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Il tormentato rapporto tra Neorealismo e Cesare Pavese
L'Italia, uscita dalla tragica realtà del conflitto mondiale e della guerra civile, è un Paese povero, sconfitto, ma fortemente impegnato nella ripresa democratica. Alla luce delle recenti esperienze della guerra e della partecipazione popolare alla Resistenza, gli intellettuali italiani sentono il bisogno di un impegno volto a rappresentare la concreta condizione dell'uomo contemporaneo, con i suoi problemi quotidiani e le sue contraddizioni sociali. In questa ottica si può affermare che il Neorealismo sia l'ultima ondata del naturalismo ottocentesco: si tratta, infatti, di uno stato d'animo collettivo, di un'esigenza sincera, anche se a volte confusa, di una disposizione dell'animo più pratica, etico-politica e non estetica, in funzione di una forte volontà di rinnovamento, come ben testimonia la rivista Politecnico diretta da Elio Vittorini, pubblicata a Milano tra il '45 e il '47.
Con questi presupposti è evidente che la letteratura degli anni'30 sembri agli intellettuali dell'età del Neorealismo troppo lontana dalle esperienze maturate e dalle passioni vissute durante la guerra. La produzione letteraria tra le due guerre appare priva del contatto diretto con la realtà, lontana dalla vita della gente e, quel che è peggio, sembra aver subìto passivamente il Fascismo, senza il coraggio di opporvisi. Questa posizione, fortemente ideologica, si esprime in un diffuso giudizio di condanna nei confronti della letteratura precedente, che esclude ogni possibilità di comprendere ciò che di positivo vi era comunque stato nell'assenza, nel tenersi in disparte di tanti letterati sotto il regime, primo fra tutti Eugenio Montale (si pensi alla lirica "Non chiederci la parola").
Pur tuttavia le critiche più aspre degli intellettuali sono rivolte alla cultura del Decadentismo, ritenuta la più lontana dalle suggestioni del dibattito politico e ideologico del tempo, in quanto rivelatrice non soltanto di un eccessivo distacco dalla realtà delle masse, ma anche del tentativo, imperdonabile, di giustificare le violenze dei totalitarismi attraverso il mito del superuomo.
Trattandosi più di uno stato d'animo collettivo, che di un movimento culturale nettamente codificato, è difficile individuare i canoni del Neorealismo, in quanto manca una comune enunciazione poetica. Pur tuttavia alcune tendenze di fondo del movimento, tutte riconducibili alla fiducia nel rinnovamento, sono rintracciabili nel:
Al di là di queste linee di tendenza, si può affermare che la narrativa neorealista si affermi a Torino a partire dagli anni '40, sviluppandosi poi seguendo tre fasi:
Si colloca nella prima fase del movimento neorealista la produzione
artistica di Cesare Pavese, scrittore nato nel
Sotto questo profilo, dunque, Pavese è uno scrittore che non ha quasi niente a che fare con il Neorealismo strettamente inteso. Egli nutre una profonda avversione per la cultura razionalista dominante nel dopoguerra: prende la tessera del Pci e collabora con l'Unità per ragioni sostanzialmente morali ed umanitarie. Pavese, infatti, condivide le motivazioni antifasciste, ma non intende impegnarsi attivamente nella lotta politica: come tutti i grandi scrittori, non può avere obbedienze ideologiche. Alieno ai dogmi politici, Pavese è il primo degli intellettuali di sinistra a riconoscere che si debba parlare di olocausti e non di olocausto, a comprendere che l'intellettuale organico, figlio del fascismo, è adottato da tutti i regimi totalitari. E' evidente come, nel clima di quegli anni, Pavese sia un personaggio scomodo, considerato dai compagni comunisti un inetto sul piano politico. La pressione esercitata su di lui dall'ambiente intellettuale, al quale Pavese si sente sostanzialmente estraneo, è motivo di profonda crisi, che in lui diviene dramma esistenziale. Per Pavese, infatti, l'artista e l'uomo sono un'unica persona perché letteratura e vita sono la stessa cosa: considera l'artista un lavoratore, e il letterato un uomo che lavora sulle parole. E la parola, per Pavese, è davvero tutto, è l'umanità stessa. Tormentato, angosciato e pieno di dubbi, Pavese è un uomo tragico e uno scrittore fortemente impregnato di tradizione romantica e decadente. Nel chiedersi sempre la qualità del vivere, Pavese è attento soprattutto a tutto ciò che sta al di là dell'oggetto, finendo con il fare della sua vita e del suo lavoro uno stesso problema. Da giovane, nel '36, conosce di persona la repressione degli intellettuali attuata dal regime, ed è confinato a Brancaleone calabro per aver accettato di ricevere la corrispondenza diretta ad una donna iscritta al Pci, senza conoscere il contenuto delle lettere che riguardavano complotti antiregime. La permanenza in un paese mediterraneo, sede di antichi ricordi della Magna Grecia, stimola il giovane Pavese a ritrovare il desiderio della classicità, che esporrà come dimensione fondamentale della sua estetica, nell'opera autobiografica Il mestiere di vivere, iniziata al confino e pubblicata postuma. Pavese è una sorta di poeta che vuole essere narratore: parte dal dato oggettivo, ma poi lo trascende servendosi dei miti classici, che generalmente sono tragici, per dire cose molto forti che non avrebbe potuto dire altrimenti.
Il rientro a Torino segna l'avvio della collaborazione con Einaudi: tra il '41 e il '42 Pavese diviene un novelliere conteso da giornali e riviste. Finita la guerra comincia la sua produzione letteraria più intensa, di cui lo scritto poetico-filosofico "Dialoghi con Leucò" del 1947, seppur stroncato dalla critica, costituisce una tappa essenziale. I romanzi di Pavese pubblicati in questi anni, come del resto quelli di Beppe Fenoglio la cui importanza nel panorama culturale italiano è stata riconosciuta solo di recente, sono in realtà racconti mitici in cui le preoccupazioni di testimonianza politico-sociale sono davvero secondarie. Ad esempio nel breve romanzo "La Casa in collina" del 1948, la materia partigiana serve a narrare il viaggio di ritorno verso la collina, metafora della mammella materna. La correlazione con Fenoglio è evidente: basti pensare al romanzo epico "Il partigiano Johnny" fondato su una lotta estrema di sopravvivenza esaltante e drammatica, in cui il protagonista stabilisce un rapporto a tu per tu con la morte.
Lo scrivere romanzi mitici in un'epoca in cui trionfa la poetica dell'engagement, è un paradosso e un dramma per Pavese, che vive e lavora all'Einaudi, centro d'irradiazione della cultura engagé. Probabilmente il suo tormentato percorso di artista, che lo condurrà al suicidio, prende le mosse da quella disperata consapevolezza di sé, da quel disagio esistenziale che gli derivano dalle aspre critiche a lui mosse dai conformisti dell'intellighentia dominante nella sinistra ortodossa. Pavese in questi anni è accusato di esprimere un neorealismo privo di senso etico, insomma di non essere un progressista: ma i veri scrittori come Pavese si portano dietro miti personali indipendenti dalle circostanze storiche, anche drammatiche, in cui vivono.
Tra il '46 e il '50 Pavese scrive numerose opere:
Molto si è scritto sulla sua tragica fine, ma una cosa è certa: Pavese nel suo percorso di artista ha maturato una delusione su se stesso, che è diventata una delusione vitale. Non compreso, più volte lo scrittore ha espresso un suo pensiero fondamentale: "Non ci si uccide per un amore, ci si uccide perché un amore ci mette di nuovo davanti a quello che noi siamo, cioè nulla". Nelle sue opere, oggi pienamente apprezzate dalla critica, si ritrova quell'inestinguibile patrimonio etico e culturale che affonda le radici nella nostra cultura umanistica e classica.
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