Italo
Svevo: Vita e pensiero
Il suo vero nome è Aron Hector Schmitz, nasce
a Trieste il 19 dicembre 1861, da un padre ebreo di origine tedesca (il nonno
Astolfo era giunto a Trieste come funzionario dell'impero asburgico) e da madre
italiana, porta in sé questo carattere di estraneità che è tipico anche in
altri scrittori ebrei: Kafka, Musil, Proust, Rilke, Freud, la cosiddetta
'famiglia ebraico-cristiana'. Cresce cittadino austriaco fino al
1918, viene educato in un collegio tedesco (1874-78), vive in una città di
confine come Trieste, marginale alla cultura italiana e a quella austriaca, ma,
a causa dei traffici commerciali e della sua posizione geografica,
profondamente immersa nella mentalità mitteleuropea (Vienna, Budapest, Praga)
da partecipare di fatto, al di là delle differenze linguistiche e dei
sentimenti irredescentistici. In questa città, 'crocevia di più
popoli' e 'crogiulo europeo', Svevo si forma una cultura poco
italiana e molto europea: legge francesi, tedeschi, russi.
Lo pseudonimo di Italo Svevo indica comunque
la sua consapevolezza di appartenere a due tradizioni culturali, quella
italiana e quella germanica. Rimane 18 anni impiegato alla Banca Union
(1880-1898); sposa nel 1896 la ricca Livia Veneziani e lavora nel colorificio
del suocero (vernici sottomarine). Nei primi anni del secolo (1907) conosce
l'irlandese Joyce, esule a Trieste, che gli dà lezioni di inglese e con il
quale stringe una feconda amicizia letteraria (Joyce ha scritto Ulisse,
Dedalus, Gente di Dublino ed è un esperto del 'flusso di coscienza'
automatico e del racconto analitico). Negli anni 1910-12 scopre la psicanalisi
attraverso le opere del viennese Sigmund Freud, anzi con un nipote medico
traduce Il sogno. Subisce l'influsso del filosofo tedesco Schopenhauer. Nel
1925-26 esplode il 'caso Svevo' in Francia e in Italia. Muore nel
1928 a Motta di Livenza per un incidente d'auto.
In Svevo è caduta ogni funzione sociale e
ideologica della letteratura: essa è attività privata, un vizio (almeno
rispetto al mondo degli affari). L'autore stesso la praticò in questo modo,
senza illusioni e con molti disinganni, fino a pensare seriamente di
abbandonare, dopo l'insuccesso del secondo romanzo. I protagonisti dei tre
romanzi sono dei letterati falliti: Alfonso scrive un romanzo a quattro mani
con Annetta e, alla fine, si suicida (Una vita); Emilio è ancora una volta un
letterato annoiato e deluso (Senilità); Zeno Cosini entra in scena con un
diario che è definito dal dottore un cumulo di 'tante verità e
bugie', creando così le premesse di una ambiguità che svuota le stesse
possibilità di un racconto reale (La coscienza di Zeno).
Perché scrivere allora? La funzione si
capovolge: non più estetica o sociale, ma conoscitiva e critica.
L'intellettuale, identificato ormai con l'inetto, il diverso, il malato, il
nevrotico, ricorre alla letteratura, estraniandosi dall'attività economica e
dai modelli sociali, per recuperare la misura della sua esistenza, mediante
l'autoanalisi, e dei rapporti sociali. È una conoscenza frammentaria e
disorganizzata della realtà, ma lo scrittore, ponendosi sul piano dell'ironia,
prende le distanze dal mondo dei 'sani' recupera una sua parziale
autonomia, può esercitare la tolleranza verso di sé e gli altri.