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Giacomo Leopardi
BIOGRAFIA
Leopardi nasce a Recanati, paese dello Stato Pontificio, oggi nelle Marche, il 29 giugno 1798, dal conte Monaldo e da Adelaide Antici, appartenenti ad una famiglia nobile ma in cattive condizioni economiche. Il padre, di orientamenti reazionari, possiede una ricca biblioteca, che accrescerà l'istruzione del giovane Giacomo, dopo la prima educazione da parte di precettori ecclesiastici. la biblioteca paterna, però, gli consentirà solo un'istruzione accademica e di stampo illuministico. Tra il 1815 e il 1816 si ha quella che lui stesso definisce come la conversione dall'erudizione al bello, cioè da una cultura arcaica e superata ad uno studio appassionato dei poeti classici (Omero, Virgilio e Dante; l'autore greco che preferisce è Mimnermo) ma anche dei moderni e viene a contatto con le idee romantiche, che però criticherà, anche a seguito dell'amicizia con Pietro Giordani, di orientamento classicista. L'apertura con il mondo esterno gli rende insostenibile l'atmosfera chiusa di Recanati, dal quale prova a fuggire nel 1819; il fallimento di questa impresa lo getta ancor più nello sconforto, che lo porterà alla percezione della nullità di tutte le cose del mondo, nucleo del suo sistema pessimistico. Questa crisi segna la sua seconda conversione, dal bello al vero, cioè dalla poesia immaginativa alla filosofia e alla poesia di pensiero. Del 1819 sono anche le prime sperimentazioni letterarie, che porteranno alla composizione dei "piccoli idilli". Nel 1822 si reca a Roma pieno di speranze, ma è presto disilluso e l'anno dopo sarà nuovamente a Recanati, dove inizia la composizione delle Operette morali (dialoghi e saggi), anche a causa di un periodo di aridità che gli impedisce di comporre poesie. Nel 1825 inizia a lavorare per l'editore Stella, quindi si reca a Milano, Bologna, Firenze e Pisa, dove, nel 1828, inizia di nuovo a comporre le poesie che saranno denominate "grandi idilli". A causa di problemi di salute, nello stesso anno deve far ritorno a Recanati, da dove fuggirà per sempre due anni più tardi. Trasferitosi a Firenze, si apre anche a nuovi rapporti sociali, tra cui la sua amicizia con Antonio Ranieri e l'amore per Fanny Targioni Tozzetti. Infine nel 1833 si trasferisce con Ranieri a Napoli, dove muore nel 1837.
IL PESSIMISMO E LA NATURA
Il Pensiero di Leopardi si concentra sull'infelicità dell'uomo: la felicità umana, infatti, è identificata nel piacere materiale e sensibile, ma tale piacere, infinito per estensione e durata, non viene soddisfatto dai piaceri temporanei terreni, e quindi l'uomo è infelice e coglie la nullità e la vanità di tutte le cose, sempre in senso puramente materiale (Teoria del piacere).
La natura, secondo il primo Leopardi, è madre benigna e provvidenziale, che si premura affinché le sue creature non soffrano, e quindi crea delle illusioni con le quali maschera la triste realtà. Gli uomini antichi, infatti, erano felici perché, essendo in stretto ed intimo rapporto con la natura, non conoscevano la realtà e la sua vanità; la scienza ha portato l'uomo lontano dalla natura, alla conoscenza del reale e quindi all'infelicità. Questa fase è denominata pessimismo storico.
La ragione però smaschera le illusioni e da qui deriva un atteggiamento titanico del poeta che da solo si erge a sfidare il fato: quest'ultimo viene per un certo periodo contrapposto alla natura benigna, ed è visto come una forza che agisce per il male dell'uomo (dualismo); poi però Leopardi contrappone alla natura benigna quella matrigna, per approdare infine alla concezione secondo cui la natura, meccanismo cieco, è totalmente indifferente (Dialogo della Natura e di un Islandese) a quanto capita all'uomo e agisce solo per la sopravvivenza della specie e la conservazione del mondo: questa è una concezione non finalistica ma meccanicistica e materialistica, con cui Leopardi incolpa la natura, vista come divinità malvagia, e non più l'uomo, dell'infelicità umana, non più assenza di piaceri, ma provocata da mali esterni.
Con ciò, Leopardi approda al pessimismo cosmico: l'infelicità è propria di tutto il genere umano e non dipende più dall'epoca e dalla condizione storico-sociale nella quale si vive. Questa fase coincide anche con l'abbandono della poesia civile e del titanismo, perché se l'uomo è condannato all'infelicità, ogni lotta è vana e il poeta può solo contemplare la realtà in modo ironico e distaccato: l'ideale di Leopardi non è più l'antico eroe ma il saggio stoico e la sua atarassia. Da queste considerazioni nasceranno le Operette morali.
POETICA DEL VAGO E DELL'INDEFINITO
L'uomo, per appagare la sua ricerca del piacere, che è infinito, può ricorrere all'immaginazione, che crea una realtà parallela, in cui egli è illusoriamente soddisfatto; lo stimolo che genera questa creazione proviene da tutto ciò che è vago ed indefinito, come anche le visioni di ostacoli (la siepe ne "L'infinito") che lasciano immaginare un infinito al di là ( teoria della visione) ma anche la sensazione di suoni suggestivi perché vaghi (come un'eco) (teoria del suono). «Tutte queste immagini», dice Leopardi stesso, «in poesia sono bellissime» e il bello dell'arte sta proprio nell'imitarle. Queste immagini poi sono suggestive anche perché evocano sensazioni che ci hanno affascinate da fanciulli (poetica della rimembranza: la poesia è il recupero delle sensazioni dell'infanzia attraverso la memoria). La poesia è per Leopardi espressione di una spontaneità originaria e fanciullesca. I maestri della poesia vaga ed indefinita, proprio perché più vicini alla natura, erano ovviamente gli antichi; riprendendo una teoria di Schiller, Leopardi opera una distinzione tra poesia d'immaginazione (quella degli antichi) e poesia sentimentale (quella dei moderni, densa di pensieri, filosofica, che nasce dalla consapevolezza del vero e dell'infelicità). Pur sapendo che la poesia d'immaginazione è ormai preclusa ai moderni, Leopardi non rinuncia alle illusioni, seppure vane; De Sanctis dice che "Leopardi produce il contrario di quello che si propone: dice che le illusioni non esistono ma te ne accende in cuore un desiderio inesausto"; e, infatti, è un poeta: se fosse rassegnato sarebbe un filosofo.
LEOPARDI E IL ROMANTICISMO
Leopardi può essere considerato Romantico per le tematiche che privilegia sia per le innovazioni linguistiche e metriche presenti nelle sue poesie; egli riprende dal Romanticismo la tensione verso l'infinito, il voler stravolgere gli schemi. La poetica di Leopardi è individuata con il termine di classicismo romantico, perché il poeta critica entrambi i movimenti:
C l a s s i c i s m o |
R o m a n t i c i s m o |
classicismo accademico e pedantesco; principio di imitazione; regole rigidamente imposte dai generi letterari; abuso ripetitivo della mitologia classica |
artificiosità retorica; ricerca dello strano, dell'orrido e del truculento; predominio della logica sulla fantasia; aderenza al vero |
Per tutto questo, Leopardi privilegia la forma letteraria della lirica, espressione della soggettività e dei sentimenti, avvicinandosi alla scuola romantica d'oltralpe, non certo per lo sfondo filosofico (Illuminismo per Leopardi, idealismo per il Romanticismo), ma per la tensione verso l'infinito, per la concentrazione sulla soggettività e sui sentimenti, per il culto della fanciullezza e delle civiltà primitive, per il senso tormentato del dolore cosmico e per la predilezione per un mondo immaginario contrapposto alla realtà. Tuttavia
LA FELICITÀ LEOPARDIANA
Leopardi esprime il suo concetto di felicità nella cosiddetta "Teoria del piacere", all'interno dello Zibaldone, una specie di diario in cui il poeta annota i suoi pensieri. La felicità, infatti, s'identifica nel piacere, o meglio, nella ricerca dello stesso: così, infatti, dei giorni della settimana, sei sono di noia e uno solo, il sabato, di felicità, che s'identifica con l'attesa della domenica, il "dì di festa". La tendenza ad un piacere infinito è congenita nella natura stessa degli essere viventi, che quindi sono destinati all'infelicità. Indipendentemente dalla ricerca del piacere, poi, nell'uomo esiste una facoltà immaginativa che concepisce le cose che non sono, per esempio (e soprattutto) il piacere, che può anche essere immaginato infinito; dall'immaginazione del piacere derivano quindi le speranze e le illusioni, nelle quali consiste la felicità dell'uomo stesso. La natura quindi, pur non concedendo all'uomo il raggiungimento del piacere, gli ha permesso di immaginarselo, donandogli delle illusioni, ma anche di distrarsi, fornendogli un'immensa varietà di cose, perché non si soffermi troppo a logorarsi nella noia. Proprio per questo, nella fase del pessimismo storico, Leopardi afferma che gli antichi erano più felici dei moderni: perché avevano più immaginazione e perché erano più vicini alla natura di quanto non lo sia i moderni. La pena dell'uomo nel provare piacere è di vedere subito i limiti della sua estensione: da qui il fatto che i beni lontani siano più belli e desiderabili di quelli vicini, che l'ignoto affascini più del noto e che l'uomo ami le idee vaghe ed infinite; inoltre l'anima ama gli ostacoli che si pongono alla vista di un paesaggio perché le permettono di immaginare l'infinito che potrebbe celarsi dietro di essi.
ANALISI E COMMENTO DI ALCUNE OPERE
L'infinito: Il colle di cui parla nel primo verso è il monte Tabor, dove Leopardi si recava per riflettere. L'idillio alterna delle descrizioni paesaggistiche, che definiscono la sensazione di limite (la siepe), che gli permette di immaginarsi (mi fingo) un infinito al di là (tensione Romantica), e meditazioni sull'infinito stesso (per poco il cor non si spaura, che indica che il suo cuore umano, cioè la capacità di pensare razionalmente, si perde nell'infinito che l'immaginazione ha creato). Nella prima parte dell'idillio la sensazione è visiva, mentre nella seconda è uditiva. Esattamente a metà si colloca una pausa forte, che indica un momento di meditazione, che non si sa quanto duri. Nell'intera poesia si susseguono una serie di questo e quello, ad indicare rispettivamente il finito e l'infinito, con l'eccezione di questa immensità, al verso 13-14, che testimonia come Leopardi abbia raggiunto il limite. Il ricordo (mi sovvien) dell'eterno è en pendant con l'idea dell'infinito, perché di entrambi non possiamo avere esperienza. il naufragar dolce è un ossimoro. Il linguaggio è elevato, aulico, ma fluido, anche se meno ritmato di altri componimenti; ben diverso comunque da quello del Manzoni. Mentre la prima parte può essere definita di meditazione filosofica, la seconda è di meditazione storica. L'individualismo è sottolineato dall'io al verso 9. Percepire l'infinito equivale a dimenticare, seppure solo per un attimo, il dolore della vita; gli enjambements testimoniano il fatto che leopardi non voglia limiti. Il naufragar nell'infinito e nell'eterno non è come in altri poeti romantici una semplice fuga nell'irrazionale e nel sogno, ma un processo immaginativo e consolatorio sottoposto ad un preciso controllo razionale, come un sogno fatto alla presenza della ragione. La situazione è iterativa: tutti i verbi sono, infatti, al presente. Il suon di lei è una sinestesia.
Alla luna: È stato composto l'anno seguente de "L'infinito"; nel mezzo c'è il tentativo di fuga. I due motivi fondamentali del componimento sono la contemplazione e il ricordo, presenti in tutti gli idilli. È come un dialogo tra amanti, tra il poeta e la luna, nel quale il primo si rivolge alla seconda con espressioni da vero innamorato (o mia diletta). L'immagine della luna è vista attraverso le lacrime, che derivano appunto dal fallito tentativo di fuga. Qui si esprime il concetto secondo cui la vita è dolorosa ma il ricordo è piacevole perché nella giovinezza si hanno pochi ricordi e tanta speranza, quindi il dolore è qui attutito dalla memoria; il pezzo quando ancorcorso ( ai versi 13 e 14) nella prima stesura non c'era ma rende l'idillio ancora più pacato. In questo idillio c'è più contemplazione che riflessione rispetto all'infinito; l'inizio è un'apostrofe.
La sera del dì festa: mi getto, e grido, e fremo è uno sfogo Romantico. È stato definito l'inizio più bello di poesia italiana; è un idillio fatto di contemplazione, dove la luna comunica serenità e tranquillità, forse piena, limpida, che rappresenta l'immobilità e non, come sempre, l'instabilità. Le montagne, rischiarate dalla luna, sono serene e, seppure nel buio, non fanno paura. La donna a cui si rivolge è immaginata, non reale, in contrapposizione con l'io del poeta. Dal verso 24 si passa dal personale alla riflessione più ampia, considerando un artigiano che, mentre torna a casa, pensa che nulla lascia un segno, persino i grandi imperi sono morti e tutti se ne sono dimenticati (tema della precarietà e della brevità della vita) testimoniate da interrogative retoriche.
Ad Angelo Mai: È una canzone, la struttura è mantenuta; Angelo Mai è un filologo che aveva trovato parti del De republica di Cicerone.
Ultimo canto di Saffo: È una canzone, che riprende il mito di Saffo: è brutta, innamorata di Faone, che la respinge, quindi lei si butta dalla rupe di Leucade; qui lei s'identifica con Leopardi stesso (tema del suicidio, anche nel Bruto minore). Qui vengono ripresi gli ultimi momenti di vita della giovane, che rimprovera la natura per non avergli dato la bellezza, persino il fiume, con le sue anse, sembra allontanarsi da lei. Il mondo, infatti, è dei belli, non si va oltre l'apparenza. I vocaboli sono aulici e classicheggianti; è un modo per parlare di se stesso in terza persona.
A se stesso: nelle poesie del ciclo di Aspasia non c'è più l'elemento naturale e la natura stessa è menzionata solo come brutto potere ascoso; lo stile è totalmente diverso rispetto agli idilli: le frasi sono brevi, con molti segni di interpunzione, il ritmo è serrato e martellante, non ci sono metafore. Il metro scelto è un'alternanza precisa di endecasillabi e settenari. L'uso del passato remoto indica una fase della vita che si è definitivamente conclusa: da ora in poi non vuole provare più alcun sentimento, perché sa che sono tutte illusioni; queste ultime, nonostante tutto, sono positive (cari inganni).
Ricordanza e poesia: le poesie richiamano altre poesie.
A Silvia: Scritto nel 1828, mentre sta tornando da Pisa a Recanati. Per una volta è una persona concreta, vera, forse Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere della famiglia Leopardi, morta di tubercolosi a tredici anni, ma i rapporti con l'autore non sono quelli della poesia. Lei diventa il simbolo della speranza della giovinezza, ultimo momento in cui la felicità è possibile, poi tutto diventa noia e dolore. Il suo nome è posto in posizione forte; il paesaggio, Recanati, visto con gli occhi della memoria, è più dolce perché è il luogo dell'infanzia. È ambientato a maggio, il mese più bello dell'anno; al verso 15, l'io è contrapposto a Silvia del primo verso. Silvia, che non fa in tempo a diventare adolescente, è una donna bruna (come Lucia, in contrapposizione con le donne bionde dello stilnovo). Poi parla di sé: nemmeno lui ha vissuto la giovinezza (sette anni di studio matto e disperatissimo), ormai le speranze e le illusioni sono morte. Verso la fine, Silvia si identifica con la speranza stessa della felicità: l'uomo può illudersi ma quando si raggiunge l'età della ragione, la speranza muore e la morte è l'unico destino dell'uomo, la sua ultima meta. Qui esprime l'infelicità come causa delle promesse mancate da parte della natura. Maggio profumato è una metonimia (effetto al posto della causa). Silvia e salivi, agli estremi della prima strofa, sono l'uni l'anagramma dell'altro.
Le ricordanze: in essa, Leopardi affronta tutti i temi a lui cari; fa parte dei grandi idilli, composta nel 1829, quando è già di nuovo a Recanati e contempla il cielo stellato, cosa che rivela un rapporto sereno ed idillico con la natura. Ribadisce il fatto che solo i bambini possono essere felici e descrive il suo paese come il natio borgo selvaggio ad indicare l'ostilità verso quel luogo Il linguaggio è aulico (albergo). Dal verso 119 la poesia diviene un inno alla giovinezza e all'età che la precede, in cui tutto è bello e pieno di speranza; Nerina è quello che Silvia sarebbe diventata se fosse vissuta, anche se non ha nulla dell'innocenza di quest'ultima. Il ricordo è amaro; la finestra al verso 141 dà il senso della mancanza
La quiete dopo la tempesta: Lirica composta nel 1829, periodo in cui Leopardi elabora la teoria del piacere ed esprime la visione dell'infelicità di Leopardi (piacer figlio d'affanno) e la teoria del piacere, non più come speranza nel futuro ma come cessazione di un dolore o di una paura precedenti, cioè un piacere in negativo. La prima strofa è idillica, gioiosa e serena, in cui viene descritta la natura che si risveglia dopo la tempesta e il senso di gioia del borgo dopo lo spavento del temporale. Ma già nella seconda strofa, qualcosa stona e l'autore ci fa capire che la quiete dopo la tempesta è l'unico momento bello della vita; il tono si fa più aulico. La terza strofa è di riflessione rivolta alla natura, alla quale si rivolge con ironia, definendola cortese. Al verso 9 risorge il romorio è una sinestesia (vista e udito); al verso 15 della novella piova e l'erbaiuol rinnova è un chiasmo, per evidenziare come la pioggia rinnovi l'erba novella. Ai versi 20, 21 e 25 ci sono sineddoche, dove la famiglia è intesa come gente in generale e ogni core rappresenta ogni persona. Al verso 23 il carro stride è un'onomatopea-iperbole; nei versi 32 e 42 si incontrano due metafore: piacer figlio d'affanno e natura cortese, che evidenziano ulteriormente che il piacere per Leopardi non esiste. Questi doni tuoi al verso 43 è un'anastrofe (inversione) e una metonimia al verso 51: eterni (il concreto per l'astratto).
Il sabato del villaggio: è l'espressione della teoria secondo cui la felicità sta nella speranza nel futuro; il sabato è appunto l'unico giorno bello, come l'adolescenza, perché entrambi pieni di speranze che verranno poi deluse. La tematica fondamentale è la sospensione del dolore nel giorno che precede la festa, termine che ricorre ben cinque volte nel testo, anche se in modi diversi: le prima tre volte in senso concreto, le ultime due in senso metaforico, intese come l'età adulta. Al verso 50 e 51 c'è l'ossimoro: festa grave. Lo stile è ricco di assonanze ed allitterazioni (s) che creano ritmi ora incalzanti e ora lievi, attenuati dall'alternarsi di endecasillabi e settenari. La lingua è un impasto di termini usuali e letterari, la sintassi è regolare e piana ad eccezione di qualche anastrofe (inversione).
Il passero solitario: Nella prima edizione era la prima poesia, ma come data di composizione si colloca sicuramente dopo; come temi, può essere considerato il manifesto delle teorie leopardiane: il passero è il simbolo del poeta stesso, della sua vita passata da solo. Ma mentre il volatile sta da solo per istinto naturale, l'autore teme che rimpiangerà la di non aver vissuto meglio questo tempo. Il linguaggio è decisamente aulico e ritmato. Come in tutti gli idilli, il tema di partenza è la contemplazione della natura primaverile, ma qui è descritta in modo astratto, senza specifiche caratteristiche, proprio per suscitare emozioni. La primavera stessa rappresenta l'infanzia, la "primavera della vita". Il critico Binni disse che "Leopardi contempla la vita altrui ma non la vive veramente", quasi avesse paura di fare delle belle esperienze. Al verso 27 torna alla realtà, descrive un giorno di festa (S. Vito) in un paese. Il sole che tramonta gli fa pensare alla gioventù che se ne sta andando, e con lei anche le speranze. L'io al verso 36 si contrappone al tu al verso 12.
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: è l'ultimo dei grandi idilli che riassume il pessimismo cosmico, secondo cui la vita è dolore per tutti gli esseri viventi, che però trovano ristoro nelle illusioni. La poesia è ispirata dalla lettura di un articolo sui pastori chirghisi che, si dice, parlano con la luna; ma il pastore di questo componimento, come si evince dalle domande filosofiche che pone al satellite, è in realtà Leopardi stesso.
1^ strofa: il pastore pone una serie di domande alla luna, la quale contempla il mondo dall'alto quasi fosse viva; il pastore le chiede se non sia stufa di fare sempre la stessa strada e quale sia senso della vita, contrapponendo l'esistenza breve dell'uomo con quella eterna degli astri.
2^ strofa: la vita è paragonata al viaggio di un vecchio che percorre il mondo con un peso sulle spalle solo per arrivare ad un precipizio dove cadrà, metafora dell'inutilità della vita.
3^ strofa: la vita è sofferenza; infatti il bambino piange appena nato e i genitori possono solo consolarlo.
4^ strofa: le domande sono sempre più pressanti e profonde, anche se le immagini restano lievi (come la candida morte di Petrarca). Il pastore immagina che la luna lo segua e che conosca tutto ciò che l'uomo non può capire.
5^ strofa: il pastore immagina che gli animali siano più felici dell'uomo perché inconsapevoli della morte che gli aspetta; il tedio è, infatti, la consapevolezza che porta all'infelicità e a porsi le domande sul proprio destino.
6^ strofa: la felicità può essere raggiunta ipoteticamente volando sul mondo e prendendone le distanze; Leopardi però afferma infine come l'uomo sia comunque destinato all'infelicità.
La ginestra: fa riferimento al Vesuvio, il vulcano che distrugge tutto; dopo il passaggio della lava, la ginestra è appunto la prima cosa che ricresce. Il poeta compara questo fiore con l'uomo, che deve sapersi piegare al destino, senza cercare di resistere (titanismo) e poi però deve sapersi risollevare. Rivaluta qui la dignità umana e la solidarietà tra gli uomini: non interferisce sulla condizione infelice dell'uomo ma può aiutarlo a sopportare il dolore. Questa poesia riassume la visione della vita di Leopardi, che proprio verso la sua conclusione, a Napoli, trova conforto nella compagnia degli altri uomini. La ginestra è anche Leopardi stesso che, nonostante le illusioni, approda ad una visione ottimista della vita. Dal verso 298, il profumo è contrapposto all'aridità.
1^ strofa: attacco alle magnifiche sorti e progressive di Terenzio Mammiani e dei cattolici liberali, che credono che il progresso dia felicità all'uomo; secondo Leopardi, la natura è comunque più forte, e quindi prevale l'infelicità.
2^-3^strofa: tono polemico, per parlare dell'inutile fatica dell'uomo che si pone contro la natura.
4^ strofa: descrive il paesaggio, in modo quasi idilliaco, ma la contemplazione non dà il senso dell'infinito; ora ha davanti il vuoto, che egli indaga scientificamente e che non richiama immagini dolci.
Dialogo della Natura e di un Islandese: l'islandese passa tutta la vita a fuggire la natura, cercando luoghi tranquilli, ma essa si intromette sempre e gli dà dei problemi; alla fine arriva in un deserto e vede un mostro con il volto tra il bello e il terribile, che poi scopre trattarsi della natura stessa. Essa gli spiega che lei non decide nulla, che tutto accade per semplice meccanicismo (natura indifferente). Ci sono due conclusioni possibili: l'islandese è travolto da una tempesta di sabbia o incontra un leone che se lo mangia, entrambe a sottolineare come sia inutile cercare di fuggire.
Dialogo tra Plotino e Porfirio: si discute sul tema del suicidio, e il primo, per convincere l'altro a desistere dal proposito di togliersi la vita, non trova altra tesi del fatto che farebbe soffrire altre persone.
Appunti su: come descrive i paesaggi e la natura leopardi, termini poeticisuggestivi incanto notturno di un pastore errante, quale poeta era appassionato alla natura, alla luna di leopardi si colloca nella fase di pessimismo, in quali versi descrive il sabato come giorno che precede la festa ne il sabato del villaggio eserci, |
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