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"Si deve cominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli di ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita. Senza memoria la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire."
Oliver Sacks[1]
In questo capitolo intendo occuparmi dell'autobiografia poiché alcune iniziative proposte e sviluppate dal gruppo "ildue", hanno come denominatore comune il racconto di sé da parte dei detenuti.
In particolare mi riferisco al progetto dell'audiolibro "Il lupo racconta", che sarà l'oggetto del prossimo capitolo, nel quale sono raccolti undici brani scritti e interpretati da un gruppo di detenuti del carcere milanese di S. Vittore.
Questi brani sono brandelli di vita dei loro autori, e sono proprio i brandelli più tristi e difficili, quelli che normalmente ognuno di noi tiene per sé.
I detenuti, invece, hanno voluto "renderli" fiabe e regalarli alla società libera, per spiegare, far capire che dietro ad ogni gesto ci sono delle motivazioni e che queste vanno comprese. In queste fiabe, come si può intuire dal titolo dell'audiolibro, i detenuti sono lupi, e lupi che si raccontano.
Per questo motivo mi interessa indagare sulle potenzialità educative dell' autobiografia, per capire cosa il progetto dell'audiolibro possa aver insegnato ai suoi autori che hanno rivisitato la propria vita attraverso lo sguardo del lupo cattivo, e stabilire, così, se tale progetto può considerarsi parte di quelle attività che mirano alla rieducazione del detenuto.
Come si noterà nello svolgimento di questo capitolo ho assunto come riferimenti bibliografici principali alcuni testi del professor Duccio Demetrio[2]. Quest'ultimo fra l'altro scriverà la prefazione al libro-gioco "Kriminal mouse". Tale gioco fa parte dei progetti del gruppo "ildue", e ha anch'esso come base il racconto autobiografico dei detenuti. Analizzerò brevemente il libro-gioco nelle conclusioni di questo elaborato di tesi.
Prima di cominciare ad indagare intorno alle potenzialità pedagogiche dell'autobiografia, è bene introdurre le caratteristiche principali di questo genere letterario. Così, in questo paragrafo, inizierò con la descrizione del pensiero autobiografico che, come si vedrà, è il presupposto del lavoro autobiografico, del quale discuteremo il "valore pedagogico" per colui che lo intraprenda. Successivamente, per dare maggiore credibilità all'autobiografia come metodo volto alla cura di sé, proporrò un breve excursus storico dell'utilizzo di tale metodo per dimostrare che il racconto della propria storia aveva già svelato i suoi benefici terapeutici nell'antichità.
Demetrio sostiene che ormai da centinaia di anni e soprattutto nelle culture occidentali esiste un momento nel corso della vita di chiunque in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal solito.
Non si tratta di una semplice e narcisistica voglia di parlare di sé, è qualcosa di più importante e profondo che spesso ci coglie impreparati, una domanda della mente che raggiunge una consistenza tale per cui non può essere ignorata. E' il desiderio di guardare alla propria esistenza come spettatori, per rispondere alla domanda: "ma chi sono io veramente?".
E' per la necessità di rispondere a questa domanda che il pensiero autobiografico prende forma, esplicandosi nella ricerca della nostra identità, della quale il passato si rivela il depositario e il tutore.
Demetrio definisce, infatti, il pensiero autobiografico "quell'insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e si è fatto.una presenza che da un certo momento in poi accompagna il resto della nostra vita."[3] Questa presenza, può rimanere una compagnia segreta comunicata agli altri sotto forma di sparsi ricordi, oppure può diventare uno scopo di vita. In questo caso si trasforma in un progetto narrativo compiuto, diventa racconto di sé e alimenta la passione di voler lasciare una traccia di noi a chi verrà dopo.
Dunque il pensiero autobiografico è la scintilla che fa scaturire la ricerca del senso della nostra vita, dando origine al lavoro autobiografico.
Ma che cos'è l'autobiografia?
Alla voce autobiografia il Grande Dizionario Garzanti cita: "l'opera in cui l'autore narra la propria vita o parte di essa"[4].
E' un genere letterario come il romanzo, il dramma, il saggio, la lirica, ma a differenza di questi "grandi" della letteratura, che richiedono notevoli competenze per potervi accedere, l'autobiografia (almeno apparentemente) è alla portata di chiunque sappia leggere, scrivere e abbia una vita alle spalle.
Questa "facilità di accesso" non deve però ingannare circa le potenzialità formative di questo genere letterario, che è oggi stato ri-scoperto come utile strumento di autoformazione.
Raccontandosi, secondo le teorie alla base dell'utilizzo dell'autobiografia in ambito educativo, si apprende a documentare la propria esperienza al passato e al presente, a lasciare una testimonianza di sé agli altri, a scrivere con più motivazione, a pensare e a riflettere meglio.
Per questi motivi il "racconto di sé" viene definito un metodo autoformativo, poiché, ciascuno, da solo, può sperimentarlo in prima persona: autocorreggendosi, autovalutandosi, scoprendo potenzialità narrative prima sconosciute e rivelando così le sue doti creative nascoste.[5]
Ma l'autobiografia a scopo pedagogico non è certo una scoperta di noi contemporanei, infatti le sue doti erano già state apprezzate da "estimatori" molto autorevoli provenienti dall'antichità, come dimostrerà il breve excursus storico che riporto di seguito.
Per trovare le prime tracce di autobiografia come metodo terapeutico è bene andare molto indietro nel tempo. A quando cioè i greci coniarono la frase "epimelestai eautou" (occupati di te stesso) o i latini, molto più tardi, ormai agli albori del Cristianesimo, scoprirono che l'otium, stato nel quale era possibile dedicarsi alla riflessione su se stessi, era una medicina dell'anima e del corpo (era cura sui).
Lo scopersero nell'antichità e nel pensiero d'Occidente, primi fra tutti, filosofi e poeti che, influenzati dallo stoicismo e dall'epicureismo, si avvidero del potere della scrittura delle proprie memorie che faceva provare una sorta di pietas di sé. Nacque, allora, quella speciale sensazione di benessere, e di pace, che la reminiscenza genera e che per il Cristianesimo fu in seguito la compassione. E' un sentimento che, a seconda dell'educazione ricevuta, è paragonabile al senso di liberazione proveniente dall'ammissione delle proprie colpe, dalla presentazione delle proprie scuse. In entrambi i casi la memoria è un lasciarsi andare ad uno sfogo interiore.
Michel Foucault, ricostruì nelle sue ultime opere le "pratiche della cultura di sé", in quel tempo precristiano, in Grecia e a Roma, che vide la nascita dell'individualismo occidentale, presente, come cita Foucault, "laddove si esercitasse l'intensità dei rapporti con sé, cioè delle forme nelle quali si è chiamati ad assumere se stessi come oggetto di conoscenza e campo d'azione, allo scopo di trasformarsi, correggersi, purificarsi, edificare la propria salvezza"[7]. Laddove, cioè, rivolgendosi al proprio passato fosse possibile operarne un ripensamento, dove, quindi, l'esperienza di sé diventa non una forza da padroneggiare ma un piacere che si trae da se stessi. Piacere che Foucault definisce: "un gaudium, una laetitia che prova chi è finalmente giunto ad avere accesso a se stesso" . L'autobiografia che si sviluppò nel mondo precristiano delle tachne tou biou (arti dell'esistenza), alle quali i primi padri della Chiesa si ispirarono in funzione mistica (il più noto è S. Agostino), fa parte di quei provvedimenti volti ad occuparsi di se stessi a pieno titolo. Foucault non approfondì questa tecnica, ma ad essa approdò quando giunse, con i suoi studi sulla filosofia stoica ed epicurea, agli epigoni latini (Seneca e Marco Aurelio) che scrissero lettere e ricordi agli amici solo in funzione autoterapeutica. Foucault conclude che le discipline del sé richiedono impegno e volontà, infatti afferma: "L'epimeleia implica un preciso lavoro. Richiede tempo. Uno dei grandi problemi di questa cultura di sé consiste appunto nel fissare, nell'arco della giornata o in quello della vita, la parte che è opportuno consacrarle."
Dunque si può concludere che l'utilizzo a scopo pedagogico dell'autobiografia sia una "tecnica antica".
Ad avvalorare la tesi, fin qui sostenuta, che il racconto della propria storia di vita abbia un valore pedagogico, è il fatto che non ci sia ambito di formazione, lavoro sociale, clinico e persino scolastico, che disconosca l'utilità e l'importanza delle pratiche narrative e, in particolare di quelle auto-riferite.
Questo sottolinea la considerazione che le scienze sociali hanno del "racconto di sé" come metodo formativo, quindi adesso mi interessa indagare su quali potenzialità pedagogiche siano riconosciute a tale metodo e lo farò sottolineando i benefici che esso provoca, benefici che, come si vedrà, risultano "amplificati" quando dalla narrazione orale si passa a quella scritta.
Demetrio sostiene che per far sì che il racconto della propria storia provochi nell'autore "benefici pedagogici" e non si riduca ad una narrazione priva di senso, occorre, ogni volta, svelare la natura pedagogica delle parole, che si mostra tale quando le persone, dai racconti, imparano qualche cosa di più di sé, degli altri e del mondo.
Il lavoro educativo, dunque, è presente laddove sia osservabile, nel breve o lungo periodo, un salto cognitivo, una variazione di mentalità, l'emergere di una immagine diversa della realtà. Così al narrare possono riconoscersi scopi educativi quando riesca a sviluppare anche solo delle piccole teorie riguardo la vita, ma comunque diverse dalle precedenti.
La narrazione deve essere sorretta da quella particolare attività mentale che viene chiamata pensiero narrativo, che impone ad ogni racconto di seguire nello svolgimento una trama al fine di rendersi comprensibile. Se questo non avviene è il trionfo di quello che Demetrio definisce il "bla-bla"[10] di una comunicazione inutile, che minaccia la narrazione, poiché non è in grado di costruire una storia di apprendimento tra le persone.
Si è detto, riassumendo, che per avere valore educativo le narrazioni devono essere dotate di senso e devono promuovere desideri di conoscenza; ma fino a questo punto mi sono riferita alle narrazioni in generale, mentre il mio scopo era quello di sottolineare le potenzialità formative di un genere particolare di narrazione, quello delle storie di vita. E' dunque possibile sostenere che gli stessi criteri in base ai quali una narrazione è educativa valgano anche per i racconti di vita?
Demetrio non ha dubbi a riguardo, "quando mettiamo al centro del nostro interesse le storie di vita, assistiamo al naturale dispiegarsi degli antichi criteri narrativi"[11], riferendosi ai criteri sopra citati secondo i quali la narrazione deve essere comprensibile e promuovere conoscenza.
Le strategie del pensiero narrativo sono infatti evidenti soprattutto nel racconto autobiografico, dove si legge sempre il bisogno di rappresentarsi la propria vita in modo coerente.
Nello specifico: a garantire ai racconti di vita una trama che consenta la comprensione ci pensa l'attività retrospettiva della mente che delinea la trama della vita del narratore, mentre a garantire il "salto cognitivo", di cui ho parlato prima, ci pensa la "didattica autobiografica". Tale didattica si prefigge chiari scopi di carattere cognitivistico rispetto ai quali chiunque si racconti fa lavorare la propria mente e le proprie emozioni. Questo avviene naturalmente quando viene evocato il passato, ritrovando il senso di ciò che ha avuto importanza per il soggetto nel corso della sua vita. Ripercorrendo la propria storia dunque è possibile far rivivere persone ed eventi chiedendo loro, di volta in volta, a che cosa ci sono serviti e che cosa ci hanno insegnato.
Dunque il racconto di sé serve a sviluppare "l'intelligenza autobiografica " definita da Demetrio l'intelligenza di capire per il tramite del meglio capirsi[12].
In altre parole "fare autobiografia" non è solo un rievocare, ma è una vera riattivazione di abilità cognitive, che svolgono una funzione educativa di riflesso quando dal passato si tenti di capire, organizzare e progettare il presente.
Per questo motivo Demetrio definisce "il raccontarsi" una "strada mentale"[13], un metodo personale di apprendimento che si rivolge al bisogno di costruire a propria misura un modo di essere con se stessi.
Ecco dunque che si delinea la principale potenzialità formativa del racconto delle storie di vita: far comprendere meglio se stessi e il proprio presente partendo dall'analisi del passato.
E' importante comprendere il passato, perché tutti i ricordi che lo compongono hanno lasciato in noi delle tracce, alcune talmente forti da segnare il corso della nostra vita presente, "facendole vivere qualche secondo di bellezza o viceversa di silenzio e oscurità"[14].
Queste considerazioni mi riportano ai motivi per cui mi sto occupando di autobiografia, e cioè i detenuti e la loro necessità di fare chiarezza nel proprio passato. Infatti anche quando il pensiero autobiografico si volge verso una storia personale dolorosa, ha comunque la funzione di favorire un ripatteggiamento con quello che si è stati, una sorta di riconciliazione che genera quiete nell'autore. Insegna che se anche la vita sarebbe potuta andare in modo diverso, ormai è andata così e che dal luogo in cui ci ha condotti vale la pena di amarla perché la nostra storia è "il primo e ultimo amore che ci è dato in sorte"[15].
Come si evincerà dal prossimo paragrafo, quando le storie di vita, da racconti orali (che pur hanno, come si è visto, notevoli potenzialità pedagogiche) diventano racconti scritti, generano nell'autore una maggiore capacità di autoriflessione.
"L'oralità non svolge una funzione di rispecchiamento potente come la scrittura: possiamo parlare per ore e non accorgerci di ciò che andiamo dicendo, ma basta una riga scritta per rinviarci il senso ora del nostro limite, ora delle nostre capacità con un'evidenza straordinaria."[16] Questa affermazione di Demetrio è volta a rafforzare l'idea, da lui sostenuta, che le potenzialità del racconto autobiografico siano ulteriormente approfondite quando la narrazione si trasforma in scrittura. Per sottolineare l'importanza della scrittura ai fini autobiografici il professore ritiene che "il pensiero autobiografico esiste da quando la scrittura si è assunta il compito di raccontare in prima persona quanto si è vissuto" . Demetrio infatti riconosce alla scrittura il compito di sviluppare consuetudini introspettive stimolando, ad un livello più profondo rispetto al racconto orale, il ripiegamento su se stessi . Sul testo scritto, infatti, che ha il pregio di non mutare e di essere sempre a disposizione, hanno la possibilità di riflettere sia il narratore che il lettore, potendo il primo rielaborare e il secondo riflettere.
Questo aspetto fa leva su due vantaggi che Pier Cesare Rivoltella riconosce alla scrittura, e cioè quello dell'uso maggiormente flessibile che il testo scritto presenta rispetto a quello orale (un testo scritto è a mia disposizione mentre un oratore va ascoltato quando parla accordandosi al suo ritmo di esposizione), e sul maggior controllo che si può esercitare su quello che si intende dire quando si scrive (non è possibile cancellare una parola una volta detta, mentre chi scrive ha la possibilità di correggere quanto ha scritto prima di consegnarlo al lettore)[19].
Altro compito al quale adempie il racconto scritto è quello di resistere "all'oblio della memoria", poiché un racconto autobiografico orale è sottoposto alla dissolvenza delle parole, che lo rendono mutevole. Come scrive Demetrio "se il racconto verbale è sutura effimera, occasione e circostanza momentanea, il racconto scritto è un insieme di cuciture durevoli.tale da consentire ad altri, di identificarsi, ritrovarsi, ancora una volta, in quel racconto."[20] In questo essere rivolto agli altri, il lavoro autobiografico, assolve anche alla funzione di esorcizzare la morte, infatti la trasposizione scritta della propria vita, è un tentativo di contrastare la propria scomparsa definitiva "perennizzando artificialmente la vita" .
Sono stati, fino a questo punto, decantati tutti i notevoli benefici che il racconto della propria storia genera nell'autore, quindi viene da pensare che convenga a chiunque cimentarsi nella propria autobiografia; il problema è: "siamo tutti in grado di farlo?", o in altre parole: "siamo tutti autobiografi?".
Dalla riflessione fin qui svolta sull'autobiografia sembrerebbe effettivamente che tutti abbiano la possibilità di sperimentare il lavoro autobiografico, poiché la dotazione necessaria sembra essere solo l'avere una vita alle spalle.
In un certo senso questo è vero, ma va tenuto presente un aspetto importante, e cioè che l'autobiografia, per essere pedagogicamente utile, deve rappresentare il momento dei bilanci, della resa dei conti, del venire a patti con se stessi, quindi un vincolo all'essere autobiografi esiste, ed è espresso dall'affermazione di Demetrio che riporta: "l'autobiografia è faccenda adulta"[22].
Secondo lui il momento in cui sentiamo il bisogno di raccontarci è segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità, che segna l'ingresso, appunto, nell'età adulta. Tale età è definita ben al di là di questioni anagrafiche o delle comuni caratteristiche che ad essa si associano (autonomia, responsabilità, potestà, generatività). Per Demetrio si è adulti quando si è in grado mentalmente di organizzare il proprio passato[23].
Organizzare il proprio passato non significa ricordare cronologicamente gli avvenimenti della propria vita, questo può farlo anche un bambino poiché possiede le nozioni di prima-dopo e causa-effetto. Significa, invece, ricomporre i propri ricordi distinguendoli secondo la priorità e la proporzione che gli avvenimenti che essi evocano hanno avuto nella nostra vita.
Non esiste un'età precisa nella quale si sviluppa questa abilità, può avvenire a vent'anni, ad ottanta, oppure mai. E' l'avvenimento che conta, poiché sancisce la transizione ad un altro modo di essere e pensare, caratterizzato dal desiderio di vivere l'istante e volgersi al passato. Questo periodo è una sorta di "sosta" che mette a riposo il desiderio giovanile di vivere incessantemente il presente proiettandosi verso il futuro. Tale "Sosta" è definita da Demetrio tregua autobiografica[24] ed è caratterizzata da una senso di pienezza che consente di vivere in uno stato di quiete nella quale, pur affrontando il dolore del ricordo, si viene a patti con se stessi (maturità psicologica).
Dunque alla domanda con la quale si è aperto il presente paragrafo e cioè: "siamo tutti autobiografi?", risponderei dicendo che: "potenzialmente lo siamo tutti, ma che non è scontato che in ognuno di noi questa potenza diventi atto".
Si è detto che scrivere la propria storia crei nell'autore "benefici pedagogici", ma, breve o lunga che sia la storia che abbiamo alle spalle è comunque complessa perché fitta di avvenimenti; quindi, come si fa a reperire il materiale biografico da scrivere, scegliendo gli aspetti importanti in questa complessità?
Per rispondere a questa domanda partirò dall'analisi di una affermazione dello studioso tedesco Manfred Schneider: ".l'autobiografia permette l'accesso ad ogni persona in grado di leggere e scrivere. Tutti abbiamo una biografia, e anche una matita."[25]
Tale affermazione è in parte vera, ma non del tutto.
E' vero che tutti possediamo una matita e anche una autobiografia, ma mentre per appropriarsi della prima basta raggiungere il cassetto della scrivania, per "appropriarsi" della seconda il percorso è un po' più complesso. Con questo voglio dire che non è di immediata soluzione il problema del reperimento del "materiale biografico" da scrivere, perché è spesso sepolto nei nostri ricordi, va quindi ritrovato, spolverato ed organizzato. In questo processo ci viene in aiuto una facoltà intellettuale importantissima, la memoria, che è la depositaria del nostro passato e quindi della nostra identità personale.
Per fare autobiografia è dunque necessario reperire il proprio materiale biografico e riuscire a dargli un'organizzazione coerente. Siamo tutti in grado di dire quando o dove siamo nati, come si chiamavano i nostri nonni, ecc, ma non è così immediato recuperare tutti gli avvenimenti della vita che ci hanno reso quelli che siamo oggi, questo è un compito difficile e faticoso.
Il racconto di una vita ci richiede molto impegno e molto coraggio. Se l'impegno è una dote che si impara a proprie spese nell'esercizio quotidiano del vivere, il coraggio di parlare e scrivere di sé nasce nel momento in cui siamo disposti a usare la pazienza per rovistare nella nostra vita.
Ad aiutarci in questo difficile compito di frammentazione e poi ricostruzione è la nostra memoria. La memoria è una sorta di registro nel quale giace la nostra identità personale; e l'identità personale, come afferma Demetrio, "non è forse quell'insieme di oggetti, e quell'insieme di io, che si sono susseguiti nelle trasformazioni che ci hanno condotto all'oggi?".[26]
Per ricordare bisogna dunque far parlare le persone che ricompaiono con i ricordi, chiedendogli chi sono stati per noi e cosa ci hanno insegnato; bisogna far parlare, come sostiene Demetrio, "le cose che ci hanno educato anche solo momentaneamente, attraverso le quali abbiamo imparato a pattinare, scrivere, osservare, parlare di sentimenti. Tali cose attraverso la memoria possono continuare la loro opera pedagogica, dimostrandoci che abbiamo vissuto esperienze non inutili, esperienze che sono tasselli cruciali della nostra storia"[27].
Per capire quanto sia importante la memoria al fine di tenere unita e rendere coerente la vita di un individuo, basta pensare al fatto che chi la perde va rieducato completamente poiché con essa perde anche la sua identità. Quindi, essendo il lavoro autobiografico, un metodo pedagogico, ed essendo la memoria la funzione che rende possibile tale lavoro, si può concludere che la memoria svolge di riflesso un compito pedagogico.
Come si può "aiutare" la memoria ad assolvere al suo compito di rievocazione dei ricordi? Etimologicamente rievocare i ricordi significa "nominarli", "chiamarli", "dargli voce"[28]. Questa operazione secondo il professor Demetrio può essere sollecitata da alcune parole che inducono a soffermarsi per riflettere, spingono a ritrovare dentro se stessi incontri e stati d'animo, rimandano ad esperienze sensoriali diverse: oggetti, emozioni, volti, luoghi, colori, odori, suoni, sapori, scene.
La nostra capacità di memorizzazione ci confermerà che nulla giunge a noi senza lasciare una traccia di sé, e la nostra capacità di rievocazione ci confermerà che nulla dentro di noi sparisce, basta trovare il modo per recuperarne, appunto, le tracce.
Questo "modo" di rievocare è peculiare per ognuno di noi, poiché essendo uno spazio tutto del narratore, può essere affrontato in modi sempre diversi a seconda degli stili mentali di chi racconta.
Esistono, però, alcuni esercizi preliminari per chi intende accingersi ad un lavoro autobiografico, che mirano ad aiutare nel recupero del proprio materiale biografico, attraverso delle sollecitazioni che dovrebbero riesumare i ricordi sepolti nel passato.
Per chiarire il funzionamento di questi "esercizi di pre-scrittura", ne proporrò due esempi, uno ad opera dello studioso e romanziere ceco Milan Kundera, e l'altro ad opera di Demetrio stesso.
Secondo lo scrittore ceco Milan Kundera, se si vuole evitare di perdersi nel caos senza tempo dei ricordi, bisogna mettersi alla ricerca della "sintassi"[30] della nostra vita passata, e si può farlo andando a scovare nella memoria la risposta alla domanda: "Grazie a che cosa la mia storia di vita si è retta in piedi?" . Dopo essersi posti tale domanda bisogna lasciare che i ricordi escano da noi in un gioco di libere associazioni, limitandoci a segnarli su pezzi di carta di fortuna per poi classificarli con più calma.
Tale classificazione consiste nel registrare per iscritto su una successione di pagine, definite da Kundera "pagine dei ricordi", gli arredi e le diverse scene della nostra vita.
Di seguito riporto una possibile sequenza di pagine che Kundera consiglia di riempire, per facilitare il reperimento del materiale biografico.
La pagina dei personaggi-chiave della mia vita;
La pagina degli oggetti (soprammobili, abiti ecc.);
La pagina degli "interni" fondamentali (i luoghi dell'intimità al chiuso: stanze, cortili, vicoli, cunicoli ecc.);
La pagina "dei paesaggi" (i luoghi "aperti": campagne, spiagge ecc.);
La pagina delle sensazioni più antiche (gli odori, i suoni, i colori);
La pagina delle "scene" (i quadri viventi, i gruppi di famiglia ecc.);
La pagina dei compagni di gioco o di scuola;
La pagina degli amori (persone, animali, gioco ecc.).
La lista delle pagine può, poi, continuare a piacere del narratore, aggiungendo ad esempio la pagina dei viaggi, delle responsabilità assunte, dei sogni ecc.
Riempire queste pagine è per lo scrittore ceco il primo atto logico per trovare la "sintassi" della nostra vita, cioè l'insieme di connessioni che consente il racconto delle cose. A queste pagine fatte di "cose", vanno poi aggiunti i "nessi", che sono gli incastri, ciò che permette alle cose di rimettersi in moto e di trovare la loro giusta e plausibile combinazione. Il che significa che dobbiamo dotarci di altri contenitori (altre pagine), necessari per raccogliere tutto quanto ha animato le cose, gli oggetti, i personaggi, le scene, le sensazioni, gli amori nella nostra vita. La domanda che ci muoverà nella ricerca dei nessi sarà: "che cosa ricarica ogni volta il carillon dell'esistenza?"[32]. L'obiettivo di questa fase è "darsi" la possibilità di legare in modo coerente gli avvenimenti della propria vita.
Conclusa anche questa operazione, dopo aver elencato ciò che ha animato e ricaricato la propria vita, bisognerà passare a qualche suddivisione di carattere cronologico. Si tratta di incrociare il contenuto delle pagine delle cose, con le età che fino a quel momento sono state attraversate. Si vedrà che i nessi rivitalizzeranno le diverse caselle della tabella che andrà a formarsi.
Riporto di seguito (Tab. 1) l'esempio della struttura che potrebbe assumere una eventuale tabella:
Età "Cose" |
Prima infanzia |
Oltre |
Quasi adolescenza |
Oggetti |
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Interni |
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Paesaggi |
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Scene |
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Sensazioni |
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Compagni |
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Tabella 1: Esempio della struttura di una tabella proposta da Kundera
Kundera afferma: "Tutto quanto avete distribuito in pagine e pagine può essere sparso sul vostro tavolo come il gioco delle bacchette cinesi e ripescato con accortezza, e polso fermo, secondo una "polifonia" creativa."[33]
Con questa frase lo scrittore ceco penso voglia sottolineare il fatto che l'esercizio da lui proposto sia solo un utile punto di partenza, ma che poi, ognuno, nell'organizzare il proprio passato possa e debba muoversi secondo i propri schemi mentali.
Questo esercizio consiste nel disegnare su un ampio foglio di carta tutta la propria vita sotto forma di simboli, figure, immagini, e poi di guardarle come dall'alto di un elicottero. L'esercizio scrive dunque per simboli, costruendo le reti di significato dell' esistenza attraverso il necessario impiego della metafora che trasforma: i nostri giorni di quiete (in un tranquillo rivo tra i campi), le nostre scelte (in un guado), le crisi (in un pozzo scuro)[35]. Infine le parole fungeranno da nessi, descrivendo, evocando, creando emozioni, mondi e scene. E' riconosciuta al narratore ampia libertà stilistica, ma Demetrio ammonisce che qualunque sia la scelta di stile, per fare autobiografia non si deve contravvenire ad alcuni requisiti, cioè: il testo scritto deve presentarsi come un racconto, la visione deve essere introspettiva e retrospettiva, il soggetto del racconto deve essere una vita individuale nella sua evoluzione, nelle sue connessioni con eventi sociali, storici e pubblici. La narrazione deve essere prevalentemente in prima persona. Il racconto si giustifica per l'assetto evolutivo della storia personale: dovrà esserci un prima e un dopo, un antefatto e un finale inframmezzati da vicissitudini; la visione dovrà esprimersi attraverso note psicologiche, evocazioni, ricordi. Il soggetto all'inizio, durante o alla fine si incontrerà con queste domande: "chi sono?", "chi sono stato?","da dove vengo?". Il personaggio chiave deve essere il narratore, quindi le esperienze narrate devono essergli appartenute. Il tutto può avvenire in un'abbondanza di procedure narrative .
Indipendentemente dalla modalità che il narratore deciderà di adottare nella sua narrazione, passerà inevitabilmente attraverso l'operazione di frammentazione e ricostruzione dei ricordi.
Operazione in merito alla quale Demetrio afferma: "Si torna bambini, scrivendo di sé, non soltanto perché ci invadono quei ricordi: lo si torna perché se abbiamo avuto genitori che, più preoccupati del caos domestico certamente, badavano affinché noi rimettessimo a posto i giocattoli, in scatole e scansie, in quei momenti di insofferenza, siamo stati educati da loro ad organizzare mentalmente la nostra puerile vita. Mentre ci ingiungevano, tra ricatti e promesse, di riordinare, ci stavano, senza saperlo, insegnando quel che oggi, adulti fatti, stiamo scoprendo: a far ordine nella nostra vita con i pezzi di Lego, gli scarti e i tesori che in essa abbiamo trovato. Guardarsi alle spalle è percepire il caos e i rumori del passato, far autobiografia è ridurre quelle complessità scomposte."[37]
Fin qui si è detto che il racconto di sé ha la funzione di favorire una costruzione unitaria della propria complessa storia di vita, aiutando l'autore a riordinarla e ad interpretarla per comprendere il senso della propria esistenza e quindi della propria identità ("costruzione dell'io"[39]).
La credibilità di tale funzione è testimoniata dal fatto che la "costruzione dell'io" è favorita da tutte le forme di scrittura autobiografica, nonostante tra loro possano presentare delle differenze di approccio e di stile.
Per dimostrarlo descriverò brevemente le caratteristiche di due stili autobiografici differenti, il diario e l'autobiografia vera e propria. Si noterà così, che nonostante le loro differenze nel linguaggio, nel legame affettivo con l'autore e nell'approccio comunicativo (diretta all'esterno l'autobiografia, autodiretto il diario), sono comunque accomunati, come sostiene Demetrio, dalla "costruzione dell'io".
Il diario è per eccellenza il luogo dell'interiorità e del ripiegamento su se stessi, per questo il legame che si instaura con il suo autore è particolarmente profondo. Essendo la registrazione dei pensieri più intimi è maggiormente orientato, rispetto all'autobiografia, all'espressione emotiva del sé, è infatti una sorta di sfogo che tenta di ristabilire l'equilibrio emotivo. Il diario è dunque autodiretto, cioè la sua funzione parte e termina nell'autore, in altre parole, non ha pretese divulgative. Questo aspetto si rispecchia nel linguaggio che in alcune pagine risulta oscuro, con riferimenti difficilmente interpretabili da parte di un eventuale lettore. Viene infatti usato un linguaggio spontaneo che possa veicolare i vissuti più intimi permettendo una libera espressione di sé.
Nonostante questo tipo di linguaggio, il diario è strenuamente difeso da occhi indiscreti, Demetrio dice che è caratterizzato da segretezza. Viene infatti spesso nascosto per evitare che qualcuno lo possa trovare e tentare di leggerlo violando così l'intimità di chi lo ha scritto.
Il diario presenta tutte le caratteristiche che Winnicott riconosce all'oggetto transizionale[41], è infatti vissuto come interno e contemporaneamente esterno, come capace di mediare tra il mondo degli affetti personali e il mondo esterno condiviso con la comunità di appartenenza.
Il diario, dunque, partecipa alla costruzione dell'io, rappresentando per l'autore un amico, un compagno, al quale poter segretamente raccontare tutto, facendogli così tenere sotto controllo il filo conduttore della propria esistenza.
L'autobiografia nasce più consapevolmente come progetto di narrare la propria storia. E' dunque caratterizzata dalla volontà di comunicare con un eventuale lettore, di conseguenza presenta un maggior rigore stilistico e linguistico rispetto al diario.
Posta questa considerazione, che distingue l'autobiografia dal diario, non credo sia necessario dover sottolineare le motivazioni per cui si può sostenere che anche l'autobiografia concorra alla costruzione del sé, poiché credo che tali motivazioni siano già largamente emerse nei paragrafi precedenti, quando si sottolineavano le potenzialità pedagogiche del racconto autobiografico.
Si è dunque dimostrato che l'autobiografia, in qualunque forma stilistica si presenti, favorisce sempre la "costruzione dell'io".
Proprio per l'aspetto comunicativo, emerso nel precedente paragrafo, che caratterizza l'autobiografia, l'autore può provare una sorta di pudore nel raccontarsi, perché sa che ciò che scriverà sarà oggetto di lettura da parte di qualcuno. E' per questo motivo che spesso l'autobiografia è caratterizzata dalla tendenza a raccontarsi ricorrendo alle suggestioni del mito, alla potenza esplicativa del simbolo, e alla maschera dell'eteronomo[44].
Quando si adotta questo stile narrativo, nel racconto ad agire non è direttamente l'autore, ma una sorta di suo alter ego (spesso un personaggio preso a prestito dal mondo delle fiabe), che si muove in un mondo fantastico creato dall'immaginazione, ma che, comunque, rispecchia le caratteristiche di quello realmente sperimentato dal narratore.
Questo è ciò che avviene quando l'autobiografia "si tinge" di fiaba, ed è quanto è accaduto a S. Vittore ad un gruppo di detenuti che hanno deciso di raccontarsi utilizzando l'eteronomo del lupo, "dando vita" al già citato audiolibro intitolato, non a caso, "Il lupo racconta".
Utilizzando la "strategia" dell'eteronomo, dunque, la narrazione permette di dare sfogo a quei sentimenti spesso inesprimibili, perché connotati negativamente, come l'odio o l'invidia, ritenuti socialmente riprovevoli. Polster, psichiatra americano, insiste sulla necessità di esprimere questi sentimenti non solo per allentare la tensione che provocano, ma anche per riconoscere le proprie pulsioni e quindi per raggiungere una più profonda consapevolezza e accettazione di sé.
Dunque il conforto recato dalla narrazione autobiografico-fiabesca può considerarsi un valore da aggiungere alle già notevoli potenzialità pedagogiche dell'autobiografia.
Gli eteronomi, che caratterizzano l'autobiografia-fiaba, infatti, contribuiscono a creare quel processo definito da Demetrio di "bilocazione"[45]. Tale processo risponde al bisogno di prendere le distanze da sé (da quello che si è e da quello che si è stati), di osservarsi dall'esterno, aiutando il narratore a comunicare i propri vissuti, anche i più dolorosi.
Tale strategia consente, infatti, al narratore di proiettare il proprio malessere su figure vissute come doppi giocando sul filo del come se ciò che viene raccontato appartenesse più all'eteronomo che a se stesso. Per questo motivo queste figure fantastiche rivelano gli aspetti più autentici del narratore, aiutandolo a raccontarsi anche quando prevale la disagevole sensazione di non riuscire a rendere conto di sé e della propria complessità.
Secondo Demetrio tale bilocazione si svolge su tre livelli[46]:
Nell'autobiografia "fiabesca", dunque, il narratore è contemporaneamente soggetto e oggetto del racconto, in modo tale da avere la possibilità di guardarsi dall'esterno con rinnovata curiosità come avviene nei confronti di un estraneo. Tale condizione, definita da Demetrio di "distanziamento creativo" , è ben rappresentata dall'analogia tra riflessione autobiografica e ritratto: "come l'artista-modello deve alternativamente posare e dipingere, così l'autobiografo diventa biografo di quel personaggio che osserva vivere ed è contemporaneamente sé e non sé" .
Il processo di bilocazione che si viene a creare nel momento in cui si racconta la propria storia di vita utilizzando un eteronomo, può sembrare completamente inutile per coloro che compongono la propria autobiografia al fine di rimettere insieme i pezzi di una vita "meravigliosa".
Mi riferisco in particolare alle autobiografie di grandi e stimati personaggi, che magari si raccontano allo scopo di essere ammirati, apprezzati e invidiati.
Che bisogno hanno queste persone di camuffarsi sotto le spoglie di qualcun altro per raccontare la loro storia?
Per i detenuti la questione è molto diversa, la loro vita non è costellata di onorificenze, premi Nobel e quant'altro, la loro vita è piena di fallimenti e di insuccessi che li hanno condotti a quell'unica certezza che hanno, la reclusione. E' evidente quanto sia importante per loro lo stile fiabesco dell'autobiografia (bilocazione), grazie al quale hanno la possibilità di raccontarsi indossando una maschera. Qualcuno potrebbe obiettare che forse una vita piena di fallimenti non merita di essere raccontata, e che forse sarebbe meglio che i detenuti anziché camuffarsi si nascondessero del tutto. A questa affermazione risponderò attraverso le parole di Polster, che afferma: "Il bisogno di raccontarsi spesso nasce dalla sofferenza, che richiede di essere rielaborata attraverso la parola"[49]. Le emozioni forti come il dolore, la rabbia, la paura, necessitano di essere scaricate all'esterno per riportare il soggetto all'equilibrio, evitandogli scompensi e facendogli raggiungere il giusto distacco emotivo rispetto alle cose. Ma, a queste necessità non risponde forse proprio l'autobiografia? La risposta a tale domanda è sicuramente affermativa, e la dimostrazione è scritta nei paragrafi precedenti dove delineando le sue potenzialità pedagogiche è emerso proprio che il racconto di sé si assume il compito di "allineare in un desiderio d'ordine, le membra sparse della propria esistenza trascorsa e frantumata." Quindi concluderei dicendo che forse proprio i detenuti, così come tutti coloro che vivono situazioni di disagio sociale, hanno il diritto e il dovere di raccontarsi.
E' forse partendo da queste considerazioni che i detenuti di S. Vittore si sono raccontati nell'audiolibro "Il lupo racconta", oggetto del prossimo capitolo, nel quale hanno avuto la possibilità di essere autori e protagonisti del proprio teatro esistenziale, "sentimento che spesso si smarrisce quando la vita obbliga ad essere solo comparse e spettatori incantati di quanto si è fatto."[51]
Questo capitolo si riproponeva di indagare sulle potenzialità pedagogiche dell'autobiografia, per verificare se i progetti de "Il lupo racconta" e "Kriminal mouse", che si compongono di storie di vita dei detenuti, potessero considerarsi parti integranti del loro percorso di rieducazione.
In conclusione credo di poter affermare che ripercorrere il proprio passato per doverlo raccontare, abbia aiutato i detenuti che hanno partecipato ai due progetti, a mettere ordine negli avvenimenti della propria vita.
Infatti loro, grazie all'eteronomo, hanno potuto guardarsi dall'esterno e hanno potuto chiedere al loro "alter ego" il perché di alcuni comportamenti e di alcune scelte facendo pace con se stessi. Infatti alcuni di loro mi hanno detto che non avrebbero mai pensato di poter imparare così tanto dal proprio passato, che erano convinti di conoscere a perfezione e che invece si è rivelato il depositario di tanti significati nascosti, che sono emersi nelle sedute di psicoterapia con il dottor Aparo che, come si vedrà nel prossimo capitolo, hanno preceduto l'inizio del lavoro autobiografico. Questo ha sicuramente influito positivamente sulla loro "disponibilità al recupero" (dimensione emotiva e morale), infatti chiunque sappia riconoscere il perché dei propri comportamenti è più disposto ad iniziare un percorso di miglioramento, piuttosto che mostrarsi ostile perché impegnato in un'inutile difesa delle proprie errate posizioni.
E' interessante inoltre la scelta degli eteronomi utilizzati, nel caso dell'audiolibro il lupo, e nel caso del libro-gioco il topo; cosa hanno in comune questi due animali?
Sicuramente sono entrambi animali dai quali la gente scappa, da uno per paura, dall'altro per ribrezzo, e rispecchiano per questo motivo la situazione che in un certo senso vivono i detenuti. Dunque i due progetti hanno concesso ai detenuti di raccontarsi con onestà e coerenza grazie anche alla giusta scelta della maschera da indossare, che ha dato loro l'opportunità di gettare sui due animali tutte le loro connotazioni negative, operazione che sarebbe risultata ridicola se al posto del lupo e del topo avessero scelto, sempre per stare nell'ambito degli animali, un pulcino.
La giusta scelta dell'eteronomo, secondo me facilita anche il lettore, poiché questo capisce fin dall'inizio quali aspetti di sé un detenuto abbia intenzione di raccontare (ognuno sa cosa può aspettarsi da un lupo o da un topo), questo predispone all'ascolto, perché si percepisce la volontà dell'autore di narrarsi in modo onesto. Questa predisposizione all'ascolto del lettore è il primo passo in avanti verso una sana (cioè priva di fraintendimenti) apertura del dialogo fra "dentro" e "fuori".
Dunque, per concludere, se nel processo di rieducazione sono compresi anche l'aspetto morale e relazionale del detenuto, credo di poter concludere rispondendo affermativamente all'interrogativo intorno al quale si è sviluppato il presente capitolo.
Oliver Sacks, in D. Demetrio, Raccontarsi l'autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 59.
Duccio Demetrio è professore di Educazione degli adulti presso l'istituto di Pedagogia dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Nel 1998 ha fondato La Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari (associazione culturale senza fini di lucro).
Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari, Un metodo autoformativo In internet, URL: https://www.lua.it/chi/perche.html.
Per la trattazione di questo paragrafo si veda D. Demetrio, Raccontarsi L'autobiografia come cura di sé, op. cit., pp. 43-45.
AA.VV., a cura di D. Demetrio, L'educatore auto(bio)grafo Il metodo delle storie di vita nelle relazioni di aiuto, Unicopli, Milano 1999, p. 17.
AA.VV., a cura di D. Demetrio, L'educatore auto(bio)grafo Il metodo delle storie di vita nelle relazioni di aiuto, op. cit., p.4
AA.VV., a cura di D. Demetrio, L'educatore auto(bio)grafo Il metodo delle storie di vita nelle relazioni di aiuto, op. cit., p.45.
AA.VV., a cura di D. Demetrio, L'educatore auto(bio)grafo Il metodo delle storie di vita nelle relazioni di aiuto, op. cit., p.109.
Per la trattazione di questo paragrafo si veda D. Demetrio, Raccontarsi L'autobiografia come cura di sé, op. cit., pp. 147-152.
"Come la sintassi è, e lo sappiamo fin dagli anni della scuola, la struttura che coordina fra loro le frasi, tutta la nostra esistenza è un lungo viaggio alla ricerca di quella costruzione sintattica dalla quale dipende la possibilità di comprenderci e di essere capiti dagli altri." D. Demetrio, Raccontarsi L'autobiografia come cura di sé, op. cit., p. 114.
Per la trattazione di questo paragrafo si veda D. Demetrio, Raccontarsi L'autobiografia come cura di sé, op. cit., pp. 155-157.
Per la trattazione di questo paragrafo si veda AA.VV., a cura di D. Demetrio, L'educatore auto(bio)grafo Il metodo delle storie di vita nelle relazioni di aiuto, op. cit., pp. 47-52.
Sono definiti da Winnicott transizionali quegli oggetti con caratteristiche ludiche e creative che si prestano alla funzione mediatrice tra mondo interno e mondo esterno al bambino, utili a superare l'angoscia della separazione dalla madre. In AA.VV., a cura di D. Demetrio, L'educatore auto(bio)grafo Il metodo delle storie di vita nelle relazioni di aiuto, op. cit., p. 44.
Per la trattazione di questo paragrafo si veda AA.VV., a cura di D. Demetrio, L'educatore auto(bio)grafo Il metodo delle storie di vita nelle relazioni di aiuto, op. cit., pp. 47-52.
Per la trattazione di questo paragrafo si veda AA.VV., a cura di D. Demetrio, L'educatore auto(bio)grafo Il metodo delle storie di vita nelle relazioni di aiuto, op. cit., pp. 39-41.
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