dello stream of consciousness e ci si volge poi ad un tipo di tecnica completamente diversa che è stata pure generalmente etichettata come stream of consciousness e non si vedono grandi somiglianze fra le due. (.) dunque, avremo a che fare con le tecniche e non con la tecnica del flusso di coscienza).
J. Joyce, Ulysses, New York, Random House, 1934, p. 723. Trad. it. di Giulio de Angelis, Milano, Mondadori, 1991, p. 698. ("Si perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo al City Arms hotel quando faceva finta di star male con la voce sofferente e faceva il pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva d'essere nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l'anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali.").
R. Humphrey, op. cit., pp. 15-16. ("E' un metodo che ben si presta a fare ciò che Joyce voleva fare, e cioè presentare la vita così come veramente è, senza pregiudizi o valutazioni dirette. Si tratta, allora, del traguardo del realista e del naturalista. I pensieri e le azioni dei personaggi sono lì, come se fossero creati da qualche creatore invisibile ed indifferente. Dobbiamo accettarli perché esistono").
Ivi, p. 29.("Il monologo interiore indiretto è, allora, quel tipo di monologo interiore in cui un autore onnisciente presenta del materiale non detto come se provenisse direttamente dalla coscienza di un personaggio e, con il commento e la descrizione, guida il lettore attraverso di essa. Esso differisce dal monologo interiore diretto principalmente in quanto l'autore interviene fra la psiche del personaggio e il lettore; l'autore è una guida sul campo per il lettore. Esso conserva la qualità fondamentale del monologo interiore nel fatto che quanto presenta della coscienza è diretto; ovvero si manifesta nel linguaggio e con le peculiarità dei processi psichici del personaggio").
V. Woolf, Mrs Dalloway, London, The Hogarth Press, 1963, pp. 5-6, trad. it. di Pier Francesco Paolini, Roma, Newton, 1997, p. 23. (La signora Dalloway disse che i fiori sarebbe andata a comprarli lei. Poiché Lucy aveva avuto il suo bel da fare. Bisognava tirar giù le porte dai cardini: venivano gli operai di Rumpelmayer. Eppoi pensò Clarissa Dalloway, che mattinata!.limpida, come per farne dono ai bimbi su una spiaggia. Che delizia! Che tuffo! Sempre, infatti, le aveva fatto questo stesso effetto, a quei tempi, allorquando, spalancata la porta finestra - con un lieve cigolio dei cardini, che ancora le pareva di udire - lei si tuffava nell'aria aperta, a Bourton. Com'era fresca, là, com'era calma - e più silenziosa che qui ovviamente - l'aria del primo mattino: come il frangersi di un'onda; il bacio di un'onda; fresca e pungente eppure (per la fanciulla di diciott'anni ch'era allora) solenne: là alla finestra aperta, ella provava infatti un presagio di qualcosa di terribile ch'era lì lì per accadere.").
R. Humphrey, op. cit., pp. 33-34. (".in cui un autore onnisciente descrive la psiche attraverso metodi convenzionali come la narrazione e la descrizione").
Ivi, p. 38. (". i romanzi che usano il soliloquio rappresentano una riuscita combinazione di flusso di coscienza interiore ed azione esteriore. In altre parole, in essi il personaggio è raffigurato sia dall'interno che dall'esterno. Il metodo per ottenere ciò non sarebbe potuto essere il monologo interiore, poiché sono necessarie una coerenza ed unità maggiori di quanto tale tecnica fornisca; né la semplice descrizione si dimostrò sufficientemente variabile. Fu il soliloquio, che era sufficientemente flessibile per portare il duplice carico").
V. Woolf, The Waves, London, Penguin Books, 1992, p. 10. Trad. it. di Giulio De Angelis, Le Onde, Milano, Rizzoli, 1994, p. 16. (" 'Amo' disse Susan 'e odio. Desidero solo una cosa. Ho gli occhi duri. Quelli di Jinny si frangono in mille luci. Quelli di Rhoda sono come quei fiori pallidi a cui di sera s'accostan le falene. I tuoi diventan pieni e colmi e non si frangono mai. Ma io sono già sul mio sentiero di guerra. Vedo gl'insetti tra l'erba. Sebbene la mamma mi faccia sempre le calzette bianche e mi ricami i grembialini e io sia una bambina, pure amo e odio.' 'Ma quando sediamo vicini, insieme, io e te' disse Bernard 'ci fondiamo, parlando, l'uno nell'altra. Siamo alonati da una nebbiolina. Formiamo un territorio impalpabile, incorporeo.' 'Vedo lo scarabeo' disse Susan. 'E' nero, lo vedo; no, è verde; sono legata alla terra, stretta da parole isolate. Ma tu ti distacchi e fuggi via, ti sollevi in alto con parole e parole e parole unite a formare frasi' ").
Appunti su: https:wwwappuntimaniacomumanisticheletteratura-italianolet-dellansia-tempo-di-sperime83php, l27etC3A0 dell27ansia letteratura, tesina sull27etC3A0 dell27ansia, l27etC3A0 dell27ansia riassunto, |
|
Appunti Poesia | |
Tesine Educazione pedagogia | |
Lezioni Pittura disegno | |