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IL TEATRO DEGLI INDIPENDENTI
Come il Teatro del Convegno, anche il Teatro degli Indipendenti è innestato su iniziative preesistenti: una Casa d'Arte, attiva dal 1918267, e una rivista, «Cronache d'Attualità», che raccoglieva inedite poesie di giovani autori come Malaparte e Moravia, scritti critici di Capuana e De Pisis, Pirandello e Marinetti, fulminanti racconti di Aniante, riproduzioni di Picasso, Modigliani, Longanesi e Viani. La prima stagione regolare del teatro si ha nel 1922-23: la sua sede è nelle aule absidiate delle antiche terme romane attribuite a Settimio
Severo, rinvenute dallo stesso Bragaglia nei sotterranei di Palazzo Tittoni (in corrispondenza di via degli Avignonesi, sul declivio del Quirinale) e ristrutturate con inusitata fantasia da Virgilio Marchi268.
Il più vitale e longevo tra i cosiddetti teatri minimi - e primo teatro "underground" d'avanguardia - opera in posizione autonoma rispetto al Futurismo, servendosi tuttavia della collaborazione e delle idee di numerosi esponenti del gruppo269; fino al 1931, anno della sua chiusura definitiva, alterna alle sperimentazioni dell'avanguardia nazionale novità europee come quelle di Jarry, Wedekind, Strindberg, O'Neill, rimanendo costantemente
attento alle suggestioni esotiche della danza e della musica contemporanea. Le audaci scelte di messinscena, pur nella provvisorietà e limitatezza degli spazi, provengono da un'attitudine «istintivamente teatrale»270 e da una «sicura familiarità con quelle correnti delle arti plastiche che, negli anni attorno al '20, erano tutt'altro che patrimonio comune dei teatranti»271. Come ebbe a dire il già citato Enzo Ferrieri, i primi veri accenni di una qualsiasi conoscenza del movimento registico europeo si hanno in Italia col "Teatro degli Indipendenti" diretto dal Bragaglia, il quale fattosi paladino del "teatro teatrale" [.] realizzò soprattutto nella scenografia le nuove teorie. Curioso prodotto di intuizione mediterranea. e di conoscenza precisa dei classici della nostra scenografia, come dei maggiori scenotecnici stranieri del giorno, diede avvio a una stupefacente serie di spettacoli, ecletticamente scelti, ma col suo clamoroso marchio personale contribuì a sommuovere la stagnante atmosfera del nostro teatro272.
In anni in cui, cito ancora un passaggio di Ferrieri, è sentita l'esigenza «di agire la realtà poetica del testo, di fingerla in atto, con tutti gli espedienti che trasformano il testo in uno spettacolo»273, il lavoro dello spettacolo può e deve consistere nel rievocare, del testo, la forza nascosta e originale, facendo della poesia, dell'astrazione e di una costruzione "in levare", i principi della poetica teatrale274. È così che l'attenzione di Bragaglia, pervenuta all'essenzialità dell'arte teatrale, si fissa «sulla "mobilità", sull'"azione", mobilità e azione di un'indole specificatamente figuratrice e "visiva" [.] fino a ricondurre a tale accento elementi che apparentemente sembrano d'altra natura, come i suoni»275. Non sorprende che questa attitudine abbia incontrato l'interesse di uno storico dell'arte come Carlo Ludovico Ragghianti; in effetti, negli allestimenti di Bragaglia leggiamo il gusto per un'impaginazione scenica fortemente chiaroscurale (si ricordino gli anni di esperimenti nel campo del fotodinamismo), formata da ombre e luci proiettate contro le masse plastiche e da volumi sagomati in modo da creare tagli e contrasti drammatici, oppure graduali transizioni tonali in grado di comporre un'armonia di impulsi luminosi.
Ed è per questo che, dovendo compilare un'elencazione degli scenografi del periodo basterebbe nominare gli artisti "indipendenti" che
prestano servizio nel teatrino di Bragaglia: Vucetich, Depero, Prampolini, Marchi, Baldessari, e quell'Antonio Fornari che secondo Ivo Pannaggi è il vero artefice delle scene firmate dal maggiore dei fratelli Bragaglia276. Una concentrazione di artisti paragonabile a quelli che pochi anni prima aveva accompagnato la nascita e i successi dei Teatro dei Piccoli di Vittorio Podrecca, la cui originalità consisteva proprio nel sapiente innesto di voci nuove, in campo musicale e scenografico, su una tradizione consolidata277.
In un articolo apparso su «L'Impero» nel mese di giugno del 1923 - cinque mesi dopo l'inizio dell'attività - descrivendo gli esperimenti effettuati nella prima stagione, Marchi ricorda i risultati relativi alla costruzione scenoplastica, che dà l'addio alla costosa pittura delle carte e dei teloni, i tentativi di variazione luminosa corrispondente al variare degli stati d'animo e ancora gli effetti ottenuti con gli elementi mobili e quelli derivanti dalle messe in scena prospettiche e sintetiche, che tendono a suggerire l'ambiente più che a
ricostruirlo naturalisticamente278. Ne riporto un lungo estratto perché rivelatore
dell'operazione messa in atto da Bragaglia nel suo Sperimentale:
Durante i cinque mesi di attività, sopra i sei metri e cinquanta quadrati su un'altezza di nove, privi della post-scena ma armati al completo delle risorse meccaniche si sono raggiunti effetti veramente miracolosi che meriterebbero il ripetersi su vasti teatri con sicuro successo. Cose nuove sono apparse in una smagliante atmosfera nuova e cose vecchie sono risorte rinfrescate da una doccia di luci che l'hanno rese più gradevoli al nostro occhio esigente. Les petits riens, sull'azione di Moscardelli per la musica di Mozart, hanno tessuto la loro delicata trama pastorale sullo sfondo futurista del pittore Olosievicz. Con All'uscita e con L'uomo dal fiore in bocca di Pirandello, si può dire che A.G. Bragaglia abbia raggiunto i più soddisfacenti effetti della sua luce psicologica creando intorno ai personaggi e agli spettatori, quello speciale "clima" che il Suckert con efficacia spiegò in un recente articolo. In virtù di pochi elementi di scena (due scure masse di case e due lampioni, oppure l'antica nicchia romana del teatro messa a nudo) e di poche luci derivanti da batterie di riflettori generali, ribalte, bilance e riflettori localizzatori, egli riuscì a letterarizzare o drammatizzare l'ambiente con efficacia unica più che rara. Né l'esperienza degli Indipendenti si ferma a questo genere ma, combinando con minimi ed economici mezzi le più originali ed eleganti forme dell'arredamento (Colui che parlò al marito di lei di Shaw; Il paradosso della felicità di Contini; Il dramma del n. 77 di Giovannetti e Sommi) ha tentato il più difficoltoso problema della variazione luminosa a seconda dei passaggi di stati d'animo. Importanti effetti di luce fantastica furono pure raggiunti dalle scene futuriste di Prampolini per La guerra di Balilla Pratella e nella Circe di E. Reggio su architettura del sottoscritto. Altrettanto importanti effetti si ottennero con l'elemento mobile: ad esempio della Bajadera dalla Maschera Gialla del Santoliquido ove, per rendere maggiormente l'idea della pesantezza soffocante dell'aria nella fumeria d'oppio, il plafone scendeva lentamente all'altezza dei personaggi. Di pari passo a questi risultati occorre ricordare quelli relativi alla costruzione scenoplastica, di cui abbiamo accennato teoricamente, la quale dà il calcio definitivo alla costosa pittura delle carte e dei teloni. In un altro momento diremo delle risorse particolari di una simile messinscena. Ora ci contenteremo d'accennare all'allestimento del Bragaglia per La Torre Rossa su musica di Sommi Picenardi e in special modo al secondo atto in cui una teoria di blocchi fora la sintesi d'una piazza turrita, suggestiva e colma di tragicità. A questa seguirono alcuni esperimenti prospettici dello scrivente, operati col più grande sforzo distributivo per la ristrettezza dello spazio, e cioè: La fantasima di Lucani (sic) su antiche canzoni italiane, per cui la scena, di stile antico, venne divisa in una camera con alcova nel secondo piano, e un esterno, profondissimo per mezzo di vivificanti trucchi luminosi; Malaguena di Comandino su canzoni spagnole dove gli elementi architettonici di un patio furono ridotti ad una formula sintetica tanto semplice quanto completamente efficace di colore locale; Don Pasqualotto di Bragaglia, su canzoni napoletane, che segnò il massimo raggruppamento d'elementi possibili su un palco di quelle dimensioni. A queste si unirono Il Furioso di Scardaoni su musica di Pergolesi e scena di Bragaglia sezionata su due piani inferiori e uno superiore; del medesimo quella del Sansone di Spaini ed altre ancora nonché alcune scene di genere del Valente e del Micaeloff279.
Molte scritture sceniche ospitate e incentivate dagli Indipendenti sono concepite sotto il segno della dinamicità, assorbendo il clima di sperimentazione e mutevolezza che vi si respira, mentre emergono - o meglio riemergono - generi come la pantomima o il balletto mimico. Va detto anzi che tra il 1923 e il 1925 gli spettacoli di danza hanno una posizione prioritaria nella programmazione. Anche durante il 1924, in cui il Teatro è per buona parte dell'anno inattivo (Bragaglia era impegnato con la Compagnia Stabile Sarda,
insieme con Ettore Berti e Antonio Marasco come direttore di scena280), sono
presentate compagnie di danza asiatiche e grandi compagnie europee come la Laban Tanz Bühne. Fin dal 1923 il programma degli Indipendenti comprendeva una "compagnia di pantomime e balletti" che aveva come direttore di ballo Ikar, Ruggero De Angelis per l'orchestra e in cui spiccava il nome di Jia Ruskaja281. Le musiche utilizzate provengono dalla tradizione antica italiana, da compositori ottocenteschi e da autori contemporanei (Casella, Luciani, Pratella):
Autori e musicisti nuovi, danzatori e comici giovani mi prestarono la loro collaborazione. Le pantomime venivano ideate da poeti moderni perlopiù su musiche antiche di Mozart, Beethoven, Schubert, Couperin, Lulli, Pergolesi e su musiche popolari antiche nel '500, napoletane dell'800, spagnole dei secoli ultimi. Anche i musicisti giovani fornirono pantomime a ballo originali; e le più applaudite furono quelle di Santoliquido, di S. A. Luciani, di Guido Sommi, di Casavola, di Carabella. Famosi gruppi di danzatori come del grande Laban vanivano a Roma da Parigi e da Berlino. Danzatori celebri d'ogni paese erano
ospiti dei nostri spettacoli. Nel primo periodo degli Indipendenti la prosa era costituita da atti unici che si alternavano ai balli o alle pantomime. Ne risultava come un music-hall di alto livello282.
Dal 1926 il numero degli spettacoli di danza si riduce: un rinnovato interesse di Bragaglia per la produzione drammaturgica contemporanea lo spinge a guardare tra le novità del repertorio italiano e straniero. Nel lavoro degli autori che collaborano con il suo Teatro leggiamo il tentativo di creare un ponte, una strategia di collegamento e di rinegoziazione tra la scrittura e i nuovi avamposti teatrali. Allo stesso tempo, dalla necessità di rispondere alle sollecitazioni del teatro moderno, viene a Bragaglia l'intenzione di adottare un palcoscenico mutevole, che illustra, disegna e progetta in numerosi dei suoi scritti: dalla rubrica fissa della rivista «Comoedia» La pagina del macchinista283 (15 novembre 1923; 20 aprile 1927; 20 luglio 1927) ai capitoli in Del teatro teatrale ossia del teatro284 e in Il teatro della Rivoluzione. Quella della dinamizzazione del palcoscenico, insieme alle questioni di pratica illuminotecnica, è l'esercizio a cui Bragaglia dedica maggiore attenzione, persuaso che la preparazione del clima scenico spetti unicamente al "corago", e che questi debba armonizzare la propria creatività con i segreti teorici della tradizione antica (da cui la riscoperta dei trattati del Serlio o del Sabbatini) e con i ritrovati tecnologici messi in opera dalla moderna scuola europea.
L'instancabile metteur en scene, l'inesauribile inventore (non senza qualche millanteria, in puro stile futurista), nemico del trompe-l'oeil e degli ostracismi tradizionalistici, sostiene «che il problema scenico moderno sia essenzialmente plastico, richiedendo la tecnica moderna scene a rilievo, cioè costruite»285. Progetta pertanto un palcoscenico multiplo, evoluzione di quello
girevole, munito di sei portascena e di una piattaforma mobile286; scene "versili", con prismi simili ai periatti in uso nel teatro greco287; e maschere mobili, da realizzarsi in caucciù, in grado di isolare "craighianamente" l'attore, pur rispondendo elasticamente ai movimenti facciali e alle minime contrazioni che custodiscono l'espressività288. Formule sintetiche e soluzioni di grande praticità, coadiuvate da un impiego razionale della luce, che Bragaglia collauda agli Indipendenti, cercando di ovviare alle ristrettezze oggettive senza rinunciare ad alcune sorprendenti audacie formali: «per quanto ristretto e angusto fosse il palcoscenico di cui il "teatrino" poteva disporre, si riuscì a dar
vita ad allestimenti simultanei a mutazione. Dal momento che si trattava di cambiamenti di scene costruite e compiuti con una relativa rapidità e a volte a sipario alzato, tutto ciò aveva dell'incredibile»289.
Sul piano teorico Bragaglia sostiene per colui che mette in scena la necessità di essere a un tempo ingegnere e poeta, come la grande tradizione italiana ha reso possibile fino al Settecento; in definitiva chiede di ripetere con senso pratico e con i mezzi a disposizione dalla techné corrente le intuizioni sceniche che l'antichità classica, medievale e barocca avevano già consegnato all'arte dello spettacolo. Riteatralizzare il teatro era la formula ripetuta dagli artisti che si impegnarono nelle arti della scena, e si deve, per quanto è dato conoscere, a Georg Fuchs290 (La rivoluzione del teatro, 1909): Bragaglia, istintivamente chiamato a un confronto con le ricerche europee, ne trae l'incitamento a riflettere sulla governabilità dei testi coi mezzi della scena, e sull'impiego del dato visivo come intensificazione della situazione
drammatica291. Riassume Bragaglia: «L'interesse del dramma contenuto nel testo dovrà vivere largamente assecondato (dunque teatralmente perfezionato) dalla realizzazione scenica»292. Pertanto la preparazione della macchina teatrale non può che avere un'importanza determinante: «La scenotecnica è diventata per noi la vera poetica teatrale del tempo, cioè la essenza stessa della rivoluzione scenica. Dunque la elettricità, la plastica e la meccanica [rappresentano] una forza di questa poetica»293.
Buona parte degli oltre 150 spettacoli inscenati sono costruiti su novità assolute o titoli inediti prelevati dalle drammaturgie europee più alternative; Bragaglia sceglie, e in molti casi commissiona, copioni la cui maniera drammaturgica deve rendersi disponibile al trattamento "omeopatico" prescritto al teatro294: intrecci bizzarri, provocatori, in equilibrio precario tra digressioni psicologiche e trasgressioni logiche; sperimentazioni "di genere", ma nelle quali il genere ripudia la regolarità per concedersi alla mistificazione e
alla contaminazione (drammi musicali senza musica, pantomime e danze esotiche, farse spiazzanti tutte calembours e mots d'esprit, drammi circonfusi di sentori decadenti o simbolisti295). Bragaglia ha parte in causa nell'elaborazione, stando a quanto riferisce egli stesso:
1. Scelgo l'autore nel clima spirituale del momento [.] 2. [.] lo eccito a scrivere la commedia sperimentale [.] 3. [.] Essa è pronta per venir rifatta. Lunghe forbici, carta bianca, colla e penna [.] 4. [.] Ora si tratta di far carne il verbo [.]. Lo si crea scena per scena; si imposta il gioco dell'azione e si vocalizzano le espressioni, si compongono i quadri di colore e si stringono o rallentano i tempi, si piantano le vette degli acuti e dei forti; si spaziano le pause e i silenzi. Perfino l'intimismo ci fa gioco, a chiaroscuro del teatrale. [.]
Prima vigeva l'equivoco del pittore, poi venne, col verismo, l'equivoco del tappezziere e allora tutti i letterati si sentirono subito mettinscena [.] facevano lontananze a disporre mobiletti e quadrucci, correvano con stoffe [.] è succeduto poi l'equivoco dell'elettricista [.] cupole Fortuny, teatri del colore,
luce psicologica [.] finalmente l'equivoco architettonico, cioè la scenoplastica e gli elementi nudi [.]. Questo equivoco possiede ancora me ma so che è un equivoco296.
Per le ravvicinate rappresentazioni Bragaglia si serve di una compagnia ridottissima e assai variabile: insieme ad alcuni attori "fissi", come Marcella Rovena, Fulvia Giuliani, Umberto Sacripante, formatisi agli Indipendenti, e ad altri interpreti di razza, non di rado recitano gli stessi scrittori, futuri registi come Nino Meloni, e perfino musicisti, scenografi e letterati (come Pannaggi, Luciani o Casavola). Scelta dovuta all'esigenza di risparmiare ma anche alle particolari modalità esecutive: come sintetizzò Gobetti, «non sempre gli stessi
attori sono atti a impersonare i protagonisti di tutti i lavori»297. Leggiamo
infatti in una breve missiva indirizzata a Paolo Buzzi, con la quale Bragaglia giustifica il suo rifiuto di inscenare alcuni testi del poeta futurista:
Caro Buzzi: la tua commedia Bottega di Plauto è invero troppo breve! Sono tre quadretti e fanno un terzo di spettacolo. Ora noi, da quattro anni, non abbiamo più voluto dare i pezzetti, perché non fruttavano e perché costano molti attori: ciò che noi non abbiamo (Non si può con gli stessi fare tre lavori diversi, senza cagionare confusione ed equivoci)298.
Del resto, volendo escludere i testi italiani, nati in una cerchia di autori coi quali Bragaglia intratteneva un rapporto diretto o amicale, se si guarda ai drammaturghi stranieri che entrarono a far parte del repertorio degli Indipendenti, si nota la preferenza per testi drammatici chiaramente anti- realistici, contrassegnati dalla presenza del fantastico e del surreale, come lo scandaloso Girotondo di Arthur Schnitzler, Ubu roi di Alfred Jarry o lo Strindberg di Verso Damasco. Mondi fittizi o ingannevoli, interrogati con ironia e intellettualismo, puntellandosi sull'«irruzione dell'inammissibile
all'interno della inalterabile legalità quotidiana»299.
Quanto fossero ragguardevoli e autentiche le benemerenze conquistate dagli Indipendenti è dimostrato dalla sottoscrizione che all'inizio del 1927 protesse il teatro dal rischio di chiusura dovuto a un provvedimento contro i cabaret; sulle pagine di «La fiera letteraria» firmarono, tra gli altri, Simoni, Chiarelli, D'Amico. Addirittura, «quando nel gennaio 1927 gli Indipendenti venne chiuso perché assimilato agli altri tabarins (di notte il teatrino si trasformava in una sorta di locale notturno) D'Amico fu il primo che intervenne su "La Tribuna" con un articolo straordinariamente elogiativo»300, a dimostrazione che quelle tra i due altro non erano che «bizze tra amici»301.
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