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La didascalia. un approcci o storico.




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L A D I DASCAL I A . U N APPROCCI O STORI CO




Definiamo didascalia ciascuna delle indicazioni contenute in un testo drammatico con cui l'autore integra il dialogo: descrizione della scena all'inizio di ogni atto o di ogni quadro; istruzioni per l'entrata o l'uscita dei personaggi nel susseguirsi delle scene; disposizioni relative ai movimenti degli attori sulla scena, ai loro atti, gesti, espressioni, toni di voce, e così via12.

Questa definizione, aggiornata e modellata sui contributi critici a disposizione, può senz'altro possedere una condivisibile correttezza enciclopedica13; tuttavia, il valore e la funzione della didascalia sono ancora in parte irrisolti e contraddittori, cioè non del tutto condivisi, al punto che, come ha scritto recentemente Stefano Massini, «esiste ancora una diatriba piuttosto viva sull'uso delle indicazioni extra-dialogiche, la cui presenza in un testo teatrale sembra far scattare subito l'accusa di anacronismo»14.

In effetti parlare di 'necessità' o di 'legittimità' significa assumere come

didascalia solo i segmenti verbali separati dai dialoghi (contenuti in un inciso parentetico o distinti tipograficamente dal corpo del testo), escludendo cioè le didascalie implicite, vale a dire le indicazioni cinesiche, mimiche o prossemiche comprese all'interno delle battute pronunciate, pertinenti al contesto spaziale e temporale nel quale l'azione si sviluppa15. Quella di didascalia implicita (o, com'è altrimenti chiamata, didascalia interna) è una riduzione teorica che si spiega facilmente attraverso la nozione linguistica fondamentale di deissi, che Alessandro Serpieri ha applicato alla scrittura drammatica16. Assumendo per deissi la collocazione di un enunciato in un preciso contesto di riferimento, che ne determina i possibili livelli di interpretazione, Serpieri sostiene che il discorso drammatico è inscritto perfettamente in uno spazio e in un tempo definiti da coordinate deittiche,

introdotte da espressioni linguistiche (pronomi, avverbi di tempo o luogo, e così via) e sostenuto dalla concordanza dei tempi verbali. A differenza del tessuto narrativo, che descrive semplicemente il contesto, la scrittura

drammatica lo indica pragmaticamente17, simulando con ciò l'abituale performatività del comportamento linguistico della vita quotidiana, in una spazio-temporalità presente.

La sola morfologia del testo teatrale pone del resto più di un'ambiguità poiché, se è vero che a differenza delle battute le didascalie «non possono mai mancare»18, è anche vero che entrambi gli strati testuali dipendono dal sistema convenzionale sincronico. Due sono i parametri che a nostro avviso influiscono sulla quantità e qualità delle indicazioni sceniche: il primo è la distanza del testo drammatico dalla scena, il secondo è la complessità semantica del testo drammatico.

Col primo punto si vogliono indicare esplicitamente le condizioni generali della messinscena, il se e il come il testo si produce visivamente. Si ha la distanza minima tra testo e scena quando l'autore coincide con l'allestitore; la maggiore separazione si ha invece quando una traccia scritta è manipolata da una o più persone diverse dall'autore, e massimamente in un'epoca differente da quella della stesura.

Con il secondo punto non si intende richiamare il valore squisitamente artistico o tecnico dell'opera drammatica, quanto la densità di segni extra- verbali. Diremo quindi che la complessità di un testo deriva da come l'ammontare di senso è distribuito sulla superficie del testo, per sua natura multiplanare. Se il significato dell'opera (in termini semantici: il valore comunicativo dell'enunciazione drammaturgica, ovvero il modo di indicare un'idea e l'idea stessa) si risolve esclusivamente nello scambio di battute, si ha una complessità minima. Qualora invece questa espressione sia il prodotto di più codici extralinguistici che coesistono, il valore parametrico è massimo.

È possibile affermare che, perlomeno nei testi del teatro occidentale, si riconosce una sorta di ciclicità, un andamento fasico che interessa questi due parametri, distanza dalla scena e complessità semantica. Nessuna delle condizioni si può pensare in termini esclusivi; si tratta di dinamiche non lineari, che si avvicendano, si intrecciano, si respingono, si moltiplicano, convivendo

in una mescidanza di istanze differenti. Al più conviene parlare del carattere dominante che l'una o l'altra assumono in una particolare situazione storica e geografica19; trovo assolutamente convincente, pour cause, la sintesi di Paolo Bosisio:



[.] la didascalia segue nei secoli le vicende alterne della drammaturgia, rispecchiando con la sua più o meno cospicua presenza, a corredo dei testi, la loro elettiva destinazione alle scene o alla sola lettura, nonché le caratteristiche professionali dell'autore, talvolta regista e interprete di se stesso, talaltra letterato puro, affatto disinteressato all'eventualità di una rappresentazione dell'opera sua20.



Sulla stessa linea si era espresso in precedenza Achille Mango: «la didascalia comincia a comparire quando la separazione fra la scrittura drammaturgica e la rappresentazione non solo esiste ma viene addirittura teorizzata con argomentazioni che tendono a escludere il cosiddetto operatore teatrale dalla fase creativa dello spettacolo»21; e Raffaele Morabito:

«l'incremento dello spazio occupato dalle didascalie all'interno del testo drammaturgico corrisponde storicamente al progressivo dissociarsi della figura dell'autore del testo scritto da quella di chi mette in scena lo spettacolo servendosi del testo»22.

Così come le battute assorbono e ridicono il sistema di pensiero, la condizione umana e i suoi diaframmi linguistici, le didascalie illuminano sui modi della rappresentazione. Nelle pagine che seguono proverò ad ancorare questo ragionamento ad alcuni episodi catturati nella progressione diacronica

della pratica e delle teorie del teatro.


1.1.1 L O SPETTAC O LO SENZA TR AC C I A



La "verginità" didascalica del teatro antico - greco e romano - deriva dal rapporto diretto tra il testo e la materialità della rappresentazione. L'etimologia racconta non solo la storia di una parola ma la realtà di una pratica originaria o di un pensiero; nell'etimo della parola didascalia è contenuto il concetto di insegnamento: il verbo didasko (διδασκο = io insegno; la medesima radice si ritrova in didattica) ci riporta alle condizioni dell'evento spettacolare in età greca.

Finché l'evento teatrale si dà come fatto agonistico, recitato una tantum, e i drammaturghi sono responsabili direttamente non solo del testo ma anche della messinscena, i copioni occorrenti si limitano a mettere per iscritto la sequenza delle battute23. Si tratta di un testo avente mero valore funzionale, la cui necessità principale consiste nell'indicare le entrate e le uscite degli attori; non è raro tuttavia che alcune annotazioni relative all'azione siano inserite nel commento del coro, in modo da spiegare per ridondanza gli atti che si svolgono sotto gli occhi del pubblico. Del resto, in una tragedia greca, tutto o quasi è rivelato internamente al parlato; nella sua integrità il corpus delle battute fornisce i dati essenziali allo svolgimento dell'azione, individua l'identità del personaggio e i suoi tratti essenziali (è noto il tipico procedimento drammatico di autopresentazione del personaggio all'interno dei prologhi). Non altrove che nel dialogo è da ricercarsi il significato dell'opera24.

Ciò spiega la coincidenza etimologica con il nome del poeta-allestitore, il didaskalos (διδασκαλος), a cui è affidata anche la preparazione degli attori (corodidascalo era colui che istruiva il coro). Didaskalia è pertanto l'istruzione impartita agli attori circa il modo di recitare i drammi. Raffaele Cantarella ci informa poi che con la prassi di affidare la messinscena a un singolo, frequentemente un attore professionista, «divennero opportune brevi note in margine al testo, dette παρεπιγραφαί ("parepigrafi" o "iscrizioni

marginali")»25, che sono da attribuire agli stessi autori o, per l'appunto, agli

allestitori che ricevevano il testo e vi apponevano alcune integrazioni26. Del resto, come sostiene Massimo Di Marco, «la scissione tra autore e regista e il moltiplicarsi delle occasioni di rappresentazione di un medesimo dramma anche fuori dall'Attica ebbero senza dubbio un'incidenza rilevante sulla scrittura dei testi drammatici, ma furono fenomeni di cui sarebbe errato per il V secolo esagerare l'importanza, mentre interessarono soprattutto, com'è noto, l'era posteuripidea»27. Analogamente è inopportuno datare all'epoca dei grandi tragici del V secolo la diffusione di una sorta di Buchdrama, destinato a un

pubblico di lettori, essendo ancora irrilevante la circolazione di testi scritti.

Per quanto è noto i testi delle commedie latine non contengono mai didascalie, benché la responsabilità della messinscena sia affidata a un allestitore e non allo stesso drammaturgo. È lecito supporre che quest'ultimo conoscesse perfettamente le condizioni generali della messinscena; del resto, quello in vigore a Roma era un codice formale assai rigido, stabilizzato sui tipi fissi riconoscibili attraverso le maschere. Come in Grecia l'allestimento

scenico era affidato a una sorta di capocomico, il dominus gregis (che spesso coincideva col primattore), o il choragus (figura professionale a metà tra un trovarobe e un attrezzista).

I manoscritti delle commedie intorno al secondo secolo avanti Cristo si limitano a registrare la data e l'occasione della prima rappresentazione (e delle eventuali riprese successive) e gli "ingredienti" della commedia, riportando cioè, come gli odierni programmi di sala, i nomi dei personaggi da interpretare (le dramatis personae), l'accompagnamento musicale, quando presente, e gli

strumenti utilizzati dai musicisti28. Erano queste per l'appunto le note

informative con cui i grammatici solevano compilare le didascalie, servendosi verosimilmente delle indicazioni trovate nei copioni delle compagnie. Per contro, le didascalie interne sono frequentissime, come nella complessa versificazione di Plauto, nei cui manoscritti si trovano al più le indicazioni DV (diverbium) e C (canticum), per distinguere i versi cantati da quelli recitati.

La riscoperta dei manoscritti plautini e terenziani, avvenuta negli ultimi decenni del Quattrocento, sortisce un effetto dirompente su tutto il teatro comico europeo. Nei confronti del modello latino le innumerevoli traduzioni, rielaborazioni e libere trascrizioni composte da lì in avanti si pongono in modo analogo a quello dei testi latini nei confronti di quelli greci.

Come per il teatro classico, la stagione che comincia con il XVI secolo ha nel sistema culturale e politico delle festività il movente e il contenitore dello spettacolo teatrale, in quanto forma espressiva della rappresentazione del potere (insieme a musica e poesia). In effetti, com'è stato evidenziato, «la commedia rinascimentale riparte [.] dal recupero della traccia mitico-

ideologica che assicura il perdurare di schemi sociali lungamente collaudati»29

e la precettistica classica normalizzò la pratica scenica intorno ai generi convenuti (commedia, tragedia e dramma pastorale), manifestazioni di modelli, gusti e orientamenti comuni a tutto il continente europeo. A dire il vero, il canone aristotelico, in combinazione con quello oraziano30, non stabilì un'ortodossia intoccabile e non impedì innovazioni rilevanti ma, come sintesi delle riflessioni sul teatro, fu accettato per secoli e sulla falsariga delle dottrine

peripatetiche furono fissati i criteri della rappresentazione. L'imitatio delle

strutture formali classiche non vietava una certa libertà e disinvoltura nell'applicazione dei modelli: contaminazioni, sovrapposizione di stili, adattamento alle nuove situazioni sociali.

La rielaborazione delle commedie plautine e terenziane, mediata dal commento di Elio Donato31, interessa anche i contenuti extratestuali, come appunto le scarne note informative preposte al dramma. Dal modello latino la commedia preleva infatti l'uso dei prologhi, con i quali si domanda attenzione e si comunica l'antefatto. Peraltro, nel genere assolutamente dominante della commedia cinquecentesca - si vedano gli esempi di Ariosto, Ruzante o Machiavelli - le indicazioni sceniche sono espulse; permangono alcune

indicazioni standard, come il latino exit, qualora il gioco delle entrate e delle uscite non sia sottinteso con il mutare delle scene. Fatta salva l'ambientazione scenica, il cui riferimento alla vicenda è puramente indicativo, la rappresentazione deduce dalle battute il gioco scenico necessario all'interpretazione. Ma oltre a ciò Morena Pagliai rileva come l'assenza di indicazioni sceniche si rapporti alla tipologia del pubblico, «culturalmente omogeneo, tanto da poter collettivamente decifrare e contestualizzare il testo drammaturgico»32 e come questa compattezza sia determinante per la struttura e la comprensione degli intrecci.

Pur sviluppandosi al di fuori di un contenitore festivo e configurandosi come un'impresa commerciale, la situazione organizzativa del teatro elisabettiano (che va sotto i regni di Elisabetta I e Giacomo I, tra il 1560 e il

1630 all'incirca) può essere equiparata per molti aspetti a quella del teatro greco: i commediografi, direttamente coinvolti nella preparazione del play, scrivono per la scena e non per la pubblicazione. Per di più, colui che scrive è frequentemente l'attore principale, il direttore della compagnia o il produttore, e ha perciò un controllo diretto sulla messinscena del proprio testo. Lavori che sono prodotti in grande quantità per assecondare la richiesta crescente del pubblico e per essere venduti alle compagnie.

Si racconta come scandalosa l'iniziativa di Ben Jonson, uno dei più apprezzati e acclamati scrittori della prima metà del Seicento, di pubblicare, come fossero opere letterarie, alcune sue commedie. Di fatto egli è il primo a inscrivere il suo lavoro di commediografo in un evento editoriale gestito in proprio anziché promosso dalle compagnie (come la pubblicazione dell'in-folio shakespeariano, avvenuta per iniziativa degli attori dei King's men). Per la raccolta delle sue opere teatrali, uscita a stampa nel 1616, Jonson «scelse i drammi da pubblicare e elevare al rango di 'opere' - non più copioni ma testi anche per la lettura - e li corredò di un articolato apparto paratestuale: prologhi, 'inductions', cori, epiloghi, didascalie, chiose e quant'altro potesse servire a sostegno della propria authorship, a una sorta di autocanonizzazione

del tutto eccezionale per i tempi»33. È tra i primi, tra l'altro, a corredare la lista

iniziale dei personaggi con un breve ritratto psicologico.

La circolazione di testi a stampa (spesso non autorizzati e la cui incerta autenticità rende difficile stabilire la paternità di certe scelte drammaturgiche) e la conseguente accessibilità per le formazioni professionistiche rende possibile mettere in scena un testo senza averlo mai visto prima e senza l'aiuto del commediografo. Analogamente a quanto detto in precedenza, non vi è necessità di mettere per iscritto l'attrezzatura necessaria per lo spettacolo, poiché se ne conosce perfettamente la disponibilità, mentre gli attributi fisici dei personaggi e i loro movimenti sono contenuti nei dialoghi, come didascalie

implicite34.

Il "luogo" dell'azione, nei drammi greci classici come nelle commedie rinascimentali, risiede nella parola e nel gesto: a questi testi Marco De Marinis assegna il nome di Testo Drammatico-Copione, poiché legati in modo indissolubile alla materialità della rappresentazione, vale a dire alla collocazione in scena35. In sostanza gli autori cinquecenteschi (e seicenteschi, fuori d'Italia) azzerano la componente didascalica, contando sulla piena e sottintesa accettazione del luogo e del gioco scenico prestabiliti.

Tale sistema di consenso e conformità può attagliarsi efficacemente anche alla Commedia dell'Arte e al suo pubblico (in questi decenni la stagione della sua fioritura). Nondimeno, gli scenari e i canovacci della Commedia dell'Arte, pur contando prioritariamente sull'invenzione effimera dell'attore -

come nella consuetudine del dramma a vocazione popolaresca - possono dirsi, come asserisce D'Amico, «tutti una didascalia, dacché la trama dei dialoghi vi si confonde con la proposta dell'azione scenica»36.






1.1.2 N ERO SU BIAN CO



Tra le due epoche sin qui affrontate, l'età greco-romana e quella cinque- seicentesca, si incastra un periodo assai complesso, enigmatico e per certi aspetti paradossale. Dopo l'oblio successivo al tracollo dell'Impero romano occidentale e nonostante la letteratura patristica e i documenti ecclesiastici testimonino un atteggiamento aspramente ostile nei confronti del teatro, la rinascita di forme spettacolari passa proprio attraverso i rituali liturgici. È a partire dalla messa (e dall'unità organica e simbolica dello spazio architettonico ad essa consacrato), dal canto cerimoniale, dalla narrazione di eventi biblici ed evangelici, che prende forma la futura drammatizzazione cristiana.

Nelle sue primissime presenze il gesto stilizzato si limita ad accompagnare la parola cantata o salmodiata. La partitura si farà più complessa, nei primi due secoli del secondo millennio, con la separazione delle voci, la fuoriuscita dal recinto sacro dell'edificio e lo sviluppo dei nuclei tematici originari.

In un testo in lingua anglo-normanna, databile intorno alla metà del XII secolo, il Jeu d'Adam (italianizzato in Mistero d'Adamo e conosciuto anche come Ordo representacionis Ade), compare un ricco apparato di didascalie in latino - affiancate al dialogo e vergate, come d'uso, con inchiostro rosso - contenente precise indicazioni per l'allestimento dello spazio scenico, verosimilmente collocato sul sagrato antistante la chiesa (anche se non è da

escludersi in questo caso una rappresentazione in interni)37. La compresenza del volgare e del latino si spiega con la differenza dei destinatari: il testo in volgare, fungendo da copione, è diretto agli attori, le didascalie scritte in lingua latina erano invece destinate agli allestitori, evidentemente appartenenti al clero, ai quali forniscono lunghe e particolareggiate istruzioni, soffermandosi sulla descrizione dell'abbigliamento dei personaggi, della loro collocazione in scena e delle modalità di recitazione38.

Matrice ecclesiastica, destinatario laico e popolare, fine educativo: sono le caratteristiche che connotano anche i numerosi laudari, particolarmente diffusi nel Centro Italia, con i quali le confraternite trascrivono la rappresentazione di episodi evangelici e atti devozionali: eventi imponenti, realistici, con una punteggiatura spettacolare perfezionata di anno in anno, e che si traduce nella stesura di componimenti poetici con accurate didascalie in italiano39. Queste ultime hanno dunque una funzione prescrittiva: nella

minuziosa definizione dei movimenti rituali si può ritrovare una sorta di canone coreografico, basato su precise regole compositive e spaziali, le stesse che ordinavano la realizzazione dei cicli pittorici40. Gli imperativi scenotecnici

e scenografici si inscrivono cioè nella scrittura teatrale, comprovando una profonda coesione tra il testo che mostra (le didascalie) e il testo che dimostra (il dialogo)41. È il futuro, insieme con il modo imperativo e il congiuntivo esortativo, il tempo verbale impiegato per esporre il gioco scenico dei drammi liturgici.

La situazione sin qui descritta perdura nel teatro liturgico tardomedievale, estendendosi fino alle sacre rappresentazioni in volgare. Intrecciandosi con i nuovi interessi culturali dell'ambiente umanistico e sviluppando una struttura drammatica ancora più articolata, il genere della Sacra Rappresentazione fiorentina del Quattrocento necessita, per la corretta simbolizzazione spaziale, di dispositivi scenici particolari descritti con precisione all'interno di "libretti di scena". Le cospicue istruzioni pratiche compongono anche un prontuario per la recitazione, impostata su gesti di

stilizzazione retorica e cadenzata sui testi intonati monodicamente42.

Gli esempi da richiamare sono qui senz'altro i letterati che gravitano intorno alla corte medicea: Castellano Castellani, probabile autore della Rappresentazione della conversione di Santa Maria Maddalena; Feo Belcari, tra i più prolifici, che scrisse ricalcando il racconto biblico, la Rappresentazione di Abram e Isaac43; e Lorenzo de' Medici, il Magnifico, a cui si deve una Rappresentazione dei SS. Giovanni e Paolo44. Un caso assai noto è quello della Rappresentazione di Santa Uliva, in cui, in misura maggiore che nelle altre scritture drammatiche del secolo, come ebbe modo di scrivere

Alessandro D'Ancona45, le lunghe didascalie interrompono il manoscritto somministrando le disposizioni relative ai costumi, alla partitura mimica e agli oggetti di scena46.

Scavalcando l'età rinascimentale, un'analoga prodigalità di indicazioni sceniche si ripresenta con la spettacolarità barocca; l'irruzione del fantastico, dell'esotico, del meraviglioso sulle scene del Seicento tende a fare aggio sul contenuto letterario. Gli intermezzi coreografici e scenografici, che nel tardo Cinquecento esaltavano il pubblico con effetti impiegati senza parsimonia tra un atto e l'altro, ormai prevalgono del tutto; la configurazione degli apparati sfrutta in pieno il valore dell'immagine con inganni prospettici, macchinerie e giochi pirotecnici in grado di produrre una magia perturbante e un'illusione

costante47. D'altra parte la trattatistica scenica secentesca si può leggere come

una macrodidascalia che compendia il lessico scenico della rappresentazione (è il caso della Pratica di fabbricar scene e machine di Nicola Sabbatini, con le sue approfondite schede degli accorgimenti scenotecnici a disposizione).

Segno di ciò sono le lunghe e dettagliate didascalie che gli autori allegano ai loro testi e che contengono una descrizione del complesso degli "apparati" necessari. Testi che vanno considerati, come ha sottolineato Anna Maria Cascetta, «selezioni a posteriori di materiali elaborati nel corso di più eventi rappresentativi»48. Una didascalia come questa: «Maddalena sarà

sollevata da terra con ingegno sotterraneo alquanto in alto, e in quell'istante duo angioletti di qua e di là la sosterranno: e nello stesso momento il teatro deserto asprissimo apparir dovrà»49, che si legge nella Maddalena lasciva e penitente di Giovan Battista Andreini (atto III, scena IX), dice della ricercata stupefazione scenografica, che va ad accompagnarsi alla fastosa partitura coreografica e musicale50. Le idee scenografiche possono così conservarsi attraverso una traccia scritta:



Tutte o quasi tutte le commedie di Giovan Battista Andreini contengono un gran numero di indicazioni sceniche, sotto forma di didascalie implicite o esplicite, concernenti la gestica, l'assetto scenografico o quello coreografico: nella Sultana c'è una dettagliata descrizione di un lazzo coreografico, accompagnato addirittura da due disegni. Inoltre molte sono seguite da una nota, definita

«ordine per recitare.» che elenca, talvolta scena per scena, gli accessori necessari, i trucchi, i costumi. Insomma l'Andreini fa il possibile perché il testo a stampa si presenti come un dettagliato progetto di spettacolo51.



Si tratta cioè di uno spesso tessuto interstiziale composto da avvertenze esplicite, implicite indicazioni rivolte alla valorizzazione delle risorse attoriale, e sofisticate e baroccheggianti descrizioni dei luoghi scenici52. Pur nella reciproca estraneità, i due assi - contenuto visivo e contenuto poetico - convergono su una linea dominante determinata da motivazioni formali, leggasi sociali. Ancora a lungo la forma farà perno su un sostrato ideologico;

ne sarà, per meglio dire, la sua reificazione.


1.1.3 C ORNEILLE E D'A UBIG NAC



Nella Francia del diciassettesimo secolo i valori della classicità si intrecciano con motivazioni profondamente politiche, e l'ordine e la razionalità trovano espressione nella rigorosa supremazia e applicazione del verso alessandrino. Proprio da quest'ultimo, e dal precetto del suo utilizzo in purezza anche nella letteratura teatrale, scaturisce un dibattito sullo statuto da accordare

alla didascalia53. I teorici del teatro si dividono tra quanti avversano la

separazione dei due "testi", rivendicando un'integrazione totale delle note per la scena e gli attori all'interno dei versi recitati e quanti ritengono necessaria in fase di stesura la redazione in margine al dialogo di note esplicative, ad uso degli attori.

Al primo gruppo appartiene François Hédelin, più noto come abate D'Aubignac (1604-1676), autore della Pratique du théatre (1657), una sorta di manuale per drammaturghi con il quale l'abate fiancheggiava l'azione riformatrice promossa dal suo protettore, il cardinale Richelieu. A differenza dei manuali antecedenti, a cui D'Aubignac verosimilmente attinse, la Pratique prende in considerazione esclusivamente la letteratura drammatica per cui diviene in effetti un punto di riferimento non solo in Francia, oltre che un baluardo in difesa dell'ortodossia morale e sociale dello stato attraverso il teatro nazionale. Il principio della bienséance, congiunto alla preoccupazione, addirittura ossessiva, della verosimiglianza, doveva manifestarsi anche nella chiarezza dei testi, scevri da ogni comunicazione superflua dell'autore: «Toutes les pensées du poète, soit pour les décorations du théatre, soit pour les mouvements de ses personnages, habillement et gestes nécessaires à

l'intelligence du sujet, doivent être exprimées par les vers qu'il fait réciter»54.

Poco più avanti: «En ces notes c'est le poète qui parle, et nous avons dit qu'il ne le peut faire dans ce genre de poésie»55. Per salvaguardare la poeticità della scrittura teatrale, la didascalia non ha ragione di esistere, per cui il dialogo deve contenere tutte le informazioni necessarie alla comprensione dell'intreccio e della sua rappresentazione. Così dicendo D'Aubignac autorizza in definitiva solo le didascalie interne o implicite.

L'antagonista principale degli schemi teorici di D'Aubignac è Pierre Corneille. In difesa dei propri lavori drammatici, il drammaturgo del Cid (il suo capolavoro ma anche la sua opera più contestata, per le accuse di plagio e di inverosimiglianza che gli furono rivolte) riordina le proprie riflessioni in tre saggi di teoria drammatica che antepone a ciascuno dei volumi che raccolgono la sua opera omnia (1660). Dei tre, quello che ci interessa maggiormente è il terzo, dal titolo Discours des trois unités d'action, de jour, et de lieu; vi scrive Corneille:



Così sarei d'avviso che il poeta si desse gran cura di segnare in margine le minute azioni che non meritano che ne carichi i suoi versi, e che anzi toglierebbero loro qualcosa della loro dignità, se si abbassasse ad esprimerle. [.] Riconosco che non è l'uso degli antichi; ma bisogna che anche voi riconosciate che, perché non l'hanno praticato, ci lasciano molte oscurità nei loro poemi, che solo i maestri dell'arte possono penetrare56.



Il parlato dei personaggi nelle opere greche, sostiene Corneille, era pesante, retorico, ma soprattutto ridondante poiché sovraccarico di espressioni non necessarie, che possono quindi fuoriuscire dal dialogo ed essere indicate in margine; ma il ragionamento condotto dal drammaturgo francese chiama in causa anche lo sforzo di elaborazione drammatica, a cui l'esigenza di verosimiglianza nuoce in termini di brillantezza e potenza. L'espressione «au- delà du vraisemblable», utilizzata nel primo dei tre discorsi, è da leggersi come una ricusa della dogmatica "depurazione" della Storia, e della presentazione eufemistica dei suoi fatti e personaggi. In nome dell'incolpevole Aristotele, pare essere il sottotesto, le vicende umane sono costrette in un freddo succedersi di dialoghi che nulla ha di verosimile: non i contenuti, né i luoghi,

né lo svolgimento temporale.

Quello di Corneille rimane soltanto un intendimento teorico57; di fatto, in nome dell'ortodossia aristotelica, leggasi ragion di Stato, la copiosa produzione drammatica del XVII secolo preferirà adottare la prima soluzione. Ne sono testimonianza le opere di Racine o di Molière, generalmente prive di indicazioni sceniche esterne alle battute, che hanno fatto parlare Patrice Pavis di «estrema rarità nel teatro classico francese»58. Nondimeno dimostra due tendenze complementari, poste in tensione dialettica e non sempre pienamente coerenti a se stesse59;






1.1.4 L A RIFLESSIONE TEORICA DI D IDEROT



Un secolo più tardi in Francia, mutate le condizioni politiche, culturali e sociali, si ripropone una situazione analoga che ha per protagonista Denis Diderot. Le riflessioni esposte dal filosofo e letterato di Langres nei due saggi teorici scritti in forma di dialogo, i Trois entretiens sur Le fils naturel e il Discours sur la Poésie dramatique suscitarono non poche perplessità e avversioni. Le fils naturel60 è l'ambizioso esordio di Diderot come drammaturgo. Il plot della commedia è incorniciato da due sezioni in cui Diderot assume esplicitamente il ruolo di narratore: un prologo e tre conversazioni tra lo stesso autore e Dorval, il protagonista della vicenda, che si pretende dunque essere un personaggio reale, secondo una struttura a cornice apparentemente assimilabile alle strategie di accreditamento del romanzo settecentesco. Vi si discute la necessità di correggere l'impostazione e la struttura della tragedia domestica e borghese, perfezionare il genere serio, sostituire le condizioni umane ai caratteri, allacciare la pantomima all'azione drammatica.

Si tratta dunque di uno spazio teorico direttamente legato all'intreccio, contenente idee precorritrici, che dimostrano una lucida capacità di porre in relazione la scrittura drammatica, le finalità del teatro e le condizioni materiali della messinscena. Sulla novità della composizione del Fils naturel ha scritto Anna Maria Cascetta:



L'icasticità del quadro si riflette nella valorizzazione della partitura gestuale [.] la cui resa è affidata alle minuziose e numerose didascalie esplicite. Per ogni quadro e all'interno del singolo quadro, il testo "dipinge" con precisione la successione dei gesti. La scansione è puntuale e accompagna la situazione e il discorso. [.] La didascalia guida con uguale puntualità il codice linguistico, segnalando inflessioni, silensi, sospensioni, alti, bassi, pause [.] L'attenzione alla recitabilità è costante61.



Il Discours sur la poésie dramatique, uscito insieme al Père de famille, è invece del tutto autonomo e non allacciato al dramma da nessi compositivi e di contenuto62. Marialuisa Grilli vi intravede, rispetto agli Entretiens, «una più ampia e precisa volontà sistematica»63, in cui, nuovamente, Verità e Verosimiglianza sono parole-chiave, perni di un'idea filosofica informatrice. Pertinenti al nostro studio sono i passaggi in cui Diderot sostiene la necessità di una concreta determinazione ambientale, sociale e professionale dei

personaggi, di un'adeguata caratterizzazione dell'allestimento (da raggiungere con la coralità delle scene e la qualità plastica della rappresentazione) e

soprattutto di una recitazione concertata ove l'intonazione e il gesto si completino e si rispondano. Questo è ciò che Diderot definisce pantomima (§

21); una sequenza gestica o mimica, debitamente scritta e intercalata nel dettato verbale, che assicuri la credibilità e la continuità scenica64. Senza la pantomima

- scrive Diderot - l'autore «non saprà né cominciare, né condurre, né terminare la scena con un po' di verità»65. Usata al posto della declamazione, la pantomima avvicinerebbe l'azione drammatica all'esperienza quotidiana, garantendo una composizione meno schematica, ovvero più fluida e "naturale".

Nella seconda metà del Settecento, le riflessioni teoriche di Diderot (alle quali si possono affiancare quelle, non meno rilevanti, di Beaumarchais), insieme con l'influenza crescente dei generi pantomimici "bassi"66 tornano a porre l'accento sulla preminenza da accordare alla componente visuale. Proprio la familiarità dello scrittore di Langres col teatro popolare ne influenza i toni vivaci e icastici; l'apporto innovativo della drammaturgia di Diderot, di fatto,

consiste in un'esperienza sensibile e visiva dello spazio, cioè dell'ambiente in cui è inserita. Conferma De Marinis: «Le père de famille dimostra che nel frattempo la ricerca diderottiana aveva fatto progressi anche sul piano pratico, spingendo l'autore a più difficili tentativi di scene simultanee, o pantomimiche entrambe (come nel tableau d'apertura) o una muta e l'altra parlata (come nella

prima scena del secondo atto)»67.

Se le indicazioni per l'attore sono così dettagliate è perché Diderot prende coscienza di quanto sia decisiva nel processo comunicativo la relazione visiva tra gli interlocutori; attraverso di esse leggiamo il tentativo di mettere in relazione il punto di vista interiore (il gioco scenico degli attori, centrato nella cubatura del palcoscenico) e quello esteriore (l'unità visuale e plastica della

rappresentazione, per come questa si offre allo spettatore)68.


Benché le teorie estetiche di Diderot sul teatro, come quelle sulla pittura e sulle arti figurative, si caratterizzino per una spiccata attenzione per la gestualità69, la priorità delle azioni sul discorso verbale affermata in un'opera come gli Entretiens non

indica un'abolizione della parola a vantaggio del gesto. Al contrario, la nozione di pantomima rivela l'interdipendenza delle due componenti nella rappresentazione e la comunicazione delle passioni, che

chiama in causa un processo complesso di interpretazione. Poiché la verosimiglianza di un'opera drammatica si può misurare dalla credibilità dell'intera partitura recitativa - dizione, mimica, gestualità - l'autore deve fare leva, nello sviluppo del dramma, sugli aspetti pantomimici per arricchire il discorso verbale: «La pantomima è il quadro che esisteva nella fantasia del poeta quando scriveva; e che egli vorrebbe che la scena mostrasse in ogni

momento quando lo si rappresenta»70. Attratto dal romanzo (pubblica nel 1761

su una rivista letteraria un saggio in cui tesse le lodi di Samuel Richardson), Diderot vorrebbe recuperare alla scrittura per la scena la capacità dei grandi romanzieri di disegnare i sentimenti "a mano libera": «Una delle principali differenze fra il romanzo domestico e il dramma, è che il romanzo segue il gesto e la pantomima in tutti i dettagli; l'autore bada principalmente a descrivere i movimenti e le impressioni; invece il poeta drammatico ne accenna appena, incidentalmente»71.

A metà del Settecento l'interruzione del dialogo è ancora reputata molesta e inopportuna, per i motivi indicati da D'Aubignac, ma è per Diderot non meno necessaria del dialogo e anzi assolutamente indicativa dell'idea di teatro dell'autore. Ancora dal Discours riporto: «Bisogna scrivere la pantomima ogni volta che fa quadro; quando dà energia o chiarezza al dialogo;

quando caratterizza; quando consiste in un gioco delicato che non si indovina facilmente; quando tien luogo di risposta, e quasi sempre all'inizio delle scene»72. È la stessa nozione di messa in scena ad essere chiamata in causa; per mezzo delle indicazioni inserite nel corpo del dialogo, Diderot prova riformulare i principi estetici della grammatica scenica. In effetti, le didascalie all'interno del dramma non sono che la descrizione di un immagine visibile, di un tableau, modello che nella riflessione diderottiana si contrappone al coup de théatre, la cui natura arbitraria, forzata e inverosimile è estranea all'ideale di

verità a cui aspira l'autore: «Un incident qui se passe en action et qui change subitement l'état des personnages, est un coup de théatre. Une disposition des personnages sur la scène, si naturelle et vraie, que rendue fidèlement par un peintre, elle me plairait sur la toile, est un tableau»73.

La nozione diderotiana di tableau (momento tensivo carico di durata, a differenza dell'effetto temporaneo del coup de théatre) si pone cioè a metà tra descrizione e prescrizione, tracciando uno schema visivo il cui valore indiziale è funzionale allo scenografo, agli attori e al lettore del testo drammatico74. Se prima di Diderot il drammaturgo è un poeta drammatico, successivamente il poema si fa partitura, una parte del senso essendosi spostata sul palco, cioè sull'esecuzione. Questa affermazione della didascalia è probabilmente una "vittoria di Pirro"75: la scrittura romantica tornerà ad opporre «all'integrazione nella scrittura drammatica anche della gestualità (la 'pantomima' di Diderot) la potenza della sola parola poetica»76.






1.1.5 M ANZONI , APOLOGIA D EL CORO



Terzo episodio: alla stregua di Corneille e Diderot anche Alessandro Manzoni produce i suoi interventi teorici per accompagnare e difendere la validità delle sue opere drammatiche. La prefazione al suo Conte di Carmagnola, scritta nel 1820 (del Carmagnola si ha notizia fin dal 1816), nasce

come risposta ai numerosi attacchi subiti dal dramma, tra cui quello del critico francese Joseph Chauvet, a cui Manzoni indirizzerà in seguito una monumentale lettera di ottanta pagine77. Con un notevole avanzamento almeno dal punto di vista teorico, nella Prefazione, primo saggio manzoniano di teoria teatrale, si ritrova una descrizione puntuale delle novità introdotte nella tragedia. In particolare, Manzoni spiega la funzione attribuita al Coro, "cantuccio lirico" - la definizione è più che nota - scritto in forma metrica, nel quale l'autore può parlare "in persona propria", per esprimere giudizi o

commenti sugli avvenimenti in corso; in questo dimostrando lo scarto notevolissimo rispetto al ruolo di personaggio collettivo che ricopriva nella tragedia greca, e costituendo una radicale innovazione rispetto al precedente riferimento costituito dalle tragedie alfieriane:



[.] non essendo legati con l'orditura dell'azione, [i cori] non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l'arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici78.



Come le note per gli attori di Corneille e la descrizione dei tableaux di Diderot, le didascalie-coro di Manzoni sono una strategia per accedere all'operatività della scena, introdurvi una voce epica, inserirvi gli elementi che il dialogo non può contenere e, infine, somministrare alla tragedia «un mezzo più diretto, più certo e più determinato d'influenza morale»79. In maniera simulacrale, l'autore, benché si faccia tramite delle reazioni della comunità,

prende posizione sugli eventi rappresentati, penetrando nel significato più

riposto delle vicende al fine di trarne un insegnamento.

Così, in Il Conte di Carmagnola, le sedici ottave del coro inserito tra il secondo e il terzo atto, introdotte dal celeberrimo «S'ode a destra uno squillo di tromba»80, esprimono il messaggio del poeta. Stessa finalità avranno i due cori di Adelchi (collocati tra il terzo e il quarto atto e a metà del quarto): esercizio critico e parenetico, pausa di raccoglimento e di riflessione durante lo svolgimento del dramma81. In una lettera a Claude Fauriel del 6 marzo 1922, Manzoni motiva la necessità di uno spazio in cui collocare ciò che i dialoghi e le azioni non possono contenere82. In altre parole, la poetica drammatica manzoniana assegna al coro - «petit monstre romantique» in decasillabi83 - la peculiare funzione di illustrare didascalicamente l'impianto ideologico dell'opera, nonché il carattere dei protagonisti.

La verosimiglianza dell'opera drammatica, per Manzoni, è minacciata dall'inadeguatezza delle unità di tempo e luogo, che egli, sulla scorta delle riflessioni di August Wilhelm Schlegel84, definisce non-aristoteliche, poiché la falsariga delle dottrine peripatetiche aveva riportato un fatto, una prassi, non una regola a cui attenersi. L'autore deve ritenersi libero di affrancarsene, ponendosi come obiettivo una costruzione scenica coerente e non dovendo rinunciare agli sviluppi lunghi e complessi tipici delle vicende storiche85.

Il richiamo del verosimile e del fine morale come unici ancoraggi dell'invenzione poetica, spinge autori come Manzoni verso un graduale consentimento a una concezione dell'arte drammatica che tende a traguardare

la soglia del rappresentabile. Principio che va nella direzione di una tragedia ultra-scenica, destinata alla lettura (in mancanza di una rappresentazione), e in cui la didascalia-coro rappresenta un punto di vista esterno e intermediale, paragonabile a quello del narratore onnisciente nel romanzo del primo Ottocento. Ma così facendo, concedendosi i testi a una vita autonoma, si è avuto per scrittori come Kleist, Manzoni o Büchner, se non proprio

«un'avulsione dalla prassi scenica»86, l'inclusione in una produzione teatrale

che grandeggia dal punto di vista letterario rimanendo minoritaria dal punto di vista delle messinscene.






1.1.6 I L TESTO DENTRO LA MUSICA



Anche per il teatro musicale è possibile scrivere una microstoria sulla base del contenuto paratestuale. Malgrado il compito esorbiti dalle nostre competenze e dalla misura di questo elaborato (sono consapevole degli scrupoli filologici richiesti a qualsiasi analisi sulla librettistica, condizionata, a tacer d'altro, da inevitabili questioni relative ai rapporti tra partiture ed edizioni a stampa), è impensabile non arrischiare alcune considerazioni sulla componente verbali del teatro musicale.

La straordinaria diffusione ed esportabilità dei drammi per musica, la complessità crescente dei suoi artifici e la dilatazione metatestuale dello specifico operistico sono alla base dell'estensione della scrittura didascalica interna ai libretti. Al di là della convenzionalità del linguaggio, degli equilibri strofici e del mutare delle tematiche, l'evoluzione del libretto segue direttamente l'evolversi della fruizione dell'opera musicale e del sincronico contesto ideologico dominante; intorno alla metà del Seicento il "disordine" dei testi (senza divisione in atti e scene, pressoché privi di didascalie o indicazioni riguardanti lo scenario, l'entrata o uscita dei personaggi, i loro movimenti sulla scena) rispecchia quella che Morena Pagliai definisce «una forma di

dissociazione tra testo e realizzazione scenica»87, peraltro non avvertita come

un problema dagli autori e dai tecnici che curavano la componente scenografica88. Un secolo dopo dignità poetica ed equilibrio delle parti sono

ristabiliti con le circostanziate e minuziose didascalie sceniche di Ranieri de' Calzabigi e soprattutto di Metastasio89 (al secolo Pietro Trapassi), che garantiscono "l'incolumità" del mondo favoloso messo in quadro dal librettista e le sue disposizioni relative all'actio anche nelle numerose trasferte che i drammi affrontavano, uscendo dalla corte per la quale erano composti e raggiungendo le platee europee90. Ne fornisce un esempio una didascalia della Didone abbandonata (dramma per musica in tre atti composto da Giuseppe Sarti e rappresentato per la prima volta nel 1762), che a ragione Sebastiano

Bollato definisce «avveniristica»:



Didone corre a precipitarsi disperata e furiosa nelle ardenti ruine della reggia, e si perde fra i globi di fiamme, di faville e di fumo, che si sollevano alla sua caduta. Il mare si gonfia secondato dal tumulto di strepitosa sinfonia con quel continuo muggito marino che suole accompagnare le tempeste. Si scorge la ricca e luminosa reggia di Nettuno. Nel mezzo di quella, assiso nella sua lucida conca, tirata da mostri marini, e circondata da festiva schiere di nereidi, di sirene e di tritoni, comparisce il nume91.



Indicazione che nella sua eccezionalità mostra un'innovativa e pionieristica fusione della musica con gli accadimenti visivi e un incombente apparato di correlazioni metaforiche che rendono perspicua la situazione psicologica dei personaggi92.

Come scrive Elena Sala di Felice, Metastasio «tende ad elaborare una scrittura drammaturgica che sia altamente disponibile all'alienazione spettacolare, ma al tempo stesso capace di prefigurare tutto lo spettacolo, e

persino una serie di spettacoli dei quali il testo letterario sarebbe la base invariante»93. Ciò avviene con uno «sforzo di coesione semantica tra svolgimento del dramma e decorazione scenica» garantito dalle didascalie che

«costituiscono il discorso diretto dell'autore agli operatori teatrali [.] anche a quelli lontani nel tempo e dello spazio, che avrebbero riproposto su altre scene spettacoli ispirati a qui drammi»94. Le didascalie rappresentano quindi una necessaria licenza che l'autore può permettersi nonostante sia ancora assai sentito l'interdetto della trattatistica secentesca, stando a quanto scrive lo stesso Metastasio:



Vedrà di qual necessario sussidio priverà gli autori drammatici chi togliesse loro (come vuole D'Aubignac ed i suoi seguaci) le note in margine, che istruiscono i lettori delle circostanze che non possono essere esposte che dalla rappresentazione, e che ignorate renderebbero l'azione inintelligibile95.



Infine i libretti ottocenteschi, sempre più dilatati, spalancano un universo allegorico in cui le didascalie diventano indispensabili, non solo per fornire indicazioni di regia, ma anche per tratteggiare lo stato d'animo dei personaggi e l'ambiente che ne determina le azioni. Resosi riferimento imprescindibile per la resa scenica del dramma musicale, il libretto d'opera risente dell'ipertrofia descrittiva del romanzo ottocentesco, rendendosi sovente

contenitore di personali riflessioni di teoria letteraria96; gradualmente si ha una

riqualificazione complessiva di questi testi e consequenzialmente le didascalie tendono a diventare dei "quadri letterari", che instaurano con la musica e il musicista un rapporto diretto97. A ciò si aggiunga che la prassi delle riprese, introducendo la necessità di pubblicare a stampa le scenografie affinché

potessero essere riprodotte, e l'idea di autorialità (raggiunta prima nel teatro d'opera, con Giuseppe Verdi dalla metà dell'Ottocento, che nel teatro di prosa, molto più tardi) condizioneranno sensibilmente l'estensione dei testi98.

Ma se nella prima metà dell'Ottocento il librettista è nettamente subordinato alla personalità del musicista e alle sue scelte, nella seconda parte del secolo, «la questione del primato e dell'originalità del libretto [.] comincia a riproporsi in maniera esplicita»99. Con la statura del librettista cresce anche l'importanza delle didascalie: esse modulano atmosfere, fanno della musica e dei rumori un elemento spettacolare100. Le indicazioni contenute nei libretti di Felice Romani o Gaetano Rossi sono sì estese, ma per meglio assecondare la scrittura musicale e canora, per sostenerla senza mai soverchiarla. Si tratta di indicazioni sceniche lineari e specifiche, che contribuiscono, come ha notato Mercedes Viale Ferrero, alla formazione di modelli esemplari e replicabili, come facevano in ambito scenografico le

architetture sceniche di Alessandro Sanquirico, raccolte e pubblicate negli stessi anni dall'editore Ricordi101. La convenzionalità dei movimenti è indice di una concezione del testo come intelaiatura leggera sul quale impalcare il tessuto musicale e favorire il gusto visivo delle scene102.

Solidi ma spesso sovraccarichi, i libretti richiedono inevitabilmente una sfoltimento nella partitura per la scena; basti pensare all'inaccettabile lunghezza del Mefistofele di Arrigo Boito, datato 1868. Proprio nelle esorbitanti scene di insieme di quest'ultimo, ove si nota una wagneriana amalgama di elementi visivi, auditivi e perfino tattili, o nelle sovrabbondanti e minuziose descrizioni di Luigi Illica - librettista per Puccini e Mascagni - lunghe talora come racconti, è prefigurata quell'erudizione, quell'agitazione sinestetica e quella concitazione sonora che sarà del dramma dannunziano,

gremito di suoni che si vedono e figure che si odono.


1.1.7 C R A IG E LA LI B E R T À DE L R E GIST A



Quel che è dato ricavare dalla moltitudine di ricerche intorno alla nascita della regia moderna, è che questa, come mestiere indipendente e atto creativo superiore, compare nell'Ottocento e agli esordi del secolo successivo comincia a interrogarsi su di sé103. All'interno di un canone storiografico che ha inteso leggere nella transizione tra il teatro d'attore e quello del regista il riflesso di un'organizzazione sociale in trasformazione104, il nome di Edward Gordon Craig evoca immediatamente l'aspirazione a una libertà incoercibile che dentro al lavoro di lettura sa manipolare sollecitazioni artistiche e intellettuali di varia natura, alla ricerca di un pattern estetico coeso e riconoscibile.

Il teatro previsto da Craig (così come quello di Adolphe Appia, a cui è spesso affiancato, in ragione di una non dissimile volontà e padronanza tecnica) è una sequenza di quadri che soggiace al disegno complessivo ideato e messo in pratica dal regista. Ma è un teatro che non ha ancora liquidato il testo come motore della creazione "totale", coreografica, visuale e sonora. L'immagine è in grado di precedere la parola, aggirarla o comprenderla; al regista-artigiano della scena compete la messa in situazione dell'evento sommariamente descritto dai dialoghi, che vanno intesi pertanto come mera ispirazione iniziale di un complesso lavoro immaginativo.

Neanche la figura di Stanislavskij e la misura di Shakespeare possono imporre a Craig di adattare la propria idea di allestimento al testo da rappresentare, e la messinscena laboriosissima e conflittuale di Hamlet per il Teatro d'Arte di Mosca, caso al limite dell'aneddotico, generatore di una bibliografia interminabile105, dice di come fosse ostinata l'affermazione

craighiana dell'autonomia indiscutibile della scena.

Ma già in precedenza - nel 1903 - quando Craig, non più che trentenne, si cimenta con un dramma giovanile di Ibsen ispirato ad una saga nordica, I guerrieri a Helgeland, interpretato da una formazione indipendente capeggiata dalla madre del regista, Ellen Terry, l'approccio non è diverso: «Egli, nonostante Ibsen avesse scritto delle indicazioni sceniche precise per ogni atto trascurò le didascalie e, nel lavoro di mesi per disegnare le scene e i costumi, si fece guidare soltanto dalle reazioni della sua fantasia di fronte al semplice

dialogo dei personaggi»106. Questo modo di procedere trova una formulazione

in uno dei dialoghi di On the Art of the Theatre (1905)107, vero e proprio manifesto teorico che avrà influenza costante su tutta la posterità. Due battute del dialogo tra lo Spettatore e il Regista - alter-ego di Craig - saranno sufficienti a chiarire l'orientamento craighiano:



LO SPETTATORE. Ma cosa c'entra questo con le direttive sceniche dell'autore, in che modo l'autore offende il teatro quando precisa il testo con didascalie?

IL REGISTA. Lo offende perché ne invade la sfera di competenza. Se aggiungere "soggetti" o tagliare i versi del poeta è un'offesa, lo è anche immischiarsi nell'arte del direttore di scena.

LO SPETTATORE. Allora tutte le didascalie in qualunque testo teatrale sono prive di valore?

IL REGISTA. Per il lettore, no; ma per il regista e per l'attore, sì108.



L'intero dialogo, in cui il Regista si impegna a confutare le modeste obiezioni e i luoghi comuni contrappostigli dallo Spettatore, afferma l'autonomia della regia e del linguaggio teatrale, la cui conoscenza costituisce la prassi e la professionalità del regista. Raffrenando l'idea del regista, l'annotazione didascalica delimita e comprime l'arte del teatro, che si esercita nell'azione e nel ritmo, vale a dire nella sintesi di elementi linguistici che si compiono sulla scena. In definitiva Craig, incoronatosi unico responsabile dell'avvenimento spettacolare, introduce implicitamente la distinzione tra testo

drammatico e testo spettacolare, non negando libertà al primo, ma riconoscendo al secondo l'autorità di statuire una dinamica propria, non subalterna alla parola, intesa come deposito di senso109. Il diagramma cinetico- visivo progettato dallo stage director potrà dunque dirsi analogo, o meglio equivalente in termini e validità poetica al testo drammatico»110.

Del resto, sull'asserzione del valore artistico specifico del linguaggio scenico, i riformatori di inizio Novecento concordano unanimemente. Spiega bene Ferruccio Marotti: «Tutti gli elementi che convergono sul palcoscenico subiscono cioè un processo che li scioglie da ogni riferimento esterno all'insieme autosufficiente dello spettacolo, che abolisce ogni significazione realistica e li fonda come puri segni il cui significato deriva esclusivamente

dall'intrecciarsi e dallo svolgersi dei loro mutui rapporti»111.

Il contrappunto a Craig non può che essere George Bernard Shaw, come già annotava Antonio Gramsci:



Shaw difende le sue didascalie lunghissime come aiuto non alla rappresentazione ma alla lettura. Secondo Aldo Sorani («Marzocco» del 1° novembre 1931) queste didascalie dello Shaw "sono precisamente il contrario di quel che Gordon Craig desidera e richiede come atto a ridar vita sulla scena alla fantasia dell'autore drammatico, a ricreare quell'atmosfera da cui l'opera d'arte è sorta e si è imposta allo stesso autore"112.



Molte delle commedie di Shaw (quelle che vanno sotto il titolo di Commedie spiacevoli), affrontando scomode questioni morali e sociali, avevano scarse possibilità di essere rappresentate. Sicché, vista la tiepida accoglienza del pubblico e i duri attacchi della censura, Shaw si convince a cercare un pubblico di lettori, sfoggiando una loquacità briosa, faceta e salace

nell'arricchire i suoi testi con didascalie e ampie introduzioni sui motivi politici ed etici113. Non limitandosi all'elenco delle dramatis personae (come le nitide commedie di Pinero o Wilde), Shaw produce raffinati ritratti psicologici e fisici dalle ridondanti descrizioni non estranee al modello dei romanzi vittoriani, fermandosi anche sulla caratterizzazione vocale dei personaggi, in specie di quelli femminili114: dall'interminabile descrizione con la quale Shaw annuncia l'entrata in scena di Candida nel dramma omonimo, estraggo a titolo di esempio alcune righe:



I suoi modi sono quelli di una donna che ha capito di poter ottenere qualsiasi cosa dagli altri conquistando il loro affetto: e si comporta di conseguenza con istintiva franchezza, senza il minimo scrupolo. In questo è simile a qualsiasi altra donna di bell'aspetto che intenda sfruttare le attrattive del sesso per i propri banali ed egoistici fini; ma la sua fronte serena, l'occhio limpido, la bocca e il mento ben delineati denotano una mente aperta e un carattere dignitoso, in grado di nobilitare la sua furberia nel campo degli affetti115.



Come in alcuni testi quasi coevi di Verga, Ibsen, Cechov, Becque, che addensano nelle indicazioni sceniche i dettagli del gioco scenico e la creazione di un ambiente che comunica la vita interiore dei personaggi116, le commedie del drammaturgo irlandese somigliano a novelle dialogate, tale è la qualità e la consistenza delle didascalie. A giustificazione del suo modo di scrivere, Shaw afferma:



Un'elaborazione letteraria è assai più necessaria per i testi contemporanei che al tempo di Shakespear [sic], perché a quell'epoca la rappresentazione differiva di poco dalla declamazione poetica; e la recitazione provvedeva a quello che ora è garantito dal fondale, dai macchinari e dagli oggetti di scena. Chiunque legga i soli dialoghi di una commedia elisabettiana capisce ogni cosa senza fatica,

eccezion fatta per pochi versi inessenziali; al contrario molte commedie moderne di grande successo non sono soltanto difficili da leggere ma decisamente incomprensibili senza l'impianto visivo del palcoscenico117.



La contrapposizione tra Craig e Shaw verte dunque sulla possibilità di un "teatro da leggere"118. Le pagine di «The Mask», la rivista che Craig fonda nel 1908 a Firenze, offrono all'artista lo spazio per bersagliare quanti ancora percepiscono e consegnano l'atto creativo nelle mani del drammaturgo. Per Craig, come si evince dai numerosi articoli, i margini limitati delle didascalie scritte dagli uomini di lettere sottraggono al dramma spontaneità e ispirazione,

danneggiando inoltre l'attore e confondendolo nella direzione del naturalismo.

Anche Eugene O'Neill, come Shaw, è oggetto della brusca diffidenza di Craig: quando il regista inglese recensisce nel 1928 il dramma Lazzaro rise, biasima in maniera sprezzante «l'abitudine di pubblicare commedie che dovrebbero essere viste e ascoltate anziché lette», e riserva la maggiore ironia proprio alle «limitanti e inefficaci» didascalie di O'Neill119.

Le due divergenti posizioni - la pervicace "resistenza" di Craig alle indicazioni autoriali e l'obbedienza di Shaw ai criteri di leggibilità e convenzienza - attestano come l'autorità del materiale didascalico sia uno dei nodi fondamentali nel dibattito sull'interpretazione scenica. Lo ha ribadito Lorenzo Mango confrontandosi con la posizione di Silvio D'Amico, tesa a circoscrivere l'operatività dell'artista drammatico (ovvero "quello che mette in

scena"120) nel rispetto del testo, delle sue prescrizioni, o eventualmente delle

condizioni "naturali" entro le quali il testo stesso ha visto la luce:

L'artista drammatico (è interessante come D'Amico utilizzi un termine che è a metà fra l'attore e il regista) non dovrà fare altro che eseguire, proprio come in una partitura musicale, quanto dettagliatamente previsto nelle didascalie. Quanto, e se, questo sia possibile ed in che termini, è un problema che il critico non si pone, ma che noi non possiamo fare a meno di ricordare, dal momento che la trascrizione scenica della didascalia drammatica è questione centrale nel processo di affermazione della regia121.



Se è legittimo costruire dialoghi a distanza tra uomini di teatro pure assai lontani, un'esauriente risposta alle tesi di D'Amico è formulata pochi anni prima e con notevole lucidità da Vsevolod Mejerchol'd:



Per quanto concerne le didascalie scritte dall'autore notiamo che l'attore non deve tanto eseguire alla lettera queste indicazioni in ogni particolare, quanto rendere l'atmosfera indicata nelle didascalie [.] Le didascalie non sono obbligatorie nemmeno per il regista, perché [.] dipendono sempre dalla tecnica scenica dell'epoca in cui l'opera è stata scritta. Cosa possono offrire ad esempio, al regista moderno, le didascalie degli editori contemporanei di Shakespeare, quando oggi il regista possiede mezzi di rappresentazione più vari ed una tecnica più raffinata? Le didascalie dell'autore, determinate sempre dalle condizioni della tecnica scenica, non sono affatto sostanziali sul piano tecnico e lo sono invece molto nella misura in cui aiutano a penetrare nello spirito dell'opera122.



Colui che mette in scena - è la posizione, intermedia, di Mejerchol'd - è tenuto ad analizzare quelle indicazioni che l'autore, tributario dell'apparato scenico e del contesto sociale a lui contemporaneo, ha inserito, senza per questo attenervisi scrupolosamente. Tutto quanto si è innervato nelle fibre del testo drammatico deve possedere ai fini dell'esecuzione un valore più

documentario che tecnico, più informativo che normativo.

1.1.8 B R E C H T E LA DISTANZA



Saggiati nel corso delle prime esperienze a fianco di Piscator, e poi formalizzati negli scritti teatrali degli anni Trenta, i postulati brechtiani prevedono che la trazione didattica, morale, culturale esercitata dall'avvenimento teatrale si realizzi principalmente nella forma del racconto (ovvero della narrazione oggettiva) anziché della rappresentazione, ovvero in una drammatizzazione fondata sulla diegesi anziché sull'identificazione mimetica o immedesimazione. Vedremo più avanti come il termine racconto si intrecci a una serie di considerazioni relative alla funzione delle indicazioni sceniche; qui sarà sufficiente notare come la didascalia per Brecht si inserisca in un progetto di "razionalizzazione" che trova il suo solido sostegno in una ideologia costituita: l'effetto di straniamento (Verfremdungseffekt è il termine mutuato dai formalisti russi che Brecht adopera a partire dalla metà degli anni Trenta) è il distacco introdotto tra l'osservatore e la situazione osservata; un allontanamento che tende a spostare l'azione su un piano problematico, talora indecifrabile, suscettibile di una riflessione o di una soluzione.

Per realizzare lo straniamento dello spettatore, il teatro "epico" (da intendersi, aristotelicamente, in antitesi al teatro "drammatico"123) immette nel luogo fisico della scena una essenziale alterità, un disaccordo delle parti, con la presenza di oggetti e strumenti che smascherano la natura fittizia della circostanza: i cartelloni, i proiettori, gli schermi, la presentazione o riproduzione di avvenimenti estranei alle vicende, sono inserti che «escludono un'immedesimazione totale da parte sua [dello spettatore], interrompono una sua partecipazione meccanica»124. Dovendo "mostrare" gli eventi, anziché consegnarli alla reviviscenza della recita, forme paratestuali come prologhi ed epiloghi, didascalie esposte, canzoni dal valore gnomico e commentativo, controllano la finzione scenica in attesa di un investimento intellettuale da

parte dello spettatore.



Cantati come in uno spettacolo di piazza (come avviene nelle numerose sperimentazioni frutto della collaborazione con Kurt Weill) o "sovrascritti" ai quadri scenici, tali testi didascalici si impongono come peculiarità stilistica e "principio epico" della teatralità brechtiana125. Scrive Lorenzo Mango: «Nella drammaturgia brechtiana, il racconto e il dialogo - cioè i materiali letterari - sono accompagnati da indicazioni di azione agita, di costruzione scenica che non sono appunti per una regia futura (come le didascalie ottocentesche) quanto veri e propri elementi costitutivi del dramma»126.

In altri termini, le didascalie brechtiane, usate come fossero sottotitoli e poste in collisione con la loro presunta natura esplicativa, ricoprono un ruolo determinante nella produzione del senso e dell'effetto di distanziamento critico. Il loro contenuto, che l'autore-regista deve trascinare sul palcoscenico sotto forma di presenza intermittente, non solo colma lo scarto tra attore e

personaggio127 e contribuisce a saldare le ellissi spazio-temporali della vicenda

(come in un film muto128), ma apre allo spettatore una via ermeneutica, elevando il dramma dal livello narrativo a quello didattico129.

L'impedimento dell'illusione di realtà (a tutto vantaggio di un atteggiamento "critico") e l'interruzione dell'adesione empatica sono garantiti inoltre dalla recitazione dell'attore, al quale Brecht raccomanda almeno tre accorgimenti: riversare il racconto in terza persona, trasporlo al tempo passato e pronunciare ad alta voce didascalie e commenti:



L'uso della terza persona e del tempo passato consente all'attore il giusto atteggiamento del 'tenersi a distanza'. Egli inoltre inventa didascalie e frasi di commento nel corso delle prove ("Si alzò e disse con rabbia, poiché non aveva mangiato:." [.] o ancora: "Sorrise e disse, troppo impulsivamente:."). Il

pronunciare le didascalie in terza persona fa sì che due diverse intonazioni vengano a cozzare l'una con l'altra, con conseguente straniamento della seconda, cioè del testo propriamente detto. Inoltre viene straniata la recitazione stessa, in quanto avviene dopo essere già stata caratterizzata ed annunciata a parole130.



In effetti, insieme all'originalità del Brecht drammaturgo, è stata spesso sottolineata l'istintività del Brecht regista, creatore di spettacoli o rifacimenti sorprendenti, nei quali «la didascalia e lo scenario hanno spesso maggior importanza del testo, e la parola stessa può essere sostituita dalla mimica»131. Dalla ricchezza delle didascalie, dispositivo che gli consente di "scortare" il testo fino alla perorazione politica, si può quindi intuire sia l'"apprensività" di

Brecht, desideroso di accompagnare i propri drammi fino all'esecuzione scenica, sia la convinta applicazione di un metodo che, anche quando si confronta con capolavori del passato, tende ad «addobbarli di didascalie»132,

che assorbono e modulano valutazioni pedagogiche, figurative, assertive.


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