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La lode della donna dallo Stil Novo al Cinquecento
La lirica di soggetto amoroso ha un posto centrale nella storia della letteratura; i temi dell'innamoramento, della lode e della bellezza della donna, delle pene d'amore, della lontananza, del rimpianto, dell'omaggio galante registrano i mutamenti di cultura, di linguaggio, e testimoniano la vitalità del genere. La letteratura italiana permette di seguire per un lunghissimo corso di secoli la formazione e la codificazione del codice 'lirico-amoroso'; una codificazione tanto forte che ha pervaso anche ambiti diversi da quelli della 'letteratura alta', tanto che si possono affiancare al lavoro sui testi canonici l'analisi di canzoni popolari, canzonette, espressioni del linguaggio comune. Un percorso può essere incentrato sul motivo della bellezza della donna, seguendo il quale è possibile giungere ad una codificazione delle similitudini e delle metafore che via via si rafforzano nella tradizione, dal dolce stil nuovo al petrarchismo cinquecentesco. Un altro percorso può prendere in esame la teorizzazione del concetto di amore, per coglierne le modificazioni nel tempo.
Lo Stil Novo è un movimento poetico nato a Bologna e a Firenze a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, e trae il suo nome dalla Divina Commedia, precisamente dal XXIV canto del Purgatorio, in cui il poeta Bonagiunta Orbicciani da Lucca dichiara di aver compreso ciò che ha trattenuto la poesia di Iacopo da Lentini, di Guittone d'Arezzo e di lui stesso "di qua da quel dolce stil novo ch' i' odo". Da questo verso si può cogliere il forte distacco polemico nei confronti della maniera di poetare siciliana e guittoniana.
Rappresentanti principali sono Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti. Qui il tema dell'amore viene purificato da ogni sensualità e diventa strumento di perfezione morale (che porta anche a Dio), per cui esso è patrimonio di pochi virtuosi. La donna è angelicata, oggetto di contemplazione. Lo stile diventa molto raffinato - limpido - musicale. C'è molta più attenzione per l'interiorità psicologica, per i sentimenti profondi. Lo stesso concetto di 'nobiltà' ora si riferisce solo allo stato d'animo, agli intenti o all'ingegno.
"Al cor gentile rempaira sempre Amore" di Guido Guinizzelli rappresentò il manifesto nel quale si riconobbero i poeti dello Stil Novo: essa infatti enuncia le proposizioni canoniche del nuovo modo di poetare, in particolare definisce la nobiltà come virtù individuale non ereditaria, stabilisce il nesso tra "gentilezza" e amore, e avvia il paragone tra la donna e l' angelo.
Quindi per capire la lode della donna nello stilnovo basta analizzare "Al cor gentil reimpara sempre amore".
Al cor gentil rempaira sempre amore
come l'ausello in selva a la verdura;
né fe' amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch'amor, natura:
ch'adesso con' fu 'l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti'l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propiamente
come calore in clarità di foco.
Foco d'amore in gentil cor s'aprende
come vertute in petra preziosa,
che da la stella valor no i discende
anti che 'l sol la faccia gentil cosa;
poi che n'ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch'è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo 'nnamora.
Amor per tal ragion sta 'n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su' diletto, clar, sottile;
no li stari' altra guisa, tant' è fero.
Così prava natura
recontra amor come fa l'aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com' adamàs del ferro in la minera.
Fere lo sol lo fango tutto 'l giorno
vile reman, né 'l sol perde calore;
dis' omo alter: 'Gentil per sclatta torno';
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d'ere'
sed a vertute non ha gentil core,
com' aigua porta raggio
e 'l ciel riten le stelle e lo splendore.
Splende 'n la 'ntelligenzia del cielo
Deo criator più che 'n nostr'occhi 'l sole:
quella intende suo fattor oltra cielo,
e 'l ciel volgiando, a Lui obedir tole,
e consegue, al primero,
del giusto Deo beato compimento:
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che 'n gli occhi splende
del suo gentil talento,
che mai di lei obedir non si disprende.
Donna, Deo mi dirà: 'Che
presomisti?',
siando l'alma mia a Lui davanti.
'Lo ciel passasti e 'nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch'a Me conven le laude
e a la reina del regname degno, per cui cessa onne fraude'.
Dir Li porò: 'Tenne d'angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s'eo li posi amanza'.
Guido Guinizzelli
Già Andrea Cappellano lasciava capire che l'amore non è più un sentimento riservato ai nobili di sangue. La condizione è il "cor gentile" come suggerisce il Guinizelli. L'amore e il cuore gentile stanno tra di loro come la luce sta al sole. Così come la luce del sole toglie le impurità dalle pietre, trasformandole in gemme, "così lo cor ch'è fatto da natura asletto, pur, gentile, donna a guisa di stella lo 'nnamora."[1] La luce è essenza della bellezza della donna, che è uno splendore morale più che fisico. Da questa contemplazione scaturisce il "fino amor." L'amore raggiunge un misticismo profano: se l'amore per madonna viene corrisposto e l'amante può servirla, allora l'innamorato si sente beato, come un angelo che fissa lo sguardo di Dio, aspettando di potere gloriosamente appagare la Sua volontà. Egli non vive che in funzione di lei, ma la ricerca del favore della dama è come la ricerca del Graal. L'amore è purificato da ogni sensualità, e l'unico peccato che può avere l'innamorato è di avere seguito un amore vano, ma l'ha fatto solo perché "tenea d'angel semblanza." In Guinizelli, la donna non è propriamente un angelo, è piuttosto simbolo di gioia, di pienezza di vita, e l'uomo si innamora per virtù della sua personalità che lo stravolge. La donna di Guinizelli è diversa dalle altre. Essa non è semplicemente un oggetto di contemplazione, non è statica; essa è energia vitale, e la luce e la gioia che essa irradia e infonde travolgono l'uomo. Così l'amante vive un'esperienza non placata perché non riesce a spiegarsi come si sia innamorato, né sa esporre i suoi sentimenti. È un amore amaro, secondo una lunga tradizione che va dai latini ai francesi ai siciliani, perché l'amante non ha molta speranza di avere corrisposto il suo amore, e si augura la morte pur di avere un po' del suo riguardo. Cioè: amare la donna gli può dare gioia in quanto amarla significa acquistare valore; ma allo stesso tempo questa gioia lo tormenta. Questo "tormento" che è l'amore (nonostante sia fonte di sublime elevazione spirituale) ricompare, fra i tanti, maggiormente in Cavalcanti, precursore di Dante.
Io voglio del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella dïana splende e pare,
e ciò ch'è lassù bello a lei somiglio.
Verde river' a lei rasembro e l'are,
tutti color di fior', giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.
Passa per via adorna, e sì gentile
ch'abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa 'l de nostra fé se non la crede;
e no 'lle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c'ha maggior vertute:
null'om pò mal pensar fin che la vede.
Guido Guinizelli
Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira,
che fa tremar di chiaritate l'are
e mena seco Amor, sì che parlare
null'omo pote, ma ciascun sospira
O Deo, che sembra quando li occhi
gira,
dical' Amor, ch'i' nol savria contare:
cotanto d'umiltà donna mi pare,
ch'ogn'altra ver' di lei i' la chiam' ira.
Non si poria contar la sua piagenza,
ch'a le' s'inchin' ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.
Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose 'n noi tanta salute,
che propiamente n'aviàn canoscenza.
Guido Cavalcanti
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi ch'or ne son sì scarsi;
e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi?
Non era l'andar suo cosa mortale
ma d'angelica forma, e le parole
sonavan altro che pur voce umana;
uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi, e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.
Francesco Petrarca
Beatrice e Laura
Beatrice e Laura sono le prime creature femminili di rilievo della letteratura italiana. I due personaggi femminili esprimono due diverse concezioni della vita, dell'amore, dell'arte.
Beatrice, la donna amata da Dante, cantata nella 'Vita Nova' e celebrata poi nella 'Divina Commedia', testimonia l'evoluzione spirituale, morale ed artistica, di Dante. Beatrice, come tutte le donne dello stilnovo, rappresentò grazia, candore, onestà, umiltà: tutte virtù che incutono soggezione all'uomo, gli fanno abbassare lo sguardo, lo rendono beato d'un semplice sorriso, d'uno sguardo. Poi le vicende della vita ampliarono enormemente gli interessi della mente e del cuore di Dante e Beatrice divenne il simbolo della Teologia e della Fede, colei che sola può svelare a Dante ed all'umanità tutta il mistero di Dio. Beatrice è un miracolo, è colei che dona la beatitudine, come le donne stilnoviste, porta l'uomo a Dio.
Tutt'altra creatura è la Laura di Petrarca. La nuova concezione della vita, che metterà al centro d'ogni interesse culturale l'uomo e i suoi più urgenti problemi esistenziali, non è ancora chiaramente delineata e in grado di dare nuove certezze per sostituire quelle medievali che stavano volgondo al tramonto, ma è già nell'aria e fa già sentire i suoi primi effetti su persone come Petrarca. E Laura rappresenta, nella vita spirituale del suo Poeta, tutto questo. Laura è il simbolo di un dissidio interiore, di un animo tormentato che anela alla pace ma che non la trova: essa rappresenta la varietà degli umori e delle situazioni psicologiche del suo cantore, il quale ora rimane rapito dinanzi ai luoghi "ove le belle membra pese colei che sola a me par donna" , ora afferma che "uno spirto celeste, un vivo sole fu quel ch' i' vidi" ed ora confessa d'essere stato "sommesso al dispietato giogo che sopra i più soggetti è più feroce" per cui sente di dover chiedere misericordia al Signore per il suo "non degno affanno" .
È la donna amata da Petrarca, cantata nel Canzoniere e nei Trionfi. Per lei il poeta rinnova gli elogi degli 'stilnovisti' e ne fa il tipo di ogni virtù e perfezione, che diffonde intorno a sé purezza e beatitudine: ma quei motivi rimangono laterali nella sua opera o sono trasfigurati in una nuova concezione terrena e umana della donna e dell'amore, per la quale la bellezza è celebrata non come simbolo di verità o virtù, o come mezzo di ascesa spirituale, ma per se stessa, nel suo ineffabile e reale valore. E Laura è innanzi tutto bella, bella non della bellezza di Beatrice e delle altre donne dello 'stil novo', luminose e indefinite come l'angelo del Purgatorio che 'col suo lume se medesmo cela'[7]; ma di una bellezza che, pur spiritualizzata, resta terrena, oggetto non solo di adorazione estatica, ma di trepido desiderio: e quella bellezza il poeta non si stanca di "vagheggiare", rievocando nella memoria "Gli occhi sereni e le stellanti ciglia, la bella bocca angelica di perle piena e di rose e di dolci parole" e riascoltando dentro di sé 'il riso e il canto e il parlar dolce umano', ritraendola come l'ha vista in momenti fugaci e indimenticabili, e, morta, ancora ricordandone a se stesso tutto l'incanto:
"Gli occhi di ch'io parlai si caldamente
e le braccia e le mani e i piedi e 'I viso
Che m'avean si da me stesso diviso
E fatto singular da l'altra gente,
Le crespe chiome d'or puro lucente
E 'I lampeggiar de l'angelico riso
Che solean fare in terra un paradiso'
La bellezza di Laura per lui non si può disgiungere dalla natura, in mezzo alla quale la donna si muove ed è partecipe della sua umanità. Laura è per il poeta al centro dell'universo, miracolo nuovo che dà spirito e senso alla vita terrena e che dileguandosi lascia in terra una solitudine desolata ('Nel tuo partir partì del mondo Amore - E Cortesia'): oggetto di meraviglia per tutti gli uomini, è il soggetto più degno della poesia, a cui il poeta sente inadeguate le proprie forze, beato di essere stato eletto a suo cantore, di avere ottenuto, per grazia sua, il dono della poesia e della gloria che ne consegue. Così Laura, l'ispiratrice e il tema dei suoi versi, si confonde più d'una volta con la stessa poesia e con la gloria poetica, e l'entusiasmo dell'amante sembra essere una cosa sola con l'entusiasmo del poeta per la propria vocazione e per il premio raggiunto attraverso dolori e travagli. Scomparsa dalla terra, Laura è viva per il suo poeta, e, per lui solo, anche il passato, quel passato che gli era stato così penoso, si illumina ora per lui di una nuova luce. Non solo a dirgli parole di ascetica saggezza, Laura scende ora dal cielo, ma per confortarlo con femminile sollecitudine, come madre e come sposa ('Né mai pietosa madre al caro figlio - Né donna accesa al suo consorte amante'),`e quelle stesse parole valgono, più che per quanto significano per l'affetto che le impronta. Qui, meno ancora che nelle rime in vita, Laura può ricordare Beatrice: perché, pur beata, i suoi occhi sono rivolti alla terra e anche nel sonetto nel quale il poeta narra di essere stato sollevato al terzo cielo accanto a lei, guarda alla terra e all'amato che per lei ha sofferto e che le ha fatto più preziosa la sua bellezza: 'Te solo aspetto, e quel che tanto amasti - E là giuso è rimaso, il mio bel velo '. Cosi si risolve il dramma e si compie la figura di Laura, che la poesia del Petrarca ha fatto per tutti i tempi quasi il simbolo di ogni creatura amata, dell'intima contraddizione e dell'ineffabile beatitudine della passione d'amore.
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