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Definizione
Atteggiamento di manifestazione del malessere del vivere sociale, nello spirito e nel gusto, manifestatosi in un primo momento nella letteratura, poi nelle arti e nel costume. E' caratterizzato da una visione estetizzante della vita, dall'esplorazione di zone ignote della sensibilità, dalla scoperta del subcosciente, che l'arte fu chiamata a esprimere in forme nuove e irrazionali
Origine del termine
Il termine 'decadente' ebbe in origine senso negativo. Fu infatti rivolto polemicamente contro alcuni poeti che esprimevano lo smarrimento delle coscienze e la crisi di valori del tempo, avvertendo, di là dall'ottimismo ufficiale e spesso ipocrita della società, il fallimento del sogno positivistico
Ma quegli scrittori fecero della definizione una polemica insegna di lotta, in cui si gettavano, di fatto, i fondamenti d'una nuova visione del mondo e d'una nuova realtà. Essi ebbero insomma la coscienza di vivere un'età di trasformazioni e di trapasso, si sentirono insomma gli scrittori della crisi, e avvertirono che il loro compito non era quello di proporre nuove certezze, ma di approfondire i termini esistenziali di questa crisi sul piano conoscitivo.
Movimenti letterari legati al decadentismo
Il Decadentismo è un fenomeno complesso, polivalente nella sua multiforme tematica, nei suoi esiti artistici, nei suoi valori e disvalori, pertanto non c'è, come nel Romanticismo o nel Naturalismo, una poetica che faccia da punto di riferimento comune al variare delle singole esperienze. Abbiamo piuttosto varie direzioni di ricerca, una proliferazione di poetiche, che possono in parte legarsi a due movimenti culturali della letteratura europea: il simbolismo e l'estetismo. Anche in Italia non è possibile ritrovare una corrente letteraria unificante, ma piuttosto poetiche individuali che si rifanno ai miti italiani: quella del 'superuomo' in D'Annunzio, del 'fanciullino' in Pascoli, del 'santo' in Fogazzaro. Una reazione a questi miti, all'affermazione eroica dell'io, è rappresentata dalla poesia dei crepuscolari italiani che si rifanno ai temi del decadentismo francese.
Accomuna queste esperienze la ricerca di nuovi strumenti espressivi, il rigetto della cultura positivista e il rifiuto spesso aristocratico della società contemporanea in ciò che essa ha di abitudinario, di etica comune, di valori diffusi a livello di massa.
Riconducibile al decadentismo è anche il nascere delle avanguardie, cioè di movimenti che pur con grande diversità di poetiche, mirano alla sperimentazione di nuove tecniche espressive che, muovendo tutte da premesse irrazionalistiche, segnino una radicale frattura col passato e siano voce e testimonianza della consapevolezza della crisi. E' un'esplosione che dura suppergiù fino agli anni '30 e comprende le cosiddette 'avanguardie storiche': il futurismo, l'espressionismo, il dadaismo, il surrealismo.
Dove e quando
E' difficile stabilire i limiti cronologici del decadentismo letterario. Il decadentismo nacque in Francia contemporaneamente al realismo-positivismo, costituendo di fatto l'altra faccia della cultura degli anni 1850-60, una cultura di minore importanza all'epoca ma già grandiosa nelle sue realizzazioni. Raggiunse il suo culmine attorno agli anni 1885-90 ma non è facile stabilire un momento di chiusura poiché il malessere sociale che ne costituiva l'humus verrà riscontrato anche nel novecento, fino ai nostri giorni.
La psicoanalisi
La psicoanalisi nasce verso la fine dell'ottocento e ha come oggetto d'indagine proprio il disagio della civiltà tanto declamato dai decadentisti. Sigmund Freud (1856-1939), il fondatore, indagò sulle componenti irrazionali della personalità umana, sui sogni, sui ricordi della più remota infanzia sommersi nel profondo della memoria, per capire il senso di malessere dell'uomo.
Anch'egli sostiene che il fondamento della personalità sia la vita istintiva ed erotica, e che la sua repressione sia dovuta al disagio della civiltà; ma riconosce anche che l'unica via di liberazione stia nella presa di coscienza delle distorsioni e degli inceppamenti della meccanica psicologica, attraverso la ragione. Egli sostiene infatti: 'La voce dell'intelletto è tenue ma non tace prima di aver ottenuto udienza. Alla fine, sovente dopo innumerevoli ripulse, trova ascolto.' Questi è uno dei pochi punti per cui si può essere ottimisti sull'avvenire dell'umanità, ma in sé non è cosa da poco e vi si possono riannodare altre speranze. Il primato dell'intelletto è certo molto, molto lontano, ma verosimilmente non a distanza infinita.
La filosofia
Una tra le più importanti filosofie, che descrivono la crisi della cultura europea ottocentesca è sicuramente quella di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), il quale si inserisce negli atteggiamenti decadentisti per la reazione antipositivistica e per la polemica contro la tirannia della ragione scientifica. Egli contrappone a tutti i valori tradizionali (principi democratico- egualitari, piatta fiducia nel deterministico progresso), l'esaltazione della forza, del vitalismo, l'Eros gioioso e libero, e, all'apice di tutto, la 'volontà di potenza' e lo spirito agonistico. Sono le componenti del superuomo, la cui etica è al di sopra della morale comune con i suoi concetti di bene e male, di pietà per i falliti ed i deboli. Questa morale comune non è che la debolezza, il diminuire della gioia dei piaceri della vita, cioè le conseguenze della decadenza provocati dalla predicazione cristiana. La filosofia di Nietzsche costituisce il supporto ideologico per la letteratura decadente nella sua corrente per così dire 'attiva'.
Gli autori del decadentismo
Accanto a Baudelaire in cui questa malattia ha un nome, si chiama spleen, abbiamo un altro grande precedente: Dostoevskij. Egli inizia il suo libro, 'L'uomo del sottosuolo' con le parole: 'Sono malato, sono randagio'. Questa categoria della malattia è il simbolo più evidente del sormontare di quelle ragioni inconsce di cui parlavamo prima. Si capisce che crede che la ragione possa risolvere tutto e che la storia sia un corridoio molto lungo che può essere percorso in tutta la sua lunghezza risolvendo tutti i problemi che si presentano per la strada, è un ottimista, quindi non è malato, non ha problemi di adattamento al reale, il reale gli va benissimo e se gli va male combatte per farlo andare come vuole lui.
Invece che sente di obbedire a delle ragioni che sono fuori dalle sue possibilità di conoscenza e volontà non può essere ottimista nelle sorti di se stesso e del mondo: tende a sentire se stesso come fuori campo, come diverso. Per questo la letteratura decadente è un letteratura della diversità e molti autori sono stati testimoni di questa diversità o perché ebrei, o perché donne o perché omosessuali o perché malati, per giungere a casi estremi di Kafka e Proust, come noi abbiamo casi eccellenti come Pirandello e Svevo.
Se pensate al personaggio sveviano, vedete che è, come Svevo stesso lo definisce, un 'inetto', cioè colui che non è capace, che non è adatto a vivere, ad amare, ad avere dei rapporti efficaci nei confronti della realtà e quindi si sente diverso dagli altri. Non è che non abbia doti, anzi ne ha troppe, è più intelligente del necessario, ma questa intelligenza non è applicativa, non gli serve a modificare se stesso e il mondo: è quello che Dostoevskij ha chiamato ipertrofia della coscienza, è un'intelligenza che lo fa star male invece de renderlo più adatto alla società.
Nel I romanzo di Svevo, ad esempio, Alfonso Nitti che va a lavorare in banca, è un intellettuale, in qualche modo, in quanto passa il suo tempo libero nella biblioteca a studiare i filosofi, scrivere perché ha questa intelligenza in eccesso che cerca la via nella scrittura. Ma in banca no è capace di fare il semplice mestiere dell'impiegato: deve fare il copialettere, ma copiando, fa un sacco di errori e non perché è un ignorante, ma perché è troppo intelligente e invece per fare l'impiegato modello bisogna essere un po' stupidi, bisogna sapersi adattare al reale. Se a quel tempo ci fossero stati computer, un impiegato come Alfonso Nitti avrebbe combinato un sacco di pasticci, proprio perché il computer è stupido e fa ciò che gli si dice di fare. Chi è troppo intelligente si illude di rendere intelligente anche il suo strumento e lo manda in tilt. È la stessa posizione che aveva Kafka di fronte alla sua macchina da scrivere: i suoi compagni impiegati la usavano tranquillamente come uno strumento da scrivere e lui invece restava in una specie di adorazione mistica di fronte alla macchina da scrivere, in una specie di impotenza adorante. In Svevo dunque il personaggio è questo inetto che non riesce ad avere questo rapporto soddisfacente con la realtà. Questo, in altri termini, si può dire, anche del personaggio, pirandelliano ad esempio 'Il Fu Mattia Pascal', questo personaggio che è perseguitato, in un certo senso dalla divisione dell'io, che poi si sdoppia, diventando Adriano Meis, ma diventando proprio il Meis si illude di incominciare una nuova vita ma in realtà riesce solo a dimostrare di non essere capace di vivere e cerca di ritornare Mattia Pascal facendo il secondo suicidio e ritornando al suo paese come Mattia Pascal. Ma al suo paese non è più nemmeno Mattia Pascal e al termine della vicenda si ritrova 'nessuno', l'unica consolazione è andare a trovare la propria tomba al cimitero dove c'è una lapide con scritto: 'Qui giace Mattia Pascal'. È questo l'inetto, il malato, il non-essere della grande narrativa decadente e questo vale per tutti i decadenti anche non italiani: Proust, Joyce, Mann. Queste storie di nichilismo, di annientamento dovute al cedimento di fronte a tutto ciò che sovrasta l'io come coscienza. Del resto vale la pena di citare la bella definizione che Freud dà del subconscio quando paragona l'inconscio alla parte immersa dell'iceberg e la coscienza alla parte emersa. La coscienza è quindi poca cosa di fronte a quella totalità dell'io rappresentata dalla parte immersa. La natura idealistica è quella che s'illude che l'io dell'uomo sia risolvibile tutto in termini di coscienza: ma questo è soltanto la parte minore della situazione, c'è sotto tutto il resto.
Il protagonista della letteratura decadente è un eroe che è consapevole di questo mistero che sta alle spalle della coscienza., che può essere anche un mistero religioso e che comunque lo trascende inesorabilmente facendolo inetto a vivere nella realtà.
Il suo vero nome è Aron Hector Schmitz, nasce a Trieste il 19 dicembre 1861, da un padre ebreo di origine tedesca (il nonno Astolfo era giunto a Trieste come funzionario dell'impero asburgico) e da madre italiana, porta in sé questo carattere di estraneità che è tipico anche in altri scrittori ebrei: Kafka, Musil, Proust, Rilke, Freud, la cosiddetta 'famiglia ebraico-cristiana'. Cresce cittadino austriaco fino al 1918, viene educato in un collegio tedesco (1874-78), vive in una città di confine come Trieste, marginale alla cultura italiana e a quella austriaca, ma, a causa dei traffici commerciali e della sua posizione geografica, profondamente immersa nella mentalità mitteleuropea (Vienna, Budapest, Praga) da partecipare di fatto, al di là delle differenze linguistiche e dei sentimenti irredescentistici. In questa città, 'crocevia di più popoli' e 'crogiulo europeo', Svevo si forma una cultura poco italiana e molto europea: legge francesi, tedeschi, russi.
Lo pseudonimo di Italo Svevo indica comunque la sua consapevolezza di appartenere a due tradizioni culturali, quella italiana e quella germanica. Rimane 18 anni impiegato alla Banca Union (1880-1898); sposa nel 1896 la ricca Livia Veneziani e lavora nel colorificio del suocero (vernici sottomarine). Nei primi anni del secolo (1907) conosce l'irlandese Joyce, esule a Trieste, che gli dà lezioni di inglese e con il quale stringe una feconda amicizia letteraria (Joyce ha scritto Ulisse, Dedalus, Gente di Dublino ed è un esperto del 'flusso di coscienza' automatico e del racconto analitico). Negli anni 1910-12 scopre la psicanalisi attraverso le opere del viennese Sigmund Freud, anzi con un nipote medico traduce Il sogno. Subisce l'influsso del filosofo tedesco Schopenhauer. Nel 1925-26 esplode il 'caso Svevo' in Francia e in Italia. Muore nel 1928 a Motta di Livenza per un incidente d'auto.
In Svevo è caduta ogni funzione sociale e ideologica della letteratura: essa è attività privata, un vizio (almeno rispetto al mondo degli affari). L'autore stesso la praticò in questo modo, senza illusioni e con molti disinganni, fino a pensare seriamente di abbandonare, dopo l'insuccesso del secondo romanzo. I protagonisti dei tre romanzi sono dei letterati falliti: Alfonso scrive un romanzo a quattro mani con Annetta e, alla fine, si suicida (Una vita); Emilio è ancora una volta un letterato annoiato e deluso (Senilità); Zeno Cosini entra in scena con un diario che è definito dal dottore un cumulo di 'tante verità e bugie', creando così le premesse di una ambiguità che svuota le stesse possibilità di un racconto reale (La coscienza di Zeno).
Perché scrivere allora? La funzione si capovolge: non più estetica o sociale, ma conoscitiva e critica. L'intellettuale, identificato ormai con l'inetto, il diverso, il malato, il nevrotico, ricorre alla letteratura, estraniandosi dall'attività economica e dai modelli sociali, per recuperare la misura della sua esistenza, mediante l'autoanalisi, e dei rapporti sociali. È una conoscenza frammentaria e disorganizzata della realtà, ma lo scrittore, ponendosi sul piano dell'ironia, prende le distanze dal mondo dei 'sani' recupera una sua parziale autonomia, può esercitare la tolleranza verso di sé e gli altri.
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