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La vita di Niccolò Machiavelli (Firenze 1469-1527)




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La vita di Niccolò Machiavelli (Firenze 1469-1527)



Figlio di Bernardo di Buoninsegna, dottore in legge, e di Bartolomea de' Nelli, soffrì in gioventù delle ristrettezze economiche della famiglia, che pure apparteneva all'antica e illustre nobiltà dei Machiavelli, feudatari guelfi di Montespertoli. Si sa poco dei suoi primi studi: unica fonte è il libro di ricordi del padre, dal quale risulta che Machiavelli studiava sui libri di casa, fra i quali c'erano le Deche di Tito Livio e le storie di Giustino e di Flavio Biondo. Frequentò poi lo Studio fiorentino ed ebbe per maestro l'umanista Marcello Virgilio Adriani, che in seguito lo raccomandò al governo della Repubblica. Così, senza possedere particolari meriti, nel 1498 Machiavelli fu posto a capo della seconda cancelleria, scavalcando concorrenti ben più autorevoli. L'ingresso di Machiavelli nella scena politica coincise con un periodo particolarmente inquieto della vita della Repubblica: pochi giorni prima si era concluso il processo contro Savonarola con la condanna a morte del domenicano e la nuova maggioranza tentava di consolidare il potere cercando un nuovo equilibrio. I Medici erano stati allontanati quattro anni prima, in seguito alla discesa di Carlo VIII. A soli ventinove anni, Machiavelli si ritrovò a capo di un ufficio corrispondente a quello di un moderno sottosegretario al Ministero degli Esteri e della Guerra, anche se in realtà le maggiori decisioni venivano prese dai Dieci di libertà e di balìa. Non ancora trentenne, il 14 luglio di quello stesso anno ricevette anche l'incarico della segreteria dei Dieci e, dopo alcune missioni minori, fu inviato come ambasciatore alla corte francese, presso la quale restò per circa sei mesi. Fu quella la sua vera scuola: l'opera degli ambasciatori di allora richiedeva destrezza negli incarichi pratici, doti di osservatore, mediatore e relatore scaltro e preveggente. Legazioni e commissarie portarono Machiavelli dal 1499 al 1512, per incarico dei Dieci, alle corti di diversi signori, come Caterina Sforza Riario, signora di Imola e di Forlì, Pandolfo Petrucci e Giampaolo Baglioni. Nel 1500 dovette riferire sull'andamento della guerra contro Pisa e fu testimone della rivolta dei mercenari svizzeri e guasconi posti dal re di Francia al servizio di Firenze. Subito dopo ebbe l'incarico di calmare il re irritato per i provvedimenti presi da Firenze contro i rivoltosi. Nel 1502 fu inviato a Urbino presso Cesare Borgia che, impadronitosi di varie città della Romagna, minacciava la Toscana. Tornato a Firenze, sposò Marietta Corsini, dalla quale ebbe cinque figli. Intanto la Repubblica aveva creato gonfaloniere a vita Pier Soderini che, confidando in Machiavelli, lo mandò ambasciatore in nuove e più frequenti missioni: lo stesso anno (1502) per la seconda volta presso Cesare Borgia, l'anno dopo a Roma, nel 1504 in Francia per chiedere aiuti militari contro gli Spagnoli e i Veneziani; nel 1505 a Perugia, a Mantova e a Siena, e l'anno dopo incontro a Giulio II che voleva conquistare Perugia e Bologna. In quegli anni Machiavelli aveva steso alcuni scritti, dettatigli dalle varie esperienze, e specialmente in alcuni di essi già traspirava il nucleo della sua dottrina politica. Decise anche di realizzare un'idea che aveva cominciato a maturare dal tempo della sua prima missione a Pisa: convinto dell'infedeltà delle truppe mercenarie, persuase Pier Soderini a organizzare un esercito nazionale. Vinte le resistenze degli oppositori politici del gonfaloniere, fu approvata la legge istitutiva della milizia e Machiavelli fu nominato segretario del nuovo ufficio, per il quale era più che preparato. Si mise quindi ad arruolare truppe in campagna e in città per formare un esercito di almeno 5000 fanti. Alla fine del 1507, in vista di una minacciosa discesa imperiale, Pier Soderini volle affiancare Machiavelli all'ambasciatore in Germania, Francesco Vettori. Durante il viaggio Machiavelli fu per tre giorni in Svizzera ed ebbe modo in seguito di dare un giudizio acuto, se pur sommario, su quel paese, come fece più estesamente per la Germania. Al ritorno dalla missione arruolò altri soldati per espugnare finalmente Pisa. Formatasi frattanto la Lega di Cambrai, andò a Mantova e a Verona per versare all'imperatore Massimiliano I la somma imposta ai Fiorentini. Nel 1510 fu inviato per la terza volta in Francia per persuadere Luigi XII della neutralità di Firenze nella guerra tra la Francia e il Papa; nel 1511 dovette darsi da fare per placare l'ira di Giulio II, dopo che Firenze aveva ospitato il concilio scismatico pisano. Intanto la situazione della Repubblica fiorentina, coinvolta nella guerra tra la Francia e il papa, si era fatta disperata: le truppe spagnole erano entrate in Toscana e le accompagnava come legato pontificio il cardinale Giulio Medici. Così, tra il 1511 e il 1512, Machiavelli si dovette occupare della difesa di Firenze, adoperandosi perché venisse approvata la "Provvigione per le milizie a cavallo".

Ma il 29 agosto la milizia fiorentina fu sconfitta a Prato, gli Spagnoli entrarono in città e il 16 settembre i partigiani dei Medici occuparono il palazzo della Signoria. Il ritorno dei Medici dopo diciotto anni di esilio significò per Machiavelli, inviso per i suoi ideali repubblicani e l'amicizia con Soderini, 'esonero dall'incarico, il confino per un anno entro il territorio del dominio e, nel 1513, il carcere e la tortura perché sospettato di aver preso parte alla congiura antimedicea di Boscoli e di Capponi. Nell'aprile del 1513, si ritirò con la moglie e quattro figli nella casa dell'Albergaccio a S. Andrea a Percussina, vicino a S. Casciano. Nella solitudine della campagna, nacquero le sue opere maggiori. Un documento di particolare valore è la corrispondenza con Francesco Vettori, suo antico compagno di legazione, ambasciatore a Roma: lettere che, scritte in una prosa che conserva la vivezza e l'autenticità di un colloquio diretto, sono di grande importanza per capire la complessa e a volte sconcertante personalità di Machiavelli. Nel 1520, Machiavelli ottenne dallo Studio fiorentino l'incarico di scrivere gli annali e le cronache della città. Iniziò così la stesura di quelle Istorie fiorentine alle quali si dedicò dal 1520 al 1526, con l'interruzione di qualche breve incarico. Gli ultimi eventi politici tennero Firenze in continuo turbamento a causa della guerra tra Francesco I e Carlo V. Machiavelli, che aveva tentato inutilmente di formare un esercito nazionale guidato da Giovanni dalle Bande Nere per ostacolare la marcia vittoriosa di Carlo V, si occupò della difesa della città e assunse l'ufficio di cancelliere dei Cinque Procuratori delle Mura. Ma quando nel 1527 giunse a Firenze la notizia del Sacco di Roma, la città si ribellò ai Medici e proclamò di nuovo la Repubblica. Fu eletto gonfaloniere Niccolò Capponi e Machiavelli sperò di essere eletto dal ricostituito ufficio dei Dieci della Guerra, ma ricevette una tremenda delusione: a causa dei suoi rapporti coi Medici, gli fu preferito un altro. Amareggiato e indebolito dai disagi di quegli ultimi mesi, morì dopo una breve malattia, lasciando i suoi nella povertà. Soltanto nel 1787 i suoi resti furono traslati in S. Croce.










































Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio


I discorsi si dividono in tre libri di complessivi 142 capitoli: 60 il primo libro, 33 il secondo e 49 il terzo; i primi due libri sono introdotti da un proemio che ne illustra il tema. L'opera è dedicata a Zanobi Buondelmonte e Cosimo Rucellai.

Tre sono i grandi argomenti affrontati dal Machiavelli nell'opera, corrispondenti a ciascun libro: la nascita e l'ordinamento dello stato, le sue espansioni territoriali, la conservazione del potere. Postillando puntualmente la Storia di Roma di Tito Livio, in particolare, come si desume dal titolo stesso, i primi dieci libri, ma attingendo anche da altri superstiti, il Machiavelli espone le proprie convinzioni storiche e politiche, ispirate dall'ammirazione e fondate sull'imitazione degli antichi, al cui vertice assoluto si situa l'esperienza di Roma repubblicana. Lo scrittore esamina i passi più significativi della storia liviana e li rende funzionali allo svolgimento del proprio pensiero, confrontandoli frequentemente con fatti della storia contemporanea.

Roma repubblicana è l'esempio concreto e ideale cui deve tendere l'ordinamento civile di ogni stato, sia esso principato, governo di ottimati o governo popolare, forma per la quale il segretario fiorentino nutre la maggiore simpatia. Ogni stato deve riservare la giusta parte di potere ad ognuna delle componenti di cui è costituito: è quindi preferibile la legislazione spartana di Licurgo, che divide equamente il potere tra re, ottimati e popolo, a quella ateniese di Solone, che privilegiando il popolo aprì la strada alla tirannide di Pisistrato; a Roma, i contrasti tra patrizi e plebei, pervenuti alla spartizione del potere, sancita dall'elezione dei tribuni della plebe, hanno conferito solidità alla repubblica, rendendola più libera e potente. Lo stato, e quindi la legge che ne garantisce la vita e la giustizia, è il bene principale degli uomini; per il bene dello stato Manlio Torquato uccise il figlio che aveva trasgredito la disciplina militare; per la difesa e la salvezza della patria è consentito persino l'uso della frode. Nerbo della costituzione statale è la religione, che insegna il rispetto della virtù e della disciplina; e come pura considerazione strumentale e di efficacia per il mantenimento dello stato, la religione romana è da ritenersi più utile della cristiana; in particolare, per l'Italia, egli giudica rovinosa la politica storica della Chiesa romana.

Non mancano, soprattutto nel secondo libro, le considerazioni militari care allo scrittore: sono preferibili le milizie nazionali a quelle mercenarie, perché è l'amore della patria e non il denaro che fa i buoni soldati; la fanteria è migliore della cavalleria, sull'esempio delle antiche legioni romane e contrariamente ai moderni ordini di guerra; non bisogna fare troppo affidamento né sulle artiglierie né sulla tenuta difensiva delle fortezze; la solidità di un esercito come quella di uno stato, la stima di un comandante come quella di un principe si misurano dalla virtù e dalla moralità che è in essi.

Tra i capitoli più belli e interessanti è da ricordare quello sulle congiure; con precisione quasi scientifica lo scrittore analizza i più disparati casi e gli accidenti che possono succedere prima, in su'l fatto, e poi spaziando dalle congiure antiche a quelle moderne, da quelle contro il tiranno a quelle contro la patria e condotte sia con il ferro che con il veleno: l'insuccesso delle congiure pisoniana contro Nerone e dei Pazzi contro i Medici, il felice esito delle congiure di Pelopida contro i tiranni Tebani e di Iacopo di Appiano contro Piero Giambacorti principe di Pisa.









































Critica al Machiavelli



Durante la sua vita, Machiavelli pubblicò personalmente poche opere: il Decennale (1506), la Mandragola (1518) e l'Arte della guerra (1521); tuttavia le sue opere politiche maggiori, il Principe e i Discorsi, circolavano già manoscritte, per lo meno in una cerchia ristretta.

Per i contemporanei le sue idee, destinate ben presto a suscitare infinite polemiche, non avevano nulla di scandaloso, poiché apparivano come la rielaborazione teorica di esperienze politiche vissute comunemente. Dopo la pubblicazione dei Discorsi (1531) e soprattutto del Principe (1532), il pensiero di Machiavelli ebbe una grandissima risonanza, anche a livello europeo, suscitando aspre reazioni in particolare negli ambienti ecclesiastici, dove andava maturando il clima controriformista. Si condannavano i suoi concetti in quanto ispirati ad una visione pagana, atea e blasfema, nella loro critica alla religione cristiana e alla Chiesa; in essi si ravvisava l'incitamento scandaloso ad usare mezzi immorali, la violenza e la frode, nell'operare politica. Tra i primi a scagliarsi contro il Machiavelli fu il cardinale inglese Reginald Pole in una Apologia indirizzata all'Imperatore Carlo V e composta tra il 1535 e il 1545, in cui si ravvisava nel pensatore fiorentino l'ispiratore della Riforma Protestante e dello scisma anglicano del re Enrico VIII, e si sosteneva che il Principe era stato scritto "col dito di Satana".

Nell'età della Controriforma la polemica antimachiavellica diede origine alla riflessione sulla cosiddetta "ragion di Stato": si condannava la subordinazione della morale agli interessi dello Stato proposta da Machiavelli e si affermava che il sovrano doveva essere ossequioso verso i principi della morale e della religione, e che solo così, grazie alla benevolenza divina, avrebbe potuto conseguire il successo della sua politica. Tuttavia il realismo di Machiavelli, condannato in linea di principio, veniva tacitamente recuperato: quelle pratiche di governo che erano condannabili nell'agire politico del sovrano potevano essere giustificate ove lo richiedessero gli interessi della Chiesa. E' in questa fase che viene elaborato il principio "il fine giustifica i mezzi", che è sostanzialmente estraneo al pensiero di Machiavelli. Questo machiavellismo dissimulato fu proprio soprattutto della pubblicista gesuitica: lo troviamo nella Ragion di stato del gesuita piemontese Giovanni Botero (1589).

Nell'età della Controriforma il gesuitismo politico della "ragion di stato" dà origine al cosiddetto "tacitismo".








"Il Principe"



Il Principe è un'operetta molto breve, scritta in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero; si articola in ventisei capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino, secondo la consuetudine trattistica di quel periodo. La materia è divisa in diverse sezioni. Nei capitoli dal I all'XI si esaminano i vari tipi di principato e mira ad individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra principati ereditari, a cui è dedicato il II capitolo, e nuovi; questi ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo stato ereditario di un principe, capitolo III, o nuovi del tutto, capitolo IV e V; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie, capitolo VI; oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui, capitolo VII in cui viene proposto come esempio il Duca Valentino. Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze; qui il Machiavelli distingue la crudeltà in due modi: bene e male. La "crudeltà bene" è quella impiegata solo per assoluta necessità e che si conviene nella maggiore utilità possibile per i sudditi; mentre la "crudeltà male" è quella che cresce col tempo anziché cessare ed è compiuta per l'esclusivo vantaggio del tiranno. Nel capitolo IX si affronta il principato civile, in cui il principe riceve il potere dai cittadini stessi; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell'XI si parla dei principati ecclesiastici, in cui il potere è detenuto dall'autorità religiosa, come nel caso dello Stato della Chiesa. I capitoli dal XII al XIV sono dedicati al problema delle milizie. Machiavelli giudica negativamente l'uso degli eserciti mercenari perché combattevano solo per denaro, sono infidi e pertanto costituiscono una della cause principali della debolezza degli stati italiani e delle pesanti sconfitte da essi subite nelle recenti guerre; per il Machiavelli la forza di uno stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi, che combattono per difendere i loro averi e la loro vita. Nei capitoli dal XV al XXIII tratta dei modi di comportarsi del principe coi sudditi e con gli amici. E' la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente è più radicale e polemico, in cui Machiavelli, anziché esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe, va dietro alla scelta effettuale delle cose. Sono questi capitoli che hanno immediatamente suscitato più scalpore, e hanno tirato per secoli su Machiavelli l'esecrazione e la condanna. Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella crisi successiva al 1494, hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore è essenzialmente l'ignavia dei principi, che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava e porvi i necessari ripari. Da qui scaturisce naturalmente l'argomento del capitolo XXV, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere propria del politico, di porre gli argini alle variazioni della fortuna, paragonata ad un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati. L'ultimo capitolo, cioè il XXVI, è un'appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energetico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l'Italia dai barbari.



































































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