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Italo Svevo - Cenni all'evoluzione del romanzo, Italo Svevo: la vita, Le prime opere: Una vita, Senilità, La coscienza di Zeno, Le ultime opere




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Italo Svevo



Abbiamo già avuto modo di trattare due autori, Pascoli e D'Annunzio, a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento. Successivamente, per linearità, siamo passati alla seconda generazione di poeti decadenti (futuristi e crepuscolari), poiché essi hanno subito, in diversa misura, proprio l'influenza di Pascoli e D'Annunzio.

Ora completeremo il quadro con due altri autori importanti: Svevo e Pirandello, appartenenti pressappoco alla stessa generazione di Pascoli e D'Annunzio, ma trattati dopo gli esponenti della seconda generazione per seguire un ordine cronologico più relativo alle opere che anagrafico.




Cenni all'evoluzione del romanzo


Con Svevo, dopo un esordio legato ancora a modelli ottocenteschi, pur non privi di originalità, si assiste alla nascita del primo romanzo psicologico in Italia.

Già in Europa il romanzo manifestava significativi cambiamenti (Joyce, Woolf, Proust) staccandosi dagli schemi ottocenteschi per i quali gli eventi, la storia (fabula), occupavano comunque uno spazio predominante.

Nelle precedenti lezioni si è già fatto cenno all'evoluzione del romanzo a partire da quello storico, che concilia oggettività e soggettività, vero e verosimile; come è noto, subito dopo il 1848 si assiste a diversi sviluppi:

  1. si passa progressivamente ad un attualizzazione del contesto storico in cui si svolge la storia, filone che conduce fino a Verga e al Verismo,
  2. parallelamente alcuni autori (Nievo e Tommaseo) sviluppano anche l'approfondimento psicologico, pur sempre entro modelli e schemi ottocenteschi.

La novità del romanzo del Novecento è da intravedere, tuttavia, proprio dal fatto che tutto si svolge esclusivamente sul piano soggettivo (si ricordi una caratteristica fondamentale della poetica decadente: la centralità dell'uomo come soggetto), l'evento quindi passa in secondo piano; ne consegue che spesso non vi è una storia vera e propria.

L'evento conta non come "fatto" in sé, diversamente dal verismo, ma solo per come è vissuto dal protagonista, quindi non si rincorre una pretesa oggettività, nella consapevolezza dell'impossibilità di raggiungerla: ogni fatto è riportato per come lo vede o lo vive il protagonista. Di qui anche la compresenza di punti di vista diversi nel presentare eventi e personaggi, per il concetto stesso di relatività del vero.

Subentra inoltre una nuova modalità nella presentazione del ricordo: il "recupero della memoria", non procede più per ricostruzione logica e razionale, ma attraverso il riaffiorare, involontario, di flashback legati a sensazioni, odori, gusto, emozioni (si veda Proust).

La stessa tecnica narrativa si arricchisce di nuove modalità: il monologo interiore e il flusso di coscienza (stream of consciuosness):

il primo introduce stati d'animo e considerazioni di un personaggio senza la mediazione del narratore;

il secondo consente di esporre il susseguirsi dei pensieri di un personaggio per libere associazioni di idee e di mettere in risalto, in tal modo, le sue dinamiche psicologiche.


Anche il romanzo si appropria di una caratteristica tipicamente decadente: la frammentarietà. Ecco perché si prediligono forme come il diario, le lettere ecc.






Italo Svevo: la vita



Aron Hector Schmitz, il futuro Italo Svevo, nasce a Trieste il 19 dicembre 1861 da Francesco Schmitz (figlio del funzionario imperiale austriaco Adolfo Schmitz) e da Allegra Moravia, quinto di otto figli. Trascorre l'infanzia a Trieste libero da preoccupazioni economiche ed in un'atmosfera gaia e affettuosa malgrado il padre, che, commerciante nel ramo vetrario, non era molto incline alle affettuosità, in particolare nel rapporto con i figli.

In questo periodo Trieste fa ancora parte dell'impero austro-ungarico, nonostante la massiccia presenza degli irredentisti che vorrebbero annetterla al neonato regno d'Italia

Francesco, pur sentendosi italiano, ammira la cultura tedesca. Volendo che i figli diventino esperti uomini d'affari manda all'età di dodici anni Ettore e i due fratelli Adolfo ed Elio a studiare in collegio a Segnitz, in Baviera, perché credeva che il tedesco fosse una lingua indispensabile per ogni commerciante triestino. Elio non regge ai rigori del clima e della disciplina perciò presto rientra in famiglia. Ettore riesce invece ad acclimatarsi, ed in pochi mesi impara la lingua, appassionandosi alla letteratura di quel paese (legge Schopenhauer, Jean Paul, Richter e in traduzione Shakespeare e Turgenev). Poco incline ai commerci inizia a scrivere, dando vita con i compagni di studi ad un circolo culturale.

In questo periodo conosce anche il primo amore: quello per Anna Hertz, della quale scriverà in L'avvenire dei ricordi. Nel 1878, terminati gli studi, ritorna a Trieste, dove s'iscrive all'istituto commerciale Giuseppe Revoltella, peraltro senza troppo entusiasmo.

In realtà, le sue aspirazioni segrete sono la letteratura ed un viaggio a Firenze per apprendere dal vivo una corretta lingua e pronuncia italiana. L'educazione tedesca e l'utilizzo del dialetto triestino, infatti, non gli hanno permesso di acquisire una soddisfacente padronanza dell'italiano, lingua cui peraltro non sarà mai disposto a rinunciare.

Il 2 settembre 1880 dà inizio ad una collaborazione con il giornale irredentista triestino 'L' Indipendente' sul quale, per dieci anni, pubblicherà recensioni teatrali ed articoli di vario genere con lo pseudonimo di Ettore Samigli.

Intanto abbozza ben quattro testi teatrali che non avranno successo: nel febbraio la commedia Ariosto Governatore, nel marzo Il primo amore, nel luglio Le Roi est mort; vive le Roi! e successivamente I due poeti.

Nello stesso anno il fallimento del padre lo costringe ad impiegarsi quale corrispondente tedesco e francese presso la succursale triestina della banca Union. Le difficoltà materiali si moltiplicano, ma non indeboliscono la sua passione per la letteratura. Molte ore del suo tempo libero le sottrae al riposo per frequentare la biblioteca civica dove legge i classici italiani, Schiller, Balzac e Zola.

Nel febbraio 1881 lavora ad una novella dal titolo Difetto moderno, scrive poi La storia dei miei lavori e in marzo la novella I tre caratteri, che verrà poi intitolata La gente superiore. In questo periodo conosce e diviene amico fraterno del diciannovenne pittore Umberto Veruda che gli ispirerà il personaggio dello scultore Balli nel romanzo Senilità.

Nel 1886 il dolore per la malattia e la morte del fratello Elio segnano profondamente il suo animo. Nel 1890 'L'Indipendente' pubblica a puntate il lungo racconto L'assassinio di via Belpoggio che testimonia la forte influenza di Schopenhauer . Il racconto viene accolto dal pubblico e dalla critica senza particolare entusiasmo.

Sono anni di grandi cambiamenti per la vita di Ettore, infatti, nell'aprile del 1892 gli muore il padre. Nello stesso anno pubblica a sue spese, presso l'editore Ettore Vram di Trieste, il primo romanzo, dandogli come titolo Una Vita e datandolo 1893.

Lo firma con lo pseudonimo di Italo Svevo che sta a significare nello stesso tempo la sua appartenenza alla cultura italiana, tedesca e slava

Il libro passa pressoché inosservato: appare solo una breve recensione di Domenico Oliva sul 'Corriere della Sera'e qualche articolo sulla stampa cittadina. Nel 1895 gli muore anche la madre. In questo periodo rivede, dopo anni, la cugina diciottenne Livia Veneziani con la quale instaura una tenera amicizia. Tra i due ben presto nasce qualcosa di più e, contro la volontà dei futuri suoceri, si fidanzano ufficialmente. Il 30 luglio 1896 si sposano e l'anno successivo hanno una bambina che chiamano Letizia.

Intanto continua il travagliato rapporto tra Italo Svevo, lo scrittore che spera nel successo ed Ettore Schmitz, ormai coscienzioso padre di famiglia che affianca al lavoro in banca, l'insegnamento all'istituto Revoltella ed un lavoro notturno al quotidiano 'Il Piccolo'.

Dal 15 giugno al 16 settembre 1898 appare a puntate sull'Indipendente il suo secondo romanzo, Senilità che nello stesso anno uscirà in volume presso l'editore Vram ancora una volta a spese dell'autore e ancora una volta senza il favore del critico e del pubblico.

Ettore giura a se stesso di smetterla per sempre con la letteratura e s'immerge nella lettura di Ibsen, Dovstoevskij e Tolstoj.

Nel 1899 lascia la banca Union per affiancare il suocero nella direzione della sua fabbrica di vernici sottomarine. Le sue condizioni economiche migliorano: il successo che aveva invano cercato nell'arte gli viene dagli affari dai quali ha anche la possibilità di andare spesso in Francia ed in Inghilterra.

E' del 1905 l' incontro e l'amicizia con James Joyce, professore d'inglese alla Berlitz School di Trieste, che gli dà lezioni private. Il rapporto tra i due scrittori diviene ben presto di stima confidenziale: Joyce gli legge i suoi lavori manoscritti e Svevo dà in lettura al futuro autore di Ulysses i suoi due romanzi pubblicati, sui quali l'inglese si esprime entusiasticamente.

Nel 1915, scoppiata la guerra mondiale che gli irredentisti triestini chiameranno 'quarta guerra d'indipendenza', Ettore si trova improvvisamente solo in una Trieste abbandonata: Joyce costretto a tornare in Inghilterra, i suoceri trasferitisi, la fabbrica confiscata, non gli restano altro che il riposo e le sue vecchie passioni, cioè la lettura e lo studio del violino.

Nel 1918, anno in cui finalmente Trieste diventa italiana, traduce, più che altro per assecondare il nipote medico, che a causa di una malattia è suo ospite, l'opera Sul sogno di Sigmund Freud. E' una buona occasione per studiare le idee dello psicanalista tedesco che, peraltro, egli aveva già avuto modo di conoscere.

In quello stesso anno diviene membro del comitato di salute pubblica, lavora ad un progetto di pace universale e, alla liberazione di Trieste, collabora con il neonato quotidiano 'La Nazione'. Ancora una volta Ettore Schmitz cede a quello che definisce un imperativo del proprio animo e riveste i panni di Italo Svevo cominciando, dopo quasi vent'anni di astinenza, a scrivere le prime pagine di La coscienza di Zeno.

Scrivere, in questo momento rappresenta per lui un modo di autoanalizzarsi, un tentativo di guarire da quel 'male di vivere' che lo accomuna al protagonista dell'opera. Non è importante pubblicare quello che si scrive, a suo parere, ma è impossibile fare a meno di scriverlo.

Il libro sarà pubblicato solo nel 1923 ed ancora una volta la particolare sensibilità di quest'autore passerà pressoché inosservata, pur essendo molto apprezzata dall'amico James Joyce, che Italo ha da poco rivisto a Parigi.

Joyce, che aveva pubblicizzato Svevo presso i suoi amici critici e letterati parigini, riesce a far sì che la critica francese (Larbaud, Crémieux) s'interessi a lui.

L'operazione di Joyce va a buon fine e nel 1925 Svevo riceve la prima lettera di Larbaud, che gli fa concrete proposte per il lancio del romanzo in Francia.

Nella primavera incontra a Parigi i suoi estimatori e si lega di amicizia confidenziale particolarmente con la signora Crémieux, che gli parla di Proust, autore a lui sconosciuto e del quale acquista l'opera completa.

Bobi Bazlen fa conoscere ad Eugenio Montale i romanzi di Svevo, e nel numero IV della rivista 'L'Esame' il poeta pubblica il primo dei suoi scritti sveviani.

Nel 1926 escono su 'Le Navire d'argent' larghi estratti delle sue opere. L'evento trascina l'interesse della critica francese ed italiana.

Ettore Schmitz, l'uomo d'affari, può finalmente vestire a tempo pieno i panni di Italo Svevo, il geniale romanziere e sulla scia di questo scrive ancora: La madre, Una burla riuscita, Vino generoso e La novella del buon vecchio e della bella fanciulla.

Nel 1927 appare l'edizione francese de La coscienza di Zeno. Nel marzo di quell'anno il 'Convegno' di Milano ospita una sua conferenza su Joyce, ed in aprile va in scena al Teatro degli Indipendenti di A. G. Bragaglia, a Roma, il suo atto unico, Terzetto spezzato.

Nel 1928 Svevo, che nel frattempo si è profondamente appassionato per l'opera di Kafka, inizia il suo quarto ed incompiuto romanzo, Il vecchione.

In seguito ad un incidente stradale, muore il 13 settembre a Motta di Livenza nei pressi di Treviso.






Le prime opere: Una vita, Senilità



La cultura di Svevo poggia sulla conoscenza dei classici italiani tedeschi e francesi (soprattutto i romanzieri realisti, da Balzac a Flaubert), la filosofia di Schopenhauer e la frequentazione del pensiero di Freud.

In lui è il trapasso dal naturalismo /verismo a una descrizione del reale più analitica e introversa. I dati realistici, la raffigurazione dei vari ceti, la rappresentazione dell'ambiente (la Trieste impiegatizia e commerciale), le descrizioni degli accadimenti vanno incontro a una crescente interiorizzazione, usati come specchi per chiarire i complessi e contraddittori moti della coscienza.

Al centro delle sue storie è sempre un solo personaggio, un individuo abulico e infelice, incapace di affrontare la realtà e a cui soccombe; nello stesso tempo, il singolo tenta di nascondere a se stesso la sua inettitudine, sognando evasioni, cercando diversivi, giustificazioni, compensi

Svevo smonta l'io del protagonista, rivelando ironicamente e talvolta comicamente la sua fluente instabilità, in cui passato e presente, ricordi e desideri, si intrecciano e condizionano reciprocamente.

E' una indagine carica di affetto dolente, quasi il voler salvare dalla estrema umiliazione della condanna il suo eroe negativo, che è in fondo il risvolto irredimibile di noi stessi, e la cui malattia è da assimilare alla crisi di un'intera società priva di valori sicuri.

E' un'operazione di scavo dei moti affettivi e dei tragitti della mente; l'individuazione dei lati tragicamente insensati dell'esistere; l'illuminazione della solitudine e della sconfitta dell'uomo





Svevo comincia pubblicando articoli, abbozzi di racconti, pagine autobiografiche: nel 1890 esce a puntate su «L'Indipendente» il racconto L'assassinio di via Belpoggio, una lunga novella, che rappresenta la prima opera narrativa importante di Svevo, apparve a puntate. E' il racconto di un delitto, ma l'assassinio è in realtà l'antefatto perché la novella comincia con le considerazioni dell'omicida sulla dinamica psichica del suo gesto.


Giorgio, abbandonati gli studi e dilapidato gli averi della madre, è costretto a fare il facchino, lavoro che detesta e che lo porta ad uccidere il casuale amico Antonio Vacci, un poveraccio che, avendo ricevuto all'improvviso un'eredità, la porta con sé per esibirla con orgoglio. I momenti salienti del delitto appaiono, nel corso della novella, evocati dalla mente di Giorgio che cerca di capire i motivi del suo gesto e che è tormentato dal ritorno ossessivo di alcune immagini e dalla paura di essere scoperto. La narrazione segue pertanto le fantasie, gli incubi, i tentativi di autogiustificazione del protagonista, interponendo ad essi, gli incauti comportamenti di Giorgio, le reazioni del suo compagno di stanza e degli altri amici, la perquisizione, il ritrovamento del denaro e la confessione.


L'aspetto interessante del testo è proprio questo modo di raccontare che si discosta in misura notevole dalla narrativa naturalistica ottocentesca, anche se la scelta del tema, l'ambiente degradato ed i personaggi sono elementi che appartengono al gusto ed alla tradizione del naturalismo.




Il primo romanzo, Una Vita, fu composto tra il 1887 ed il 1889 ed ambientato a Trieste.


Narra la vicenda di Alfonso Nitti, impiegato presso la ditta Maller, con una certa cultura umanistica ed ambizioni di scrittore. Egli vive in una camera che ha preso in affitto e soffre per la monotonia e lo squallore della propria esistenza. L'occasione di mutare la propria vita e di realizzare le sue ambizioni gli si presenta quando Annetta, la figlia del principale, per suggerimento del colto cugino Macario, prima invita Alfonso a partecipare alle serate letterarie che tiene in casa propria e poi lo sceglie per scrivere un romanzo a quattro mani. Annetta, per noia e capriccio, accetta la corte di Alfonso e s'invaghisce di lui. Con la complicità di Francesca, governante ed amante del Maller, che spera di trarne profitto personale, Alfonso riesce a sedurre Annetta, ma immediatamente scopre di non provare dalla relazione quella gioia che immaginava. Così, dopo una notte d'amore, rifiuta il suggerimento di Francesca di star vicino ad Annetta per sfruttare la situazione e combinare il matrimonio, e fugge al paese natale col pretesto d'assistere la madre (che poi scoprirà davvero malata e che morirà). L'assenza sarà fatale ad Alfonso, infatti, Annetta, passato l'entusiasmo del momento, si fidanza col cugino Macario. Al suo ritorno Alfonso oscilla tra rassegnazione, orgoglio per aver rinunciato ad un amore d'interesse e delusione per vedersi nuovamente risucchiato nella squallida vita di prima. In ditta viene messo da parte e trasferito ad un incarico meno remunerativo. Perde quindi il controllo della situazione: affronta il Maller con minacce fittizie, e cerca di rivedere Annetta, ottenendo però solo di venire sfidato a duello dal fratello di lei. Prima del duello decide di suicidarsi.


 
 Non è certo un caso che il titolo dato al libro dall'autore, e cambiato dall'editore per ragioni commerciali, fosse Un inetto: un emblema già inconfondibilmente sveviano.

Sul romanzo, che sembra avere un impianto naturalistico, Svevo respinge l'opinione comune che vi sia una verità predeterminata.

A Svevo sono estranei Positivismo e metafisica, l'esigenza di scientificità, fin dai suoi inizi, è un'esigenza che oggi definiremmo totalmente laica, nel senso che non lo interessano formule dogmatiche. Si cercano prove in diverse direzioni (da Schopenhauer a Darwin), muovendosi appunto, sul terreno letterario, secondo una disposizione di costruzione sperimentale.

Nella prima prova narrativa sveviana vi è un attaccamento all'oggetto segnato da una minuzia descrittiva e di una cura dei particolari perfino eccessiva, sulla falsariga delle diffuse immagini naturalistiche (accettate e respinte al tempo stesso), tuttavia vi è già l'intuizione del senso e della strategia narrativa aperta che vedremo meglio ne La coscienza di Zeno.



Svevo sa di aver superato la barriera del Naturalismo, e ciò attraverso l'ironia: l'ironia agisce specialmente nelle pieghe della psiche e nella corrente del tempo fluido che è lo stesso di Proust e di Joyce.

A differenza di altri romanzieri europei, vi è però in Svevo una vena capace di mettere in discussione, interrogativamente, non solo i moduli della scrittura ma addirittura la persona prima dello scrittore.

Il tragico, dunque, viene raggiunto attraverso il comico

I 'vinti' sveviani perseguono un solo scopo: imparare a convivere con la propria malattia, l'inettitudine. Si tratta di un morbo che contagia tutta la letteratura europea tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo, e che ha il suo epicentro nel tramonto della 'Mitteleuropa'.

Fin dal suo primo romanzo, il triestino percepisce d'essere partecipe di una crisi: la crisi di una borghesia che in sede culturale scontra l'esaurirsi della spinta ottimistica incarnata dal Positivismo, ed in sede economico-politica è costretta a pagare un disagio ed una serie di conflitti interni, che i diversi imperialismi europei si sforzeranno di eludere scatenando una guerra generale. Lontano dall'esperienza di D'Annunzio come dal Verismo, Svevo s'impegna a fondo nel suo primo romanzo, probabilmente convinto di essere arrivato al punto più alto della sua ricerca.


Egli aggredisce con forza alcune problematiche che saranno poi alla base de La coscienza di Zeno:

l'analisi del quadro contraddittorio di una società che isola l'individuo

la descrizione di un conflitto in atto tra le classi attraverso quello fra un piccolo impiegato ed un sistema socioeconomico completamente estraneo alle sue esigenze

il fallimento cui è destinato chi individua nell'amore disinteressato il tramite per un'ascesa sociale: Annetta è la prima fra le creature sveviane ad incarnare il ruolo della donna che si promette e si nega, che si abbandona per ritrarsi subito dopo, vincendo in definitiva sul maschio, come poi saranno Angiolina di Senilità e Carla de La coscienza di Zeno

l'oscura coscienza di sentirsi vittima di un ingranaggio incomprensibile.


Non si tratta di un espediente romanzesco: si tratta piuttosto di un'idea strutturale, quella appunto del 'romanzo da farsi', straordinariamente moderna ed anticipatrice di tante esperienze del nuovo secolo (Musil e Pirandello).



L'universo del protagonista Alfonso Nitti presenta quattro ambienti: la banca, casa Maller, Trieste ed il paese d'origine.

Ciò che sta a cuore al giovane romanziere è il destino del protagonista Alfonso Nitti, e la meccanica delle motivazioni che lo determinano a livello psicologico.

L'occhio dello scrittore riprende di mira il microcosmo della banca, ma attraverso un dato ulteriore e differenziante: il fallimento e l'esclusione di Alfonso, la catastrofe del suo piano di scalata sociale. Alfonso pare trasformare la propria sconfitta in una sorta d'illusorio successo, da godersi nel privato cerchio delle sue emozioni.

Dal momento che è stata in una qualche misura desiderata da lui, dalle sue debolezze ed incapacità, la rinuncia sembra ribaltarsi in conquista. La resa può somigliare ad uno stato di neutrale beatitudine:
 

 'Si trovava, credeva, molto vicino allo stato ideale sognato nelle sue letture, stato di rinunzia e di quiete. Non aveva più neppure l'agitazione che gli dava lo sforzo di dover rifiutare o rinunziare. Non gli veniva più offerto nulla; con la sua ultima rinunzia egli s'era salvato, per sempre, credeva, da ogni bassezza a cui avrebbe potuto trascinarlo il desiderio di godere. Non desiderava di essere altrimenti. All'infuori dei timori per l'avvenire e del disgusto per l'odio di cui si sapeva oggetto, egli era felice, equilibrato come un vecchio'.


 
 Ciò che davvero conta rilevare è come ci si trovi qui per la prima volta in presenza di quella nozione di senilità, che sarà uno dei fulcri del libro successivo e poi della Coscienza.

Manca è la fusione fra significato tragico ed ironico, che farà delle ulteriori accettazioni e rinunce sveviane, situazioni universali dell'impotenza borghese.


In Una Vita il determinismo naturalistico riesce almeno ad individuare il determinismo sociale che è la regola del mondo capitale.

In questa misura esso è utile a Svevo per la definizione dello scacco cui è votato l'antieroe Alfonso, il 'povero impiegatuccio', al quale non sarebbe stato neppure lecito dimostrare il proprio dolore. Alfonso si uccide, ed il romanzo si chiude, in puro stile burocratico-parodico, sulla comunicazione che la banca Maller fa di un funerale che avviene con l'intervento dei colleghi e della direzione, per un suicidio le cui cause rimangono 'del tutto ignote'. La morte ha chiarito ogni equivoco. In fondo, la personalità ed il destino di un subalterno come Alfonso Nitti non possono risultare, per i suoi superiori, che 'ignoti'.

Che la sconfitta di Nitti si consumi a Trieste, come altre contemporanee sconfitte romanzesche si consumano a Praga, a Vienna, a Dublino o nella provincialissima Siena, non è certo un caso. La tragedia della solitudine urbana dai tratti anonimi è al tempo stesso specifica e omologa: ogni città diventa capitale del dolore.




Risale a pochi anni dopo Senilità (1898).


Il protagonista di questo romanzo è Emilio Brentani, trentacinquenne, precocemente invecchiato e tormentato dal rimpianto di una vita passata ormai inutilmente. Assieme alla sorella Amalia, anch'essa consuntasi nel grigiore e nella solitudine, vive con lo stipendio di un modesto impiego presso una società d'assicurazioni. Egli però, tempo prima, ha pubblicato un romanzo, che non ha avuto successo, ma che tuttora gli permette di godere, tra i conoscenti, di una piccola fama di letterato. Fama che, gli fa maggiormente sentire tutta l'amarezza della sua vita, a causa dell'ironia e della delusione che i suoi sogni, splendidi ma irrealizzati, hanno comportato. E' con la consapevolezza di questo fallimento, che Emilio decide di intraprendere l'avventura d'amore con Angiolina, una splendida e volubile 'figlia del popolo', esuberante e piena di vita. Ma Emilio non riesce a mantenere l'avventura entro binari normali; ne è anzi coinvolto oltre ogni ragionevole previsione: la scoperta delle menzogne e dei tradimenti di Angiolina, anziché allontanarlo, lo legano a lei sempre più profondamente, mediante l'insensato tormento di una gelosia, che date le premesse, è del tutto fuori posto.

Quest'avventura non sconvolge soltanto la vita di Emilio, ma ha ovvie ripercussioni anche su quella della sorella. Amalia, rassegnata al grigiore di una vita, che fino a poco prima condivideva con Emilio, è costretta a rivederla tutta. Emilio ora non ha più bisogno di lei. Amalia non ha mai pensato all'amore, ma ora, dietro l'esempio del fratello, capisce che quella è una porta che essa ha chiuso troppo presto e troppo avventatamente.

Ella s'innamora nientemeno che del Balli, pittore amico di Emilio, di modeste doti artistiche, ma, data la sua prestanza fisica, di grande successo con le donne. Questo è un amore segreto, sofferto nel silenzio e nei deliri notturni. E' da uno di questi deliri che Emilio apprende la verità e così compie la mossa che porterà Amalia alla morte: prega l'amico Balli di non frequentare più la sua casa e lui saputane la ragione, è più che d'accordo.

Amalia, vistasi scoperta e respinta in maniera offensiva, per dimenticare ricorre all'etere profumato, deperisce sempre più, finché colpita da polmonite, s'aggrava notevolmente.

Emilio richiama il Balli e i due uomini, aiutati da una vicina, assistono la moribonda, che però non supera la malattia e muore.

Il ruolo del Balli nel romanzo non è solo questo. Egli, data la sua esperienza, ha anche quello di consigliere di Emilio nei suoi rapporti con Angiolina, con il prevedibile risultato che Angiolina finisce per concedersi anche al Balli, senza che costui in verità abbia fatto nulla d'intenzionale per tradire l'amico.

Ad ogni modo la morte di Amalia porta tutta la vicenda alla conclusione. Emilio trova definitivamente la forza di lasciare Angiolina e, ritornato alla vita grigia d'un tempo, conserva il ricordo di due persone che sono state importantissime per la sua vita, Amalia (che rappresenta la malattia) e Angiolina (che raffigura la salute).


Nella prefazione alla seconda edizione di Senilità (in data 1 marzo 1927) Svevo scrive:
'Pensa Valéry Larbaud che il titolo di questo romanzo non sia quello che gli competa. Anch'io, che so ormai che cosa sia una vera senilità sorrido talvolta di aver attribuito ad essa un eccesso in amore'. E poche righe dopo: 'Mi sembrerebbe di mutilare il libro privandolo del suo titolo che a me pare possa spiegare e scusare qualche cosa. Quel titolo mi guidò e lo vissi. Rimanga dunque così questo romanzo che ripresento ai lettori con qualche ritocco meramente formale'.

L'Ettore Schmitz che scrive queste parole è l'ormai celebre Italo Svevo.

Enorme è la distanza che in tutti i sensi lo separa dal trentasettenne autore di Senilità: eppure la convinzione che il romanzo consista in qualcosa di non modificabile e di non restaurabile, al punto che lo stesso titolo faccia corpo col testo, mostra quanto poco il triestino abbia agito da professionista della letteratura e quanto invece sia stato cosciente di aver lavorato, al di là di ogni tentazione cosmetica e di ogni accattivante concessione a gusti più larghi, per pronunciare la sua parola intera, consegnata ormai ad un'epoca cui non poteva essere strappata se non con un atto di spregiudicatezza.

Non è facile rinnegare i propri insuccessi: l'insuccesso di Senilità prima edizione, stava a dimostrare per lo scrittore, internazionalmente affermato, quanto profonde ragioni contenesse quel libro, a cominciare dal proprio nome.

In effetti, col secondo romanzo, il narratore entra quasi brutalmente nella sua prima e già ricca maturità.

Gli impacci scolastici e le preoccupazioni di non uscire dall'orbita naturalistica, che costituiscono la contraddizione non completamente risolta di Una Vita, nel secondo romanzo sveviano sono già conclusi.

Fin dall'attacco si avverte un'altra sicurezza, la mano di uno scrittore che rischia sul suo terreno senza guardarsi attorno, e lavora scartando tutte le mediazioni di comodo:


'Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: - T'amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d'accordo di andare molto cauti -. La parola era tanto prudente ch'era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po' più franca avrebbe dovuto suonare così : - Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia -'.



Ciò che colpisce in quest'apertura di romanzo, in rapporto al suo antecedente, sono almeno due elementi:

  1. il fatto che Svevo elimini senza indugi la cornice dell'azione drammatica, e la perentorietà con la quale lo scrittore individua subito la situazione dei personaggi ed il rapporto che gli stessi intrattengono con l'ambiente, che non funge più da sfondo, ma da luogo drammatico che si realizza come proiezione necessaria del dramma esistenziale dei protagonisti.
  2. In meno di dieci righe, si assiste per così dire allo sviluppo dell'intero gioco narrativo. C'è, in quest'inizio, ben più che la prima spinta, ben più che una complessa geometria sentimentale, addirittura il senso conclusivo di questa geometria. Un inizio che contiene in sé la fine della storia, una partenza in cui già s'intravede il baratro che inghiottirà non colei che appare come la destinataria del messaggio ma colui che ne è l'emittente.

In altre parole ci viene presentato un ribaltamento di ruoli: il maschio piccolo borghese e colto, che si misura con la donna proletaria ed incolta. Sembra non esserci alcuna possibilità di lotta, ma invece, il confronto va a vantaggio di chi mette in atto la seduzione, che si rivelerà devastante per l'equilibrio di colui che era partito (oggettivamente ed all'interno del suo apparato psico-culturale) vincente in assoluto.

Il libro, in fondo, consiste nella radiografia, al tempo stesso emotiva e spietatamente analitica, di un doppio gioco. Da questo gioco escono stritolati i più deboli: Emilio Brentani, che nutre velleità di scrittore, che vuole essere un superuomo di provincia e dimostra invece fragilità e frustrazioni, e sua sorella Amalia, grigia e malinconica creatura votata alla disperazione.

D'altro canto, il quadrangolo (il romanzo è definito, non a caso "quadrangolare") comprende altri due elementi: lo scultore Balli, rude e spregiudicato, per amore del quale Amalia troverà la morte, e Angiolina, splendida popolana senza troppa moralità, smaniosa di salire socialmente senza imporsi eccessive rinunce sul piano degli immediati piaceri, e per la quale il tradimento non rappresenta davvero un problema.

Al Balli e ad Angiolina spetta il ruolo di carnefici involontari: proprio in virtù della loro 'innocenza'.

Emilio pecca per eccesso di presunzione e difetto d'esperienza ed Amalia pecca per eccesso d'illusioni.

Nella scacchiera della vita, sembra suggerire amaramente Svevo, non c'è spazio per la remissione degli errori: il conto del dare e dell'avere non conosce flessibilità, anzi possiede una rigidezza mortale. Emilio, che da principio, con patetico cinismo, considera Angiolina alla stregua di un giocattolo, convinto di poter controllare agevolmente la dinamica del rapporto, entra in una crisi sempre più acuta quando vede sfuggirgli la donna che lo aveva interessato. Il crescere della sua passione coincide con la perdita d'interesse per lui da parte della donna.

In realtà se per Emilio l'irruzione di Angiolina nella sua vita ha significato una diversità culturale, l'eccitante sensazione del nuovo, la scoperta di un mondo da sedurre, godere ed insieme pedagogizzare, tutto ciò è frutto di un atroce equivoco: Emilio non regge il confronto con la capacità camaleontica di Angiolina, con la sua doppiezza imprendibile, con la spontaneità della sua pratica della menzogna, e si ritrova ad essere il suo giocattolo.

Angiolina gioca contemporaneamente su vari tavoli puntando ad una sistemazione vantaggiosa oltre che alla soddisfazione dei sensi. Ella finge perfino di acconsentire alla frode che Emilio ordisce per darla in moglie ad un inconsapevole estraneo, per poi godersela in tutta tranquillità, libero dai sensi di colpa del corruttore, ma lei, invece, fugge a Vienna con un cassiere di banca.

L'impatto dell'opportunismo piccolo borghese con l'amoralismo proletario si risolve in tragedia esclusivamente per chi è portatore dei valori del primo. Emilio si rifugia nell'indistinto del sogno e della nostalgia, anzi, cerca un risarcimento al proprio scacco nella persistenza dell'equivoco. Il piccolo inferno di bassezze e di dolore attraverso il quale è passato non è stato sufficiente ad imporgli un rapporto criticamente adulto con la realtà.

Il suo continua ad essere semplicemente un atteggiamento di comodo, molto immaturo:

'Anni dopo egli s'incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante, il più luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù. Nella sua mente di letterato ozioso, Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte le qualità d'Amalia che morì in lei una seconda volta. Divenne triste, sconsolatamente inerte, ed ebbe l'occhio limpido ed intellettuale. Egli la vide dinanzi a come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore e l'amò sempre, se amore è ammirazione e desiderio. Ella rappresentava tutto quello di nobile ch'egli in quel periodo avesse pensato od osservato. Quella figura divenne persino un simbolo. Ella guardava sempre dalla stessa parte, l'orizzonte, l'avvenire da cui partivano i bagliori rossi che si riverberavano sulla sua faccia rosea, gialla e bianca. Ella aspettava! L'immagine concretava il sogno ch'egli una volta aveva fatto accanto ad Angiolina e che la figlia del popolo non aveva compreso. Quel simbolo alto, magnifico, si rianimava talvolta per divenire donna amante, sempre però donna triste e pensierosa. Sì! Angiolina pensa e piange! Pensa come se le fosse stato spiegato il segreto dell'universo e della propria esistenza; piange come se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo gratias qualunque'.


Emilio Brentani è uno dei tanti piccoli borghesi la cui ambizione creativa si consuma più che altro in un ricordo senza frutto.

Egli vive il grande romanzo che non scriverà mai. Eppure quest'inetto 'abita' con la sua presenza il romanzo: le intermittenze del suo cuore segnano il diagramma delle sue frustrazioni e sono colte dal narratore in modo implacabile.


Svevo è ormai padrone dello strumento lingua, con il quale chiude ogni rapporto col Naturalismo. Senilità per quanto abbiamo osservato presenta molti caratteri autobiografici (i quali saranno ancora più evidenti né La coscienza di Zeno).

Ma se l'autobiografismo è il fulcro del romanzo, ciò che alla fine decide è l'adozione di un punto di vista non univoco.

Lo scrittore tiene costantemente attive varie prospettive. Il senso di essere immersi in una realtà dove nei personaggi coabitano uno e più individui, dà all'intero libro una modernità ed una fortissima capacità di suggestione.

Svevo ha capito che l'ipocrisia e l'apparenza sono davvero la sostanza dei rapporti che regolano il gran teatro del mondo e teatrale nel senso del ritmo che incalza verso la tragedia e la malinconia è anche il rapporto tra Emilio ed Angiolina.

In una Trieste fine Ottocento si consuma dunque questo dramma della gelosia e dello spirito. Questo sentimento è quasi il concentrato di una serie di frustrazioni, per questo scopriamo in Svevo uno scrittore d'analisi ed un 'moralista senza morale', fino alla conclusione della sua esperienza letteraria.


Ed anche se è facile individuare il ripetersi di situazioni e personaggi da Una Vita a Senilità in una sorta di parallelismo fatale (passione, tradimento ed abbandono, scacco del protagonista, posizione di fallimento dello stesso rispetto al successo dei personaggi che fanno da controcanto: Macario in Una Vita ed il Balli in Senilità), tuttavia ciò che conta è vedere come l'apparente riduzione del campo d'interesse dello scrittore, ormai definitivamente centrato sull'individuo, risulti, in effetti, la spinta ad un sondaggio in profondità della situazione borghese.

Di fronte all'impossibilità di realizzarsi contro un mondo nemico, Alfonso Nitti si rivolta fino al suicidio; Emilio si chiude nella resa e nella rinuncia della senilità.

L'eroismo di Alfonso è ancora un gesto romantico realizzato nella zona dell'utopia. La resa di Emilio è già l'indizio della necessità, a lui negata, di una presa di coscienza.

Svevo si colloca fuori da quell'ambito che in Italia, tra gli anni Venti e Trenta, partorì tutta una serie di ideologie e di stili letterari sintetizzati nella formula della 'letteratura come vita'. Per Svevo, al contrario è uno strumento per misurare le contraddizioni mondane.


La tappa 'soffocante' di Una Vita e la tappa 'feroce' di Senilità sono due modi, omologhi e diversi, per affermare questa verità. La coscienza di Zeno, più tardi, ne sarà la dimostrazione poetica più sicura.







La coscienza di Zeno



Il silenzio di Svevo dal 1898 al 1923 non è un vuoto nel quale improvvisamente fiorisce La coscienza di Zeno, ma in realtà un periodo di riflessione, di scavo profondo e di tensione verso la maturità umana, culturale ed espressiva, al termine del quale si situa l'esperienza della fase più alta della sua trilogia romanzesca.

La coscienza di Zeno è una conferma ed una smentita dei due romanzi precedenti:

è confermata l'ossessione tematica dell'autore incentrata sul fallimento e la sconfitta

è smentito, sul piano del linguaggio, il determinismo, proprio in quanto l'autore è capace di sviluppare il suo gioco su due tavoli cambiando continuamente le carte: il tavolo della meccanica sociale mercantile-borghese ed il tavolo dell'ambiguità della psiche.


Ciò che unifica il tutto è l'ironia, la disincantata 'scienza della vita', la coscienza. La coscienza di Zeno Cosini è, appunto, la sola scienza che egli possieda, ed il solo suo disperato ed inalienabile bene.

Il capolavoro, quindi, si pone come il momento decisivo e conclusivo di un processo tutt'altro che casuale, vissuto piuttosto dallo scrittore attraverso una ricerca condotta per venticinque anni in coerenza col principio che:  'Scrivere a questo mondo bisogna, ma pubblicare non occorre'.

Al di là della 'leggenda' del trentennale silenzio, quindi, è ormai chiaro che Svevo, malgrado il peso delle delusioni e l'incomprensione che circondava la sua opera, abbia continuato a lavorare nella convinzione che la lenta elaborazione della sua arte esigeva un impegno tutt'altro che sporadico, proteso alla ricerca dei significati più interni e segreti, in un certo senso da sempre già oltre la preoccupazione dei riconoscimenti ufficiali.


Zeno ci narra il tutto in prima persona e questa è la seconda novità, dopo quella della frantumazione della trama, di questo terzo romanzo rispetto ai due che l'hanno preceduto


La ricchezza del romanzo si apre fin dalle prime pagine: Svevo lavora ormai non più secondo la scala di una progressione logico-narrativa, ma secondo modi che obbediscono all'analogia ed all'aggregazione, all'associazione di idee ed al libero fluire della memoria.

Lo schema non preesiste, ma sembra crearsi spontaneamente di volta in volta, nel tortuoso ed ineguale percorso dell'analisi. Il lettore è introdotto nell'universo di Zeno, nel flusso tra reale e fittizio del suo tempo, senza schermi protettivi, dal momento che il personaggio assicura di esporsi intero fin dai momenti iniziali


Il romanzo è in sostanza senza trama. E' suddiviso in vari capitoli, corrispondenti al resoconto di diversi episodi e situazioni della vita del protagonista: Zeno Cosini.

Anziano ed agiato borghese, che vive coi proventi di un'azienda commerciale, avuta in eredità dal padre, ma vincolata da questi, per la scarsa stima che aveva del figlio, alla tutela dell'amministratore Olivi.

I resoconti riguardano il vizio del fumo, la morte del padre, la storia del suo matrimonio, la moglie e l'amante e la storia di un'associazione commerciale. Vi è poi un capitolo finale intitolato Psico-analisi, che si ricollega strutturalmente alla Prefazione ed al Preambolo.

Dal che si deduce che il romanzo non è altro che una serie di sondaggi fatti da Zeno sul proprio passato e scritti per il suo psicanalista, vagamente indicato con la sigla Dottor S. e pubblicati da costui per dispetto, allorché Zeno decide di liberarsi di lui, interrompendo la cura, con in più una specie di ricatto sui diritti d'autore.

La natura della malattia di cui soffre Zeno non è chiara; è più una convinzione, del resto nata con lui, com'egli stesso afferma, che un dato oggettivo e reale e se i sintomi sono prevalentemente di ordine psichico e denunciano un vago disagio sociale, anche il fisico tuttavia non ne resta immune, poiché a quei turbamenti risponde sempre con intoppi e faticose articolazioni.


Il senso finale del libro sembra essere un'apologia convinta della malattia come un contenuto capace di illuminarci sulla più vera e profonda nostra realtà di uomini ormai irrimediabilmente vecchi, il cui unico riscatto sembra essere affidato appunto alla consapevolezza ironica di tale condizione, alla coscienza, insomma, che funziona così da mastice fra i vari capitoli, all'interno dei quali poi, presi singolarmente, è possibile individuare, per quanto ancora scheletriche, delle specie di trame (che illustreremo in seguito).


Nel capitolo conclusivo de La coscienza di Zeno, Psico-analisi, ci sono due passi illuminanti su ciò che fu per Svevo la questione della lingua, e più precisamente su varie ambiguità che lo scrittore ci presenta: il rapporto terapia analitica-invenzione, memoria-emozione e creazione-menzogna.

Una problematica molto moderna:


'Il dottore presta fede troppo grande a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! E' proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto'.


Ed ancora:


'E' così che a forza di correre dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato'.



L'atteggiamento sveviano nei confronti della psicanalisi è qui ed altrove molto ironico. Egli sa che la ricchezza di una psiche è fatta anche dai materiali rischiosi che chiamiamo nevrosi, sa che la distinzione drastica fra malattia e salute è schematica ed improduttiva, sa infine che proprio nella gestione attiva delle proprie nevrosi risiede il rapporto più sano possibile con la vita.

'Com'era stata più bella la mia vita che non quella dei cosiddetti sani', si sorprende a pensare il vecchio Zeno Cosini. Ed è proprio l'aggettivo 'cosiddetti' che sbalordisce il lettore di oggi, è un'anticipazione convinta di certe tematiche antipsichiatriche e liberatorie che si sarebbero affermate, tra successi e contraddizioni, solo trent'anni dopo.

La coscienza di Zeno è anche la coscienza della precarietà della lingua in cui lo scrittore si esprime, la consapevolezza di trovarsi fuori dai canoni della letteratura posteriore.

La diversità di Svevo non è solo linguistica ma anche culturale: la sua posizione è quella dell'intellettuale di frontiera. Ciò può apparire un handicap ma al contrario agisce come fatto positivo che gli permette, ad esempio, di aggredire la problematica psicanalitica senza nessun complesso d'inferiorità, ed anzi da un'angolazione ironica tagliente, assolutamente estranea all'ottica che nei confronti della psicanalisi adottano gli scrittori contemporanei.




Nel romanzo la divisione tra autobiografia e racconto è risolta proprio distruggendo la concezione strutturale del romanzo classico, e mettendo in atto una soluzione in parte già sfruttata per i due romanzi precedenti, ma che qui si evolve e si completa facendo di questo libro l'anti-romanzo per eccellenza.

Svevo si trova tra le mani un semilavoro che non può diventare un 'prodotto finito' se non restando un'opera aperta, involontaria, un testo insofferente verso qualsiasi ideologia, in modo tale che le stesse teorie freudiane, sebbene molto importanti per la genesi del romanzo, vengono utilizzate solo a livello culturale, come puri strumenti tecnici.

Lo stesso Dottor S., che nel libro funge da portavoce di esse, è un personaggio più ridicolo che rispettabile.

Svevo mediante la scrittura rifiuta la gabbia della scienza assunta come dogma e depositaria della verità vista in modo assoluto.

Incerto tra scienza e filosofia si rivolge addirittura allo psicanalista triestino dottor Weiss, per chiarire, prima di tutto a se stesso, se il suo ultimo romanzo può essere considerato o meno un'opera psicanalitica, ricevendone una secca smentita. La coscienza di Zeno fonda un modello di letteratura diverso, ma l'autore non ne è consapevole fino in fondo. Nel romanzo dominano l'imprevedibilità, l'ambiguità e perfino la falsità, dal momento che la memoria stesa da Zeno è sicuramente parziale e sviluppa solo i fatti utili alla sua causa essendo egli un nevrotico in cura analitica.




Cos'è attendibile di questo romanzo?

Il lettore non può fidarsi del protagonista e tanto meno del suo psicanalista, dal momento che il Dottor S. agisce in modo scorretto e puerile, decidendo di pubblicare la memoria del paziente per vendicarsi dell'interruzione della terapia. è quindi chiaro che l'attendibilità della sua prefazione al racconto di Zeno è assai scarsa.

Ci accorgiamo così che il romanzo è costruito su una rimozione: quella della verità.

La verità è, per Svevo, l'equivalente della salute: due valori assolutamente privi di valore assoluto che sono sottoposti all'inevitabile svolgersi della vita

Alla verità lo scrittore contrappone la parodia, cioè il suo contrario. La verità implica l'immobilità, la parodia il movimento.

L'unico senso de La coscienza di Zeno è quello del movimento, del rovesciamento costante, dell'instabilità costitutiva del mondo e della scrittura, ed è un senso alla cui costruzione è chiamato il lettore.

La dimensione tragica della vita, attiva ed evidenziata nei due primi romanzi, è mutata in questo, fin dall'inizio, verso la dimensione umoristica, uscendone sicuramente arricchita.

Il preambolo pone il lettore all'interno del meccanismo. Non siamo più di fronte all'espediente del romanzo-pretesto, la finzione romanzesca è dissipata. Il tentativo che Zeno fa di raccontare la propria vita, ora che è giunto ad un'età avanzata, è dato appunto come tentativo di riacquistare la salute, l'equilibrio e nulla più.


Il 'Proust italien', come Svevo è stato definito, persegue una strategia assolutamente originale: Proust si dissipa e si realizza in un inseguimento di nomi di paesi e di persone, di amori e di amicizie irrimediabilmente consumati, in cui celebra il suo rito idolatrico, il suo culto dell'effimero e non dell'eterno.

Se idolatria è il Tempo perduto, la verità è il Tempo ritrovato, mediante un recupero in cui la memoria involontaria gioca un ruolo centrale

Svevo si serve di altri mezzi: egli realizza un'operazione in cui la volontarietà della memoria è ancora molto forte.

Piuttosto, comune ad entrambi gli scrittori è l'esigenza di apprestarsi nuovi moduli di lavoro fondati sull'autobiografia come momento di sintesi rispetto alla frantumazione dell'esperienza; per cui tutt'e due i grandi romanzieri della crisi della coscienza borghese corrodono qualcosa di più che una tecnica letteraria, agiscono in un certo senso al di là della letteratura.

Assai più letterato di loro risulta invece Joyce.




Episodi e tematiche


Certo è che la particolare forma a episodi 'autonomi', ognuno dei quali costituisce una sorta di stazione a ritroso che dal passato si dirige verso il presente di volta in volta incamerando gli elementi di quella che precede, non era pensabile senza il 'rifiuto' della letteratura esplicitamente dichiarato dal triestino



Vediamo  in breve gli episodi principali:


Il fumo: Zeno pensa che la causa della sua malattia sia il vizio del fumo. Decide di liberarsene, prima con propositi precisi fatti a se stesso e vincolati a date scritte un po' ovunque, sottolineate da un solenne U. S. (ultima sigaretta) e poi facendosi ricoverare in una casa di cura, dove però non passa nemmeno una notte, perché, preso dalla sua solita irragionevole gelosia per la moglie, corrompe l'infermiera e se ne torna bellamente a casa, dove la moglie, fedelissima, lo accoglie con un benevolo sorriso.


La morte del padre: si narra delle civili incomprensioni che dividono padre e figlio. Il padre ha difficoltà a convincersi che il figlio, sempre pronto a ridere a sproposito, sia effettivamente pazzo. Il figlio da parte sua è piuttosto ribelle, ma solo in teoria, dentro di sé insomma, perché oggettivamente si può dire che sia un ragazzo abbastanza tranquillo ed ubbidiente. Ma ecco che il padre si ammala di edema cerebrale. Si mette a letto. Il figlio lo vuole curare, lo costringe, anche perché il medico così gli ha consigliato di fare, a stare a letto, e quando il padre vuole a tutti i costi alzarsi egli usa la forza. Il padre con un ultimo sforzo alza il braccio e muore. La mano ricadendo colpisce il volto del figlio. Uno schiaffo. Volontario? Questo dubbio Zeno se lo porterà dentro per tutta la vita.


La storia del matrimonio: Zeno incontra in Borsa Giovanni Malfenti, furbo commerciante, che gli diviene maestro in affari, amico e suocero, nonché suo secondo padre. Giovanni ha una moglie e quattro figlie: Ada, la bella e la seria, Alberta, la più giovane fra le tre da marito e la più vicina allo spirito di Zeno, Augusta, la strabica, ed Anna la più piccola, una bimba. Zeno diventa abituale frequentatore del loro salotto e le intrattiene con storielle amene, di cui l'unica a non compiacersene è proprio quella per cui Zeno le diceva, e cioè Ada. La sua corte ad Ada si complica poi per l'entrata in scena di un rivale, Guido Speier, giovane bello ed elegante e come Zeno suonatore di violino, ma di lui molto più abile. Ada ne è veramente incantata e Zeno è decisamente destinato alla sconfitta, tanto che, attraverso una serie di vicende altamente comiche, che vanno da una seduta spiritica imbastita da Guido e mandata a monte da Zeno per dispetto, alla proposta di matrimonio fatta in successione e per sbaglio a ciascuna delle tre sorelle maggiori, arriverà a fidanzarsi con Augusta, delle tre proprio l'unica che Zeno non avrebbe mai pensato di sposare. Il matrimonio invece si mostrerà azzeccatissimo: Augusta sarà veramente la moglie ideale.


La moglie e l'amante: l'amante si chiama Carla, è una giovane del popolo, che, per continuare i suoi studi musicali, s'affida prima alla beneficenza d'Enrico Copler, amico di Zeno e poi a quella di Zeno stesso. La relazione non turba i rapporti con Augusta, anche perchè ovviamente non ne è a conoscenza. Crea solo spazi e contraddizioni dentro la coscienza di Zeno, ma il modo in cui Zeno li supera ci dà ancora un esempio della sua natura, vale a dire della sua malattia. Carla poi vuole vedere Augusta. Mossa controproducente. Carla ne resta affascinata. Sente un vago rimorso a tradirla. Lascia Zeno e decide di sposare il maestro di musica, che Zeno stesso le aveva procurato. Forse era ciò che Zeno, cui nel frattempo era nata una figlia, voleva e non voleva.

Storia di un'associazione commerciale: racconta della fondazione di una casa commerciale da parte di Guido Speier, e di come viene condotta in malissimo modo. Zeno, messi da parte i vecchi complessi, si offre di aiutarlo nell'amministrazione. Ma Guido è veramente un incapace e l'azienda ha i giorni contati. Un affare sbagliato rende la situazione davvero insostenibile. Guido simula un primo tentativo di suicidio ed ottiene dalla moglie un prestito per risollevare le sorti della ditta. Ma gli errori da parte sua continuano, aggravati anche dalle perdite in Borsa, e così non gli resta che inscenare un secondo suicidio, ma questa volta per una serie di circostanze imprevedibili, gli va male e muore. Zeno si rivela a questo punto abilissimo: giocando in Borsa riesce a dimezzare il debito del cognato e si conquista in parte la stima di Ada, che le sofferenze psichiche hanno precocemente invecchiato. Ada inoltre è anche molto rammaricata perchè Zeno non è andato al funerale di Guido. Zeno, infatti, non è giunto in tempo, perchè, a causa degli impegni in Borsa, è arrivato all'ultimo momento e, inconsapevolmente, ha anche sbagliato funerale. Ada lascia così Trieste e con i figli si reca in Argentina dove i due suoceri la stanno aspettando.



Il terzo capitolo Il fumo, cala il lettore in una delle situazioni chiave del romanzo. Ancora una volta, ci troviamo in presenza di uno dei perenni miti negativi di Svevo: il proposito di riscatto dei protagonisti e la sua mancata realizzazione, che inevitabilmente li frustra. Ma ora l'oggetto del proposito e la causa della frustrazione sono assolutamente irrisori e banalizzati: la battaglia si svolge fra Zeno e la propria volontà ed il motivo è l'ultima sigaretta. Zeno si abbarbica a continui proponimenti di non fumare più, che d'altronde eluderà sistematicamente rimuovendo poi sempre il rimorso ed il senso di colpa che gliene derivano. Il dramma propende al comico, all'umoristico. La materia è degradata rispetto ai romanzi precedenti, ma è subito più decisamente interna, dotata ormai di quell'ambiguità e contraddittorietà che Svevo attribuisce all'esistenza, e con la quale intende concorrere e misurarsi, operando su un sistema organico di decentramento e di dislocazione ininterrotta:


'Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell'igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?'


La dialettica tra malattia e salute è un altro dei motivi centrali del romanzo, anch'esso ambivalente ed in continuazione slittante dal piano fisiologico a quello psicologico.

In realtà, salute, giovinezza e naturale equilibrio psichico sono i doni di un'età fortunata a cui si contrappongono i tristi portati della senilità: la cagionevolezza, la sensazione di esser fuori dal gioco, la finta rivalsa dell'esercizio della coscienza, che è in fondo il vizio più malinconicamente vero della parabola esistenziale.

L'episodio della tentata disintossicazione in casa di cura è tipico dell'atmosfera autodenigratoria e dell'andamento da commedia degli equivoci che occupano buona parte del libro: questo 'punitore di se stesso' che è Zeno non reggerà neanche una notte nella clinica, ma intanto, prima di ubriacare la vecchia infermiera e di tornarsene a casa, fa in tempo a farsi beffe anche del medico che lo visita.


Nell'episodio successivo, cioè quello che racconta la morte del padre, Svevo sposta la tonalità sul tragico.

Il padre di Zeno ha fama di essere un abile commerciante anche se in realtà i suoi affari sono diretti dall'attivo signor Olivi. Zeno nota che: 'Nell'incapacità al commercio v'era la somiglianza fra di noi, ma non ve ne erano altre; posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza '.

Dov'è in fondo la vera forza di un uomo pigro e distratto come risulta essere Zeno Cosini? Probabilmente nella caparbietà con cui insiste a difendere dall'altrui intrusione le riserve dei suoi privati egoismi, nell'ostinazione con cui rifiuta di rinunciare ai piaceri minuti della vita, della sensualità e dell'orgoglio, ma più ancora, secondo il rimprovero paterno, nella sua tendenza a ridere delle cose più serie.

Ma, si chiede Zeno (e con lui Svevo), cos'è serio a questo mondo? La serietà è dietro le apparenze, e riguarda un sempre più ristretto numero di eventi e di fenomeni. La malattia e la morte del padre si muovono su un piano che amplifica in chiave tragica la situazione drammatico-umoristica che il narratore-paziente Zeno ha definito come: 'Una analisi storica della mia propensione al fumo', vizioso eccesso al quale egli attribuisce anche l'origine della straripante carica sessuale da cui quasi si sente perseguitato.

La sensualità diventa malattia, irrefrenabile erotismo, dissipazione energetica e quindi colpa da espiare. Comanda l'imperativa etica borghese-mercantile, per la quale il momento ludico ed il gioco erotico rappresentano pulsioni e fenomeni pericolosi, alla lunga eversivi di un ordine e comunque poco seri ed indegni di essere esibiti.

Il sognatore Zeno, guarendo dall'intossicazione da fumo, guarirà anche, secondo lui, dal suo furioso appetito sessuale.

L'evento che segna profondamente il futuro di Zeno è il famoso schiaffo che il padre moribondo lascia cadere sul volto del figlio, come una punizione, al momento del trapasso. Gesto automatico o estremo sforzo per rimanere aggrappato alla vita? Esecuzione di una volontà o atto casuale? Lo schiaffo subisce nella memoria di Zeno la metamorfosi cui vanno soggetti tutti i fenomeni sgradevoli della sua esistenza, in genere con segno positivo. Già durante il funerale, non diventa più l'ultima prova d'incomprensione e d'ostilità di un uomo il cui corpo giaceva ancora 'superbo e minaccioso', ma quasi il saluto composto di qualcuno che non si decide a lasciarci. Quella del padre è una forza che non può più offendere, ma Zeno non lo fa notare.

La sua abilità nell'evasione, la capacità impeccabilmente tempestiva di servirsi di uno strumento come la sublimazione, la facoltà di rimuovere sistematicamente gli ostacoli che intralciano la sua libertà sentimentale e psicologica, costituiscono in realtà il potenziale più consistente della sua debolezza. Il fatto è che entro i confini del suo territorio egli risulta il più forte e finisce per essere il vincitore.

Nessuno potrà violare la sua coscienza: Zeno ha tra l'altro il merito di non elevarsi un piedistallo, di non assumere posizioni eroiche. Se gli è consentita questa libertà, che è pur sempre un privilegio, lascia intuire che si tratta di un patto sociale stretto ben prima di lui, di cui egli fruisce e che gli permette addirittura di presentarsi come 'antieroe'.

Paradossalmente Zeno trasforma i suoi scacchi in affermazioni vantaggiose.


Così è negli affari, in cui sovente la sua inettitudine si rivela provvidenziale; così è nell'amore e nel matrimonio. Innamorato della bellissima Ada Malfenti, che lo respinge per sposare l'amabile e mondano Guido Speier, egli sposerà la brutta ma dolcissima sorella di lei, Augusta, quasi per forza d'inerzia e per necessario autoconvincimento che sia la donna giusta.

Nella stessa serata Zeno si dichiara ad una dopo l'altra delle tre sorelle Malfenti, quasi in preda ad una smania di autoflagellazione. Due risposte negative: Ada e Alberta. Una risposta affermativa: Augusta.

L'ostilità di Ada e della madre, una volta che le cose si sono messe per il verso da loro desiderato, si trasforma in affettuosa considerazione per Zeno. Con un senso della durata temporale di straordinaria suggestione fluidificante, Svevo gioca questa parte del romanzo su molti piani, mediante rimandi continui e continue rispondenze.

Il presente, cioè il tempo dell'intelligenza che assiste e registra, s'insinua nel passato vissuto e sollecita i fermenti del passato ipotetico. Zeno agisce da regista e le fanciulle da attrici, nel momento esatto in cui il giovane parla di cose che gli sono avvenute in un passato imprecisato per interessarle e guadagnarne la simpatia.

Ma di ciò il lettore è informato da un vecchio che racconta di se stesso giovane, rivedendosi nell'atteggiamento di narratore per un pubblico che vuole coinvolgere nel suo piccolo mito, nella costruzione di sé come individuo di eccezione.

Marito involontario, Zeno si è lasciato scegliere. Del resto la sua intera esistenza brilla per l'assenza di scelte precise, eppure egli riesce sempre, stranamente, ad imboccare la strada giusta.

La sua vera vocazione è quella di un uomo che evita il rischio sotto ogni forma, e si crea un involucro d'ipocondria, di malattia immaginaria, di neutralità di fronte ai conflitti esistenziali, dal quale assistere senza bruciarsi al rovente spettacolo della realtà.

Questa è la vera coscienza del personaggio Zeno Cosini: ricerca apparentemente svagata e casuale della consapevolezza del vivere, e al contempo difesa della propria mancanza di qualità

La pratica della memoria non come rimpianto ma come ricostruzione attiva, a questo punto, è data addirittura come polemica nei confronti dei valori borghesi correnti: intraprendenza, spregiudicatezza, senso pragmatico e attivismo pratico; valori tutti volti in primo luogo all'affermazione economica, allo scopo del lucro e del profitto.


La moglie Augusta è la difesa dal rischio, l'amante Carla l'avventura senza rischio.

I sentimenti di Zeno scivolano continuamente dal drammatico al comico, ed i poli umani di quest'oscillazione sono rappresentati appunto dalla moglie e dall'amante, come già in Senilità Angiolina ed Amalia erano state le personificazioni del piacere colpevole e della purezza sacrificata. Zeno ha lasciato da parte il 'mondo sano e regolato' organizzatogli attorno da Augusta per avventurarsi nell'incognita del proibito: ha lasciato la 'salute' per entrare nella 'malattia'. Quando avrà superato suo malgrado l'infatuazione per Carla non sarà per questo guarito dalle sue inquietudini e dalle sue nevrosi. I motivi profondi che hanno spinto lo scrittore a realizzare il suo romanzo-pretesto sono ormai chiari.


Nell'ultimo capitolo del libro Zeno-Svevo chiarisce come non gli è possibile rinunciare alla sua identità più autentica, e si libera mediante l'ironia dagli impacci che gli hanno cucito addosso le strutture terapeutiche:


'Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui, perchè un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzato i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono. Ma ora mi ritrovo squilibrato e malato più che mai e, scrivendo, credo che mi netterà più facilmente del male che la cura m'ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso'.


La rottura col trattamento psicanalitico determina anche una frattura nel flusso cronologico degli avvenimenti narrati. Di colpo ci troviamo a tu per tu col presente. Ed il presente è, ancora una volta, una combinazione di tragedia e grottesco, di tristezza e di riso. L'uomo diventa sempre più furbo e debole perché si affida agli 'ordigni' che inventa secondo tecniche più raffinate per 'la grande guerra', al punto che l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto, la legge del più forte non ha più valore, alla natura si è sostituito l'artificio ed è così andata persa la selezione naturale. Ecco perché tutte le terapie (e la psicanalisi per prima) non sono radicali ma semplicemente restauratorie.


La liberazione non potrà realizzarsi, probabilmente, che attraverso l'utopia, raffigurata nelle battute finali del romanzo con l'immagine apocalittica della distruzione del mondo, di questo mondo, in cui si è perduta la misura dell'uomo e l'unica liberazione, per Svevo, non può che chiamarsi 'salute':


'Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie'.






Le ultime opere



Per completezza, concludiamo il quadro riportando in sintesi le principali opere successive a La coscienza di Zeno.


La novella del buon vecchio e della bella fanciulla

I protagonisti di questa novella sono appunto il buon vecchio, un agiato triestino dal portamento giovane e signorile, ed una bella fanciulla del popolo, sana, schietta, priva di malizia e scrupoli morali. Personaggi secondari: il medico, un amico del vecchio, la sua governante e la madre della fanciulla. I fatti, come sempre in Svevo, sono pochi. La madre della bella fanciulla ottiene dal buon vecchio un posto per la figlia alla società tranviaria. Passa il tempo. Il vecchio si trova su una vettura tranviaria diretta al Tergesteo. E' affascinato dalla fresca grazia della fanciulla ai comandi. Si riconoscono. Il vecchio l'invita a casa sua per la sera e la ragazza accetta, con naturalezza e spontaneità. Per il vecchio è la giovinezza che ritorna, ma anche purtroppo la malattia. Il male, un'angina pectoris fastidiosissima, si manifesta una notte all'improvviso, dopo uno strapazzo d'amore e di libagioni abbondanti. E' la fine. Il vecchio sente che la malattia non lo lascerà più. Verso la fanciulla non ha che rimorso. Rimuovere da sé questa pena, mediante la rieducazione morale della fanciulla, è appunto il compito che occupa interamente gli ultimi anni della sua vita. Naturalmente la figura del vecchio è preponderante nella novella, si può anzi affermare che ne sia l'unico protagonista. La fanciulla stessa, dopo il fatto, è relegata sullo sfondo. Ciò che di essa sappiamo, del suo raffinarsi e farsi, lo sappiamo soltanto attraverso la coscienza del vecchio ed attraverso l'assidua analisi che essa fa di se stessa. C'è qualche altro incontro ma a puro scopo rieducativo. La fanciulla ormai, nella mente del vecchio (turbata fra l'altro da sogni veramente inquietanti), si confonde con tutte le fanciulle del mondo, è divenuta insomma il simbolo in astratto della giovinezza. E la definizione dei rapporti fra giovinezza e vecchiaia, di che cosa i giovani siano debitori verso i vecchi, è il problema che impegna gli ultimi mesi della vita del buon vecchio. 'Nulla' è la risposta con la quale si chiude, il suo trattato e la sua vita.




Vino generoso

Il protagonista, uomo anziano e malato, narra i fatti in prima persona. Poco più che comparse, che fungono da pretesti per le sue ossessionanti autoanalisi, sono la moglie, donna sana senza problemi, i figli Emma e Ottavio, molto giovani, e numerosi parenti ed amici. La trama è quasi assente. Il protagonista, a dieta rigorosa, una sera, la vigilia delle nozze di una sua nipote, ottiene una deroga dalla dieta e fra l'allegria di tutti i convitati può finalmente tornare quello di una volta. Però eccede. La moglie si preoccupa. Lo invita a smettere di bere, ma lui non l'ascolta. Ha per questo anche con la figlia un fuggevole litigio. Tornato a casa, mentre tutti dormono, egli è inchiodato da una snervante insonnia, finché, trovato finalmente il sonno, fa un sogno terribile, in cui arriva a desiderare di offrire la vita della figlia in cambio della sua salvezza. Tutto a causa del vino, pensa una volta sveglio. Quel vino che nel corso della cena e successivamente aveva fatto sorgere in lui un'ira profonda verso tutti, i familiari in particolare, e che ora invece lo renderà generoso, perché pur d'evitare quell'orribile sogno egli da ora in poi sarà docilmente disposto a qualsiasi dieta.


Una burla riuscita

E' un lungo racconto, suddiviso in otto paragrafi senza titoli. I protagonisti principali sono quattro: i fratelli Mario e Giulio Samigli e gli amici di Mario, Brauer e Gaia. Nella prima parte del racconto Svevo presenta i quattro personaggi. Mario sui sessant'anni, un umile impiegato, sognatore e letterato. L'insuccesso di un romanzo pubblicato all'età di vent'anni non è riuscito a togliergli il gusto ingenuo della letteratura. Ha cambiato però genere: scrive per ora favole, secche e brevi, 'mummiette' per dirla con lui, quali esercizi critici delle mancanze della vita. Protagonisti ne sono gli animali: la mosca prima, l'elefante poi ed infine i passeri. La riflessione favolistica sui passeri fungerà da controcanto alla vita, fino alla fine della novella. L'ambiente è Trieste negli anni della prima guerra mondiale: non manca, infatti, la satira politica, messa proprio in opera dalle favole. La burla colpirà proprio Mario e proprio in ciò che ha di più caro: la letteratura. Giulio, fratello maggiore di Mario è condannato a letto dalla gotta. Mario ha per lui cure assidue. Alla sera per conciliargli il sonno gli legge il suo romanzo, che così, a voce alta, gli sembra ancora più bello. Brauer, collega d'ufficio di Mario, è un suo grande estimatore. Gaia, un tempo come Mario, cioè scrittore e poeta, è ora un abile e superficiale viaggiatore di commercio. Fra i due non corre buon sangue. Implicitamente si ricordano a vicenda le reciproche, tradite o no, sfortunate illusioni letterarie. E' in questo clima di raffinate ambiguità che matura la perfida burla del commesso Gaia al letterato Mario Samigli. La burla è descritta nella seconda parte della novella. Il giorno fatidico è quello dell'arrivo degli italiani a Trieste: il 3 novembre 1918. Mario e Gaia s'incontrano al bar. Commentano l'avvenimento e Mario se n'esce ancora con un'espressione da letterato. Per Gaia pensare la burla e metterla in opera è un'inezia. Con l'aiuto di un amico tedesco arriva insomma a far firmare a Mario un falso contratto con un grande editore viennese , per una somma davvero elevata. E' la gloria: la vita dei fratelli Samigli cambia di colpo. Certi faticosi equilibri si rompono, altri se ne formano. Brauer anticipa soldi a Mario, comperano mobili e la casa cambia aspetto, finché tutto si scopre. Mario affronta Gaia e lo percuote sonoramente. Ma commercialmente la burla si rivela per Mario un affare, perchè grazie ad operazioni bancarie fatte per lui sulla fiducia dell'amico Brauer, guadagna una cifra pari a quasi la metà di quella prevista dal falso contratto. Ma, Mario, data la sua natura, non può accettare quel denaro senza tentare di nobilitarlo, e lo fa, scrivendo l'ennesima favola.



La madre

Si narra di alcuni pulcini senza chioccia, i quali soffrono per avere saputo, dalla contadina che li nutre, che essere senza madre è una grande sventura. Curra, uno di loro, lasciata la compagnia, va in cerca della madre. Si dirige in un giardino vicino, dove vede alcuni pulcini stringersi intorno alla chioccia, che egli pensa subito essere un pulcino gigante. La chioccia li curava e li scaldava con amore e con cura. Curra pensò proprio che quella fosse la madre e quando essa, grattando il terreno, fece affiorare dei vermi per i suoi pulcini, Curra si precipitò e, convinto di aver capito meglio degli altri la volontà della madre, li mangiò. La madre si gettò su di lui e lo colpì furiosamente. Curra dapprima pensò che fossero carezze, magari un po' pesanti, ma poi capì che erano percosse e fuggì. La madre lo inseguì fino alla siepe e, guardandolo ferocemente, gli chiese chi fosse. Curra rispose a sua volta chiedendo chi fosse lei. La chioccia rispose allora solennemente che lei era la madre.

Il vecchione

In queste prime pagine del romanzo che Svevo si era accinto a scrivere nel 1928, basta al 'vecchione' Zeno la vista di una fanciulla per dar campo ai ricordi ed alle riflessioni sulla vita, che egli tenta di fissare sulla pagina, pronto a ritrovarla 'se si sa aprire la pagina che occorre'.



Corto viaggio sentimentale

Il signor Aghios ritorna a Trieste, dopo aver accompagnato la moglie a Milano. In treno, solo, egli riassapora la propria libertà, la capacità di mettersi in relazione alle cose, tanto che un casuale compagno di viaggio, il commerciante Borlini, lo deride definendolo poeta e sognatore. Aghios s'intrattiene poi con un giovane viaggiatore che gli narra la propria sventura nell'intento di estirpargli il denaro che egli aveva incautamente nominato. Aghios, stanco del viaggio si assopisce e a Gorizia, risvegliatosi, scopre di essere stato derubato dal giovane.


La buonissima madre

Amelia, educata ai severi principi di interesse borghese, accetta di sposare il ricco Emilio Merti, benché questi sia deforme, dopo essersi accertata, essendo ella una fedele seguace di Darwin, che tale deformità non intaccherà i figli. Dopo due anni essi hanno un figlio che accentua e peggiora i difetti del padre ed Amelia trascorre così tutte le sue giornate prodigandosi in cure per entrambi. Il figlio, ammalatosi improvvisamente, muore, ed Amelia decide allora di avere figli sani e va in cerca di una nuova fecondazione, abbandonando immediatamente l'uomo che a tale scopo era servito.



Terzetto spezzato

Personaggi: Clelia, il marito di Clelia e l'amante di Clelia.

Il marito e l'amante piangono la morte di Clelia, la quale ritorna ai due in veste di fantasma. Ella, dopo la morte, è venuta a conoscenza dei pensieri del marito, il quale non esita ad approfittare di tale straordinaria facoltà della moglie per chiederle una previsione riguardante il futuro del proprio commercio. Clelia rifiuta di assecondarlo ed egli si vendica negandole i fiori sulla tomba. L'amante rimane il solo a rimpiangere l'amore perduto.


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Appunti su: a quale fatto zeno attribuisce il suo sozzo vizio del fumo, https:wwwappuntimaniacomumanisticheletteratura-italianoitalo-svevo-cenni-allevoluzion64php,



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