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La crisi dell'individuo nel Novecento




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La crisi dell'individuo nel Novecento



























Premessa


E' vero che, come spesso si sente dire, oggi stiamo vivendo in un'epoca senza valori? È questo che porta l'individuo e l'intera umanità alla così detta crisi esistenziale?

Voglio partire da qui per sviluppare la mia tesi, considerando ciò che avviene ora, nel XXI secolo, per risalire poi alle cause, alle origini.

Ai giorni nostri siamo continuamente scossi da notizie tragiche, suicidi, omicidi, genitori che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, stragi più o meno annunciate e attribuite a momenti di follia o ad un termine ormai abusato come la depressione. Spesso si sente dire che tutto questo dipende dalla mancanza di quei valori che dovrebbero guidarci e darci una giusta dimensione della realtà. Ma come si può spiegare questa crisi di valori?

Spesso si tende a dare risposte sbrigative e forse troppo semplicistiche del tipo "il mondo cambia", "non è più il mondo di una volta", "gli interessi cambiano con le generazioni". Leggendo interviste di uomini e ragazzi scopriamo che in cima alle loro priorità ci sono gli affetti, la famiglia e gli amici, non la carriera, non il successo, non il denaro. Ma è sugli stessi giornali che leggiamo di ragazzini che uccidono genitori, fratelli, amici, per i motivi più futili, motivi che però portano a distruggere una vita. Magari proprio la vita di qualcuno che fino a poco prima era un punto di riferimento. Leggiamo i sondaggi che ci dicono come molti genitori siano preoccupati dell'avvenire dei loro figli, delle prospettive che la società potrà offrire loro, ma allo stesso tempo sentiamo parlare di quegli stessi genitori che abusano dei figli, che stravolgono le loro vite, che non hanno tempo per fermarsi e chiedere loro "cosa pensi?", o forse lo fanno, ma senza essere veramente interessati alla risposta che ricevono. Si ha l'impressione che quello che sfugge al nostro controllo e alla nostra comprensione crei un senso di disagio, ma perché si arriva a temere così tanto quello che non si riesce a capire e a spiegare?

È possibile che un problema, un'incomprensione, possa diventare un motivo sufficiente per cancellare la vita di una persona che ci è vicina? A dettare questi gesti estremi troviamo spesso un'incapacità di chi li compie ad affermare la propria individualità: è il problema irrisolto della costituzione di un proprio io distinto da quello di chi lo circonda. Questo crea un forte disorientamento e porta all'impossibilità di percepire e definire con chiarezza le propria individualità. Non potersi definire equivale a non esistere, la paura di perdere la propria identità spinge a temere e a sfuggire ogni elemento di disturbo che, mettendo in crisi dei valori già per se incerti, può aumentare il disagio generato dalle proprie incertezze. Ogni situazione che mette in dubbio e destabilizza questa precaria conoscenza di sé mette in dubbio la stessa essenza dell'individuo. La formazione e l'essenza stessa del proprio io vengono vissute come esperienze assolutamente autonome, finalizzate a far prevalere la propria personalità. L'individualità, le proprie esigenze, i propri pensieri, finiscono per prendere il sopravvento su tutto quello che ci circonda. Ciascuno di noi non è più solo una persona, ma è quello che riesce a dimostrare di essere e questo ci carica di una forte responsabilità: rispondere di fronte a tutti delle nostre scelte e dell'indirizzo del nostro pensiero; ma difendere le proprie scelte è un'impresa insostenibile se non si può contare su delle certezze.

Ma ora voglio partire dall'inizio. Come mai l'umanità ha iniziato a perdere fiducia nel proprio io e nei valori portanti della società occidentale?

Il concetto di identità singolare e definita è entrato in crisi lungo il corso della modernità, all'inizio del Novecento, a seguito dello sviluppo degli spazi di incertezza, di arbitrio ma anche di libertà e di scelta individuale. Da qui derivano le difficoltà per i soggetti individuali e quelli collettivi, come popoli, comunità di famiglie, di fondare una propria identità su precisi punti di riferimento, ossia di riconoscersi in un sistema di regole di vita, di valori morali, di aspettative sociali, di visioni del mondo condivise e ritenute valide. La perdita d'identità coinvolge sia la sfera delle percezioni e delle emozioni individuali, sia quella più ampia di un insieme condiviso di valori sociali, etici, culturali, estetici. Poi ancora la crisi dell'individuo coinvolge la sfera metafisica, quella cioè che riguarda i concetti astratti di autenticità e di verità. Ciò che scompare è una visione autentica e una concezione "naturale" dell'esistenza che in passato si risolveva nel ciclo "vita-morte".

Il Novecento è un secolo che raccoglie e sviluppa la crisi di fine Ottocento. Siamo ormai lontani dal determinismo scientifico del naturalismo francese, dall'idealismo assoluto di Hegel e dal giustificazionismo positivista di Comte. La fiducia nelle ideologie dell'Ottocento è venuta meno, Nietzsche sconvolge le ideologie drammatizzando la "morte di Dio": inizia così il declino delle false certezze, l'uomo attraversa una crisi profonda, è solo, atterrito, annichilito, senza senso, non riesce a conoscersi e ad integrarsi in un mondo totalmente sconvolto dalle nuove rivelazioni filosofiche, scientifiche ed artistico-letterarie.




L'urlo che anticipa un secolo


'Camminavo sulla strada con due amici, il sole tramontava, sentii come una vampata di malinconia, il cielo divenne improvvisamente rosso sangue. Mi arrestai. Mi appoggiai al parapetto, stanco da morire.rimasi là, tremando d'angoscia e sentivo come un grande interminabile grido che attraversava la natura'.

[Edvard Munch]


A fine ottocento si sviluppa in ambito artistico la corrente espressionista, i cui esponenti mirano a trasportare dal piano emotivo a quello figurativo il disagio interiore maturato in una società ormai divenuta avversa alla totalità degli uomini.

Ciò che caratterizza gli espressionisti è un uso forte del colore, intriso di angoscia e tormento, atto a mostrare l'interiorità turbata e desolata degli artisti.

Chi meglio, a mio avviso, trasmette figurativamente tale pensiero è il norvegese Edvard Munch (Loten,1863 - Oslo,1944).

Egli ricerca le forze nascoste dell'esistenza, le riorganizza, le intensifica allo scopo di definire, il più chiaramente possibile, gli effetti della vita umana nei suoi meccanismi inconsci e nei suoi conflitti con le altre vite. La sua pittura esprime la solitudine e la disumanizzazione della società borghese, l'angoscia e il senso della morte che segnano la condizione dell'uomo contemporaneo. Tale visione pessimistica nasce a seguito di lutti famigliari e problemi esistenziali che lo portano, nel 1893, a dipingere il suo maggior capolavoro, "Il grido".

Si può parlare di un urlo che anticipa, già a fine dell'Ottocento, il dramma dell'individuo che si svilupperà nel secolo successivo.

Non esiste alcuna mediazione tra mondo dipinto e mondo reale: colori e natura esistono in funzione della percezione interiore, ogni cosa diviene specchio dell'anima.

L'artista cerca di descrivere le proprie emozioni in modo da generalizzarle adattandole alla vita interiore di ogni uomo, l'urlo diventa dunque l'emblema del dolore universale. L'opera rappresenta simbolicamente il tormento esistenziale dell'io, l'irrimediabile perdita d'armonia tra l'uomo e il cosmo, la visione del mondo come un'entità estranea all'esistente.

La creatura in primo piano sbarra gli occhi, tiene le mani alle orecchie per non udire un urlo che è al contempo suo e del mondo circostante. È l'immagine di un qualsiasi essere umano, senza sesso, senza razza, senza età, ridotto ai minimi termini, tanto che il corpo stesso perde forma, ondeggia.

Ciò che si vuole sottolineare è la perdita d'equilibrio: le linee ondeggiano e sembrano essere risucchiate da un vortice; il ponte scivola verso l'osservatore, coinvolgendolo. L'uomo è atterrito, angosciato, annichilito. Non ha volto, non ha identità, non ha sguardo: ciò che resta è l'urlo, unico atto di resistenza in un mondo vuoto, privo ormai di alcun senso, privo di certezze, di riferimenti metafisici, Dio muore, e con lui tutti i riferimenti illusori sui quali si era fondata la società dell'Ottocento.



















Nietzsche e  la morte di Dio


Chi riprende a pieno titolo la visione annichilita dell'esistente è il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (Roecken,1844 - Weimar,1900).

Egli pone in discussione la civiltà e la filosofia dell'Occidente, basata sul cristianesimo, distruggendo le certezze del passato.

Nietzsche sostiene che il cristianesimo non ha mai amato la vita ma ne ha sempre auspicato una nuova, diversa, anzi, del tutto opposta a quella reale. Tale religione, sostiene il filosofo, è ricorsa a Dio come centro di garanzia di una vita così fatta, l'ha annunciata come vera vita, ha avvelenato l'umanità, ha imposto valori contrari all'esistenza reale. La morale cristiana è tipica dei deboli, dei vinti, degli schiavi che, mossi dal risentimento verso tutto ciò che è nobile, bello e aristocratico, dice Nietzsche, non hanno altra arma per combatterlo se non la mistificazione. Questi uomini hanno rovesciato tutti i valori, hanno reso nobile ciò che è brutto, morale ciò che è immorale nei confronti della vita.

Se il cristianesimo è una bugia, un'illusione, allora cosa rimane dopo che la sua maschera è caduta? Niente, un abissale nulla. Con l'annullamento cadono le menzogne di vari secoli, la bugia si mostra per quello che è, un puro nulla.

Nell'opera datata 1882, "La gaia scienza", Nietzsche annuncia la morte di Dio, drammatizzandola attraverso il racconto dell'uomo folle, e con lui muore il cristianesimo e la sua "bugia":



[.] Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: " dove se n'è andato Dio?" - gridò - " ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potremmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l'intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?" [.] " Dio è morto! Dio resta morto! E noi l'abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giuochi sacri dovremmo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di quest'azione?" [.]

"la gaia scienza", aforisma 125.



Cosa significa, dunque, che Dio è morto? L'annuncio dell'uomo folle esprime la condizione dell'umanità nel mondo moderno: l'uomo è isolato, è solo, non ha più speranza, non c'è nessuno che lo possa salvare, oltre all'umanità sta solo il nulla. Si può quindi parlare di deperimento dell'uomo. L'apparenza del mondo vero non ha più significato. Il mondo moderno è succube di una crisi morale, la quale ha portato l'umanità nell'angoscia dell'assurdo ed alla perdita delle certezze ultime dell'uomo. Crollano i valori, il nulla è il fondamento nascosto del mondo, Dio si è rivelato come la più grande menzogna dell'umanità, come simbolo anti-vitale. La quotidianità è nulla, così come il senso dell'esistenza.

L'umanità incontra la decadenza, non esiste più alcuna morale, alcuna distinzione tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Dio è morto, tutto è concesso.

Il cielo è vuoto, i valori, una volta certi, coincidono con il puro nulla; non esistono più valori trascendentali, essi sono stati creati e cancellati dagli uomini stessi. Nulla ha più senso, il mondo raccoglie l'insensatezza. L'essere stesso, fondamento ontologico della realtà, è un niente inserito nel vuoto, viene smaterializzato, si avvicina anch'esso ad essere nulla. L'umanità, nell'avvento della decadenza, sprofonda nel più completo nichilismo. Si tratta di un eterno precipitare, senza direzioni, verso il nulla.

Nietzsche vede appunto il nichilismo come 'la volontà del nulla', realizzato attraverso un atteggiamento di fuga e di disgusto nei confronti del mondo reale, concreto, terreno.







La filosofia dell'esistenza


La filosofia esistenzialista, nata in Germania e in Francia attorno agli anni trenta del Novecento e basata sull'analisi dell'esistenza umana, riprende il pensiero di Nietzsche, criticando le tradizioni morali e metafisiche occidentali e opponendovi il pessimismo tragico.

Non sorprende dunque che l'esistenzialismo sia stato definito come "filosofia della crisi": perso ogni ottimismo e smarrita ogni fiducia nella religione, nella ragione, nella scienza e nella storia, non resta che un'immagine di uomo la cui vita è contraddistinta esclusivamente dalla finitudine, dall'incertezza, dalla contingenza e dal rischio. L'attenzione quasi esclusiva che la riflessione esistenzialista ha posto sui caratteri della negatività e della distruttività, interpretati come atti peculiari della vita umana, ha fatto in modo che tale filosofia fosse presa in considerazione come summa della crisi dell'individuo nel Novecento.



Jean Paul Sartre (Parigi,1905 - 1980)


Cresciuto ed istruito secondo un'educazione isolata ma di alto livello, il filosofo esistenzialista per eccellenza si forma da solo, è autodidatta, e pubblica una biografia nel 1964, "Le mots", titolo che mira a sottolineare la consapevolezza singolare dell'uomo nel comprendere che il suo destino è fatto di parole.

Fino al suo primo romanzo, "La Nausea", datato 1938, si pensava che il giovane Sartre fosse destinato all'attività di romanziere, ma con la pubblicazione di "L'essere e il nulla", 1943, tale visione si capovolge, mettendo in luce anche il lato estremamente filosofico presente nei romanzi precedenti. Da qui Sartre sviluppa tesi sempre più esistenzialistico-filosofiche e, ricevendo accuse da fronti comunisti, marxisti e anche cattolici, redige il trattato "L'esistenzialismo è un umanesimo" come difesa.




La nausea e la crisi Sartriana


Prima di considerare le complessità di un romanzo come "La Nausea", che racchiude le tesi fondamentali di Sartre, è necessario chiarire anzitutto cosa l'autore intenda con il termine Nausea. La Nausea è il sentimento della coscienza che, di fronte alla pura contingenza, di fronte all'esistente, prova angoscia. L'esistenza ci pervade completamente, al punto che le cose, la realtà fattuale, l'insieme di fatti bruti, "opachi", insignificanti, contingenti e gratuiti, l'in-sé sartriano, hanno un'incidenza enorme sulla coscienza, il per-sé: le sensazioni suscitate dalle cose sono anzitutto ribrezzo e disgusto, giustificati dal fatto che ciò che ci circonda ci tocca, nostro malgrado, e ci opprime. Gli oggetti che quotidianamente osserviamo intorno a noi costituiscono un "troppo", possiedono una tale pienezza e "gonfiezza" da risultare soffocanti e ributtanti. Ecco come il protagonista del romanzo-diario, Antoine Roquentin, che poi è lo stesso Sartre, stabilitosi per tre anni a Bouville, luogo in cui si svolge la vicenda, per completare le sue ricerche storiche sul marchese di Rollebon, vissuto in epoca settecentesca, sperimenta per la prima volta la Nausea, e la descrive così:


"[.] La Nausea m'ha colto, mi son lasciato cadere sulla panca, non sapevo nemmeno più dove stavo; vedevo girare lentamente i colori attorno a me, avevo voglia di vomitare. [.] Da quel momento la Nausea non m'ha più lasciato, mi possiede. [.]".


In queste poche righe si nota molto chiaramente come questo tipo di sentire coinvolga sia la parte sensibile che quella razionale, la consapevolezza, della coscienza dell'individuo. La condizione umana viene a configurarsi, quindi, come un solitario ed angoscioso sperimentare le cose che sono intorno a noi, giungendo sino a provare ciò che l'autore chiama "orrore di esistere". Nausea è la presa di coscienza da parte di un individuo di trovarsi estraneo al mondo. A questo punto la Nausea non si configura più come uno stato doloroso transeunte,

" [.] ma non la subisco più, non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io stesso. [.]".

Nella scena seguente, che si svolge nel giardino pubblico, Roquentin osserva la radice di un castagno e solo in quell'istante si rende conto di aver compreso la vera natura delle cose, vale a dire la loro insensatezza e la sensazione di soffocante ingombro che esse suscitano. Se ci si muove tra le cose in completa ovvietà, dice Sartre, vedendo le cose come un tutt'uno fuso, uno sfondo uniforme, un muro, la Nausea non si presenta. È il punto di vista nuovo, non ovvio e quotidianamente accettato dagli uomini che porta l'individuo a smascherare l'assurdità dell'in sé. La  solitudine in cui è immerso il protagonista consentirà a quest'ultimo di prendere le distanze dall'inautenticità del mondo.

"[.] Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso. [.] Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire "esistere". Ero come gli altri, quelli che passeggiavano in riva al mare nei loro abiti primaverili. [.] Se mi avessero domandato che cosa era l'esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d'un tratto era lì, chiaro come il giorno: l'esistenza s'era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell'esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s'era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine - nude, d'una spaventosa e oscena nudità. [.] Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. [.] Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quotidianità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose. [.] E io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. [.] Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. [.]".

Cosa scopre dunque Roquentin? La contingenza, l'insignificanza, l'assurdità del reale, la mancanza di qualsiasi ragione dell'essere. La routine, l'ovvietà della vita di tutti gli uomini diventa soffocante di fronte ad una visione più minuziosa delle cose. La soggettività deperisce, l'individuo non ha più ragione d'esistere, ma allo stesso tempo di non esistere. Tutto è esistente, senza senso, dà la Nausea.                         A questo punto credo di essere riuscita a definire, sia pure in modo sommario, il concetto di Nausea; l'individuo appare dunque solo, sperduto, disgustato dal mondo in cui vive e non sa come comportarsi. Non vi è speranza di uscire da tale condizione di insensatezza, bisogna quindi distruggere la speranza, se si vuole comprendere, ma soprattutto vivere pienamente l'autenticità dell'esistenza. L'autenticità si conquista oltrepassando il muro dell'indifferenza e del conformismo, baratro pronto ad accoglierci in ogni istante.

"[] Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi viene il voltastomaco e tutto si mette a fluttuare . ecco la Nausea. [.]".

Ecco la percezione della mancanza di un qualche Essere necessario che possa spiegare l'essere del mondo e i suoi drammi. L'esistenza precede l'essenza, l'uomo è gettato nel mondo, non esiste più un Dio che garantisce il nostro esserci. Ci siamo, esistiamo, ma non siamo nulla all'inizio della nostra vita. Siamo solo pura contingenza.

Se davvero Dio è morto, come scriveva Nietzsche, allora non è più possibile appigliarsi ad una realtà oggettiva o scientificamente sicura, in quanto essa, insieme con la nostra esistenza, può essere manipolata. Non esistono più valori morali, le azioni degli uomini non possono essere giudicate, l'orizzonte rimasto all'umanità non trascende più il mondo terreno, è umano.

L'uomo è solo ciò che si fa. L'uomo si progetta, è libero, non è più condizionato da alcun Essere, e ciò significa che la libertà implica anche una certa quantità di responsabilità.

Ogni individuo è pertanto solo ed esclusivamente il risultato delle proprie scelte: se la sua vita ha un senso è perché egli ha dato un senso alla propria vita. In pieno nichilismo, il rapporto tra essere (esistenza) e nulla (infondatezza dell'esistenza stessa) non trova mai una sintesi, ma l'uno rimanda dialetticamente all'altro, senza soluzioni definitive.

In conclusione, ogni esistenza umana si configura come progetto, inteso come realizzazione di se stessi in quanto se stessi; tale progetto, tuttavia, non è mai statico o già prestabilito; esso, invece, può essere stravolto, modificato dalle condizioni esterne o interne all'individuo. Può accadere che un progetto, che l'individuo aveva in precedenza realizzato e plasmato in ogni sua parte, vada incontro alla sconfitta: ciò significa che un progetto realizzato smette di essere valido nel momento in cui esige di essere superato per lasciare spazio ad un altro, magari più valido e più compiuto. In quest'ottica, sembrerebbe che la condizione umana descritta da Sartre sia veramente una delle più angosciose e disperanti e che non offra alcuno spiraglio di serenità.

È qui racchiuso, a mio avviso, la crisi dell'individuo, il dramma dell'esistenza, tragedia, questa, che genera un'intollerabile angoscia, causata dall'imprevedibilità della propria libertà, ossia la certezza che ogni decisione è revocabile e che ogni regola stabilita può essere infranta perché liberamente scelta. Per "angoscia" l'autore intende il continuo mettersi in gioco, lo scoprire se stessi come fonte inesauribile di infinite possibilità, che si scontra, in ultima analisi, con un solo limite invalicabile: la morte. Essa, però, non riguarda e non appartiene all'orizzonte umano della libertà; si configura invece come un fatto assurdo che rende assurda ogni scelta di vita; al di là di questo, comunque, siamo perfettamente liberi. Tornando al concetto dell'angoscia, è opportuno precisare che essa si differenzia nettamente dalla paura: quest'ultima, infatti, consiste nel temere questo o quell'altro oggetto in quanto minaccia la posizione o la vita del per-sé. L'angoscia, al contrario, è il sentimento provato dalla coscienza che teme per la sua libertà.

Diversamente, ciò che l'autore indica con il termine di vertigine scaturisce dal per-sé, il quale è consapevole del fatto che esso può auto-distruggersi. Tra tali situazioni emotivamente devastanti, la funzione dell'uomo è essenzialmente questa: tentare di dare un senso ed una giustificazione alla propria esistenza, scegliendo in ogni istante come vedere e considerare il mondo. Egli è responsabile del suo farsi, è sforzo perpetuo, è creare il senso della propria vita per poi scoprire che quest'ultima, in se stessa, non ha alcun senso: tutto ciò rientra a pieno titolo nel tema dell'assurdo, di cui è intrisa l'intera opera sartriana. Assurdo è il fatto stesso di non potere fare a meno di essere libero, in quanto la non-scelta è, a sua volta, una scelta.

Non esistono vie di fuga.






The theatre of the absurd


Sartre said there is no possibility to escape from the human condition.

The existentialism is really linked to the "theatre of the absurd".

This term is coined by the hungarian critic Martin Esslin. The term refers to a particular type of play which first became popular during the 1950s and 1960s and which defines the human condition as basically meaningless.

The most important characteristics of this kind of theatre are the deliberate abandonment of a rational series of phrases and the refuse of the logical consequential language.

The traditional structure composed by the events and their development is rejected and substituted with an analogical succession of events, the one linked to the other with a fleeting sketch, like an emotion or a state of nature.

The theatre of the absurd is characterized by meaningless repeated dialogues, built up without logical connections and full of pauses and silences to involve the audience and make them think about the human condition.



Samuel Beckett (Dublin,1906 - 1989)


Samuel Beckett is probably the most important personality of the theatre of the absurd. In his dramas the most important aspects are the lack of communication, the loneliness of men, the isolation and the suspension of every kind of judgment and meaning.

Beckett's most important work is "WAITING FOR GODOT", written first in French, in 1952, and then translated in English, in 1954. This new way of writing by which Beckett builds up his work is very important. He wants to simplify his language to take off  a dialogue very simple and easy to understand. Beckett is advantaged in writing in a simple way thanks to the fact that first he writes his work in French, a foreign language in which he has to find different way of communicate and so he's forced to simplify.

First of all, "Waiting for Godot" is a drama about an endless waiting but also a drama about doubt and confusion. We can define it as an emblem of an intellectual pessimism trough which the writer condemns the absurdity of the modern world.

The drama presents two tramps, Vladimir and Estragon, that are constantly waiting for Godot. They know nothing about him, not even if he will come. Their dialogues are empty and meaningless, they are always waiting for Godot and they speak just to fill the silence and to kill the time.

The two characters, Didi and Gogo, depend one on each other. They also depend on the future. They have no personality, their life can be meaningful only with Godot's arrival. Godot doesn't arrive, their life will always be meaningless, they have no future, no hope.

There are few information about the location, it's maybe a mystical place or a magical one, we don't know. It can be placed everywhere in the world and in every time. We only know that there is a little hill, a country road and a tree without (or with?) leaves. The two tramps don't know where they are, why they are there and, because of a strange conception of time, they also don't know how much time they spend in that vague place. Time is meaningless, in fact the two tramps return to the same place every day. The plot unables us to understand how long they are going to wait for this mysterious being. Time is chaos. Beckett wants to speak about the world of chaos, the word of confusion and emptiness. He wants people to know about pain; he believes it's all around us and that men can't escape suffering during their life. Tears of world are a constant quantity. We born, we suffer and we die. This is life. Why is there this sufferance? There is no answer, there is no explanation, everything happens by chance. World is dominated by chaos and maybe it's the chaos itself to make us suffer.

The story is built up symmetrically. It's composed by two acts, perfectly similar. The substance doesn't change in both acts: two tramps, Didi and Gogo; other two characters, Pozzo and Lucky, enter on the stage and go away; a boy arrives to tell Estragon and Vladimir that Godot will arrive the next day; the night comes, the two tramps speak about the possibility to kill themselves and about separation but they don't do anything.

It isn't hard to understand why this drama belongs to the theatre of the absurd.

The only reason Didi and Gogo,as well as all humanity, have to live is to look for something that would explain the meaning of life. This is all a big illusion because this "something" is not real; Godot is not real, he won't arrive; people are needlessly waiting for this explanation, people are condemned to live with the nonsense inside and out of them.

Se questo è un uomo


Così come Jean Paul Sartre e Samuel Beckett, anche Primo Levi (Torino, 1919 - 1987), ha vissuto a cavallo della seconda guerra mondiale. Ma al contrario dei primi due, Levi ha vissuto in prima persona le conseguenze del regime nazista. Egli era ebreo e come tale fu tenuto prigioniero nel campo di Fossoli, nelle vicinanze di Modena. Solo nel 1944, quando i tedeschi presero il controllo delle operazioni del campo modenese, il chimico e tutti gli altri prigionieri furono trasportati nei campi di concentramento in Germania ed in Polonia. Levi fu classificato come chimico e di conseguenza fu destinato al campo di Monovitz, un campo dove si produceva il "Buna", un sostitutivo sintetico della gomma naturale. Nonostante i prigionieri di Monovitz si considerassero più fortunati di quelli destinati ai campi di morte, le condizioni di vita non erano per nulla migliori.

In una sua poesia del 1946, "Il tramonto di Fossoli", Primo Levi definisce la sua concezione di "sapere":


"Io so cosa vuol dire non tornare,

e attraverso il filo spinato,

ho visto il sole scendere e morire,

ho sentito lacerarmi la carne,

le parole del vecchio profeta:

"Possono i soli cadere e tornare:
a noi, quando la breve luce è spenta,
una notte infinita è da dormire"


"Sapere" per lo scrittore coincide con il vedere ed il sentire, provare fisicamente, vedere pensieri di morte e sentire le parole nella propria carne. Noi lettori e uomini di generazioni successive, possiamo solo sforzarci per arrivare ad un intuizione, allo sdegno, alla commiserazione, ma il sapere è tutta un'altra cosa, puramente fisica, vissuta e un qualcosa che permane nell'animo di chi ha vissuto la tremenda esperienza del Lager. È dunque molto difficile, se non addirittura impossibile, conoscere in maniera profonda ed intima ciò che ha provato chi nel Lager è stato rinchiuso, chi una volta libero ha sentito in sé svegliarsi la coscienza e ha capito cosa significa esserne privati. "Sapere" è, secondo Levi, vedere davanti a sé un uomo che tenta di ridurre la tua vita ad una condizione bestiale. Eppure chi compie l'azione è un uomo, dovrebbe essere un uomo, non l'incarnazione della malvagità e della potenza distruttrice, non un demone, come lo sono stati gli agenti delle SS o più in generale, i nazisti della Germania del XX secolo.

"Se questo è un uomo" nasce dall'uomo, ma non è opera della sua fantasia, è la trasposizione della sofferenza, della disumanizzazione, dal Lager a delle pagine macchiate di sangue e di coraggio.

Levi scrive "Se questo è un uomo" tra il dicembre del 1945 e il gennaio del 1947, dopo il suo ritorno dal campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, per raccontare al mondo, urlare al mondo, gli orrori e le follie che ha vissuto durante la sua permanenza nel Lager. Il romanzo si apre con una poesia, commento sull'umanità e suggerimento per come gli uomini dovrebbero vivere, dimostrazione di quanto possa essere capace la follia e la crudeltà umana e di come un individuo possa essere privato della sua identità e dignità, dei suoi semplici diritti che lo rendono un uomo:


Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d'inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.


L'intero romanzo pone il lettore nella condizione di comprendere che tipo di disumanizzazione sia stato l'olocausto, è la testimonianza più dolorosa e crudele della crisi esistenziale dell'uomo nel secolo scorso.

Nell'opera maggiore di Primo Levi viene descritto il periodo di prigionia compreso tra due terribili inverni nord europei, inverni durante i quali l'autore vede numerosi suoi compagni morire di stenti a causa delle proibitive condizioni ambientali, del precario stato igienico e sanitario del campo, del lavoro forzato e massacrante a cui venivano sottoposti.

Quello che Levi ci vuole mostrare è come il sistema del Lager sia organizzato e finalizzato all'annientamento della dignità umana. All'interno di questo progetto di distruzione, l'uomo non riesce più a provare pietà, non conosce più l'amicizia, la ribellione e la speranza: è un essere annientato, una bestia. Ciò che resta tra le possibilità di questi miseri uomini è curarsi, assurdamente, di non morire. Per questo occorre lottare, combattere per mantenere in piedi un mucchietto d'ossa, senz'altro scopo che non sia quello di aggiungere sofferenza alla propria condizione.

Levi non si sofferma a condannare le guardie naziste, va oltre, più in profondità, parla degli uomini come lui. Racconta di deportati, di uomini diventati inetti, di uomini privati di tutto.

Appena entrano nel campo i prigionieri intuiscono in quale inferno sono arrivati: assetati dopo tre giorni senza poter bere sono messi in una baracca con un rubinetto, dal quale però fuoriesce solo acqua inquinata. Le differenze individuali vengono subito eliminate: sono rasati, vestiti con misere casacche lacere tutte uguali, solo quelle nel freddo inverno polacco. Viene tolto loro anche il nome: vengono infatti marchiati a fuoco, come bestie, con un numero che sarà il loro unico simbolo di riconoscimento.

I prigionieri sono distrutti come esseri umani. Nel lager non c'è spazio per la solidarietà: arrivare vivi il giorno successivo è la cosa più importante per ogni prigioniero, nessuno pensa al futuro o ha illusioni, non c'è tempo di pensare, di riflettere su ciò che si è diventati.

L'autore divide i prigionieri in due categorie: i sommersi e i salvati.

I sommersi sono gli inetti, coloro che non sanno adattarsi all'ambiente del Lager e soccombono perché eseguono passivamente tutti gli ordini, non sanno una parola di tedesco e non riescono quindi a districarsi tra regolamenti e proibizioni. Alla categoria dei sommersi appartiene la maggioranza degli internati, una massa anonima di esseri vuoti, stanchi, indifferenti.

I salvati sono gli individui che Darwin avrebbe definito gli adatti: i forti, gli astuti, coloro che riescono ad "aguzzare l'ingegno, indurare la pazienza, tendere la volontà". Essi cercano di migliorare la loro condizione a tutti i costi, perché da un incarico o da una mansione specialista deriva sempre qualche forma di privilegio e quindi una possibilità in più di sopravvivere. Sono inoltre organizzati, nel senso particolare che la parola assume all'interno del Lager, sono coloro che riescono ad escogitare degli espedienti per procurarsi cibo o altri articoli che possono essere scambiati con i metodi dell'antico baratto.

Lo stesso Primo Levi è un salvato. Grazie ad alcune circostanze fortunate, come una ferita al piede e la scarlattina, trascorre alcuni periodi in Ka-Be, l'infermeria, al riparo dal freddo. Grazie alla laurea in Chimica, è ammesso a lavorare al laboratorio come operaio specializzato.

Essere un salvato, in qualunque caso, non significa però essere un uomo, vuol dire saper solo escogitare qualcosa per evitare la morte.

Negli ultimi giorni di prigionia, Levi cerca di rendere il meglio possibile l'idea del Lager come una realtà infernale. Gli uomini malati vagano come vermi strisciando tra cadaveri e sterco. Gelati, nudi ed affamati non sembrano più persone ma larve alla ricerca di un po' di calore, esseri apparentemente fuori da questo mondo..e invece no, si tratta di esseri di questo mondo, del nostro mondo, esseri che hanno solcato proprio questa terra, ricoperta da quei cadaveri che, un tempo, sono stati uomini sani e reali.

L'inferno è una creazione umana.









Indice









ARTE:            Munch, "l'urlo". Il grido che anticipa la crisi del '900.



FILOSOFIA:               Nietzsche, aforisma 125 di "La Gaia Scienza". La morte di Dio e il crollo dei valori cristiani. L'eterno precipitare.


Sartre, l'esistenzialismo ateo:

"La Nausèe" e le massime della crisi sartriana.



INGLESE:                  Samuel Beckett, the theatre of the absurd:

"Waiting for Godot"



ITALIANO:                Primo Levi, "Se questo è un uomo". Lager come emblema della disumanizzazione di massa.









Bibliografia







Adorno, P. & Mastrangelo, A., "dell'arte e degli artisti". vol. 4, G. D' Anna.

"i classici dell'arte, il Novecento", supplemento al Corriere della Sera, Rizzoli, Skira.


Friedrich Nietzsche, "la gaia scienza", §125.

Jean Paul Sartre, "la nausea". Trad. Bruno Fonzi, Einaudi.

Mauro, W., "invito alla lettura di Sartre". Mursia.


Spiazzi, M. & Tavella, M., "lit & lab". vol. 3, Zanichelli.

Samuel Beckett, "waiting for Godot".


Primo Levi, "se questo è un uomo".

Scarica gratis La crisi dell'individuo nel Novecento
Appunti su: https:wwwappuntimaniacomumanisticheletteratura-italianola-crisi-dellindividuo-nel-nov24php, la crisi dell uomo nel 900, la crisi esistenziale dell27uomo nel 900 riassunto, autori del 900 crisi dei valori, crisi di identitC3A1 900,



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