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Il superamento della filosofia materialistica in Foscolo, Manzoni e Leopardi
La filosofia del Materialismo, che nega l'esistenza di sostanze spirituali, afferma che la materia è all'origine di tutte le cose, che vengono generate secondo un rapporto deterministico di causa-effetto, senza nessun finalismo e che inoltre anche la vita spirituale dell'uomo deriva dalla materia che forma il corpo. Attorno alla metà del Settecento, tale dottrina viene ripresa, diventando materialismo meccanicistico, da un gruppo di filosofi dell'Illuminismo. Il Materialismo meccanicistico in Italia fu fatto proprio dal Foscolo e dal Leopardi che scrisse una serie di appunti su di esso anche nello Zibaldone. Lo stesso Manzoni, nella sua concezione della storia, parte da una concezione illuministica meccanicistica, vedendo nella storia stessa, sangue ed ingiustizie senza nessuna speranza di redenzione o di felicità in terra. Così come Foscolo, che inizialmente vede nel mondo tirannide, oppressione e nessuna speranza di salvezza o di fiducia; anche Leopardi, precisamente nello Zibaldone, afferma che <<la materia può pensare, la materia pensa e sente>>.
Ma, in un secondo momento, i tre autori, ognuno in modo diverso, riescono a superare la filosofia materialistica, da cui erano partiti. Foscolo, dopo la delusione del trattato di Campoformio, con cui Venezia viene da Napoleone ceduta all'Austria, cade in un profondo pessimismo e la sua filosofia materialistica è così forte che il protagonista de 'Le ultime lettere di Jacopo Ortis' si suicida senza nessun'altra speranza. Ma, con 'I Sepolcri' il Foscolo, dopo aver iniziato il Carme con una concezione materialistica. ' A che servono le tombe, se tutto nasce e finisce nella materia?' supera tale concezione materialistica, perché il suo cuore si ribella alla ragione, la quale freddamente conclude che la vita è materia, è un ciclo continuo di vita e di morte. A questo punto, il poeta si affida alle Illusioni, ideali che, respinti dal filosofo, vengono accettati dal sentimento dell'uomo, incapace di credere che tutto verrà dimenticato dopo la morte, anche le gesta di grandi e valorosi uomini .
Foscolo con la ragione si rende conto che le Illusioni, come la Tomba, l'Amore, la Bellezza, la Poesia, l'Amicizia, non esistono realmente, ma con il cuore sente che l'uomo non può fare a meno per vivere e per superare le tragedie, le miserie e le ingiustizie della vita, di affidarsi alla fede in queste Illusioni.
Per il poeta, la più importante delle illusioni è la Poesia, pura e libera dal servilismo politico; grazie ai poeti come Omero che, traendo ispirazione dal sepolcro di Troia, dove erano seppelliti i grandi eroi, cantò gli stessi eroi e le loro imprese, i fatti e gli uomini grandi della Storia diventano eterni, combattendo e superando la concezione materialistica che vuole che tutto finisca con la fine stessa della Materia. Così, nei 'Sepolcri', Foscolo supera il pessimismo e l'arida filosofia materialistica con la fede nelle Illusioni, che alimentano il cuore dei giovani eroi per grandi imprese; egli stesso, lasciando ai posteri un'opera come 'I Sepolcri' che stimola alla libertà e a grandi gesta, sa che diventerà immortale ed eterno, anche dopo la sua morte, perché immortale sarà la sua opera.
Anche nell'Ode 'All'amica risanata' la visione della malattia della donna (cioè della triste e peritura realtà) è superata dalla fede nell'Illusione della bellezza che, ispirando il poeta, rende divina quindi eterna la stessa donna mortale. Illusione delle illusioni è quindi la Poesia, eternatrice dei miseri ed aridi fatti umani, che si nutre a sua volta di Illusioni quali la Bellezza, l'Amore, la Patria. Nelle 'Grazie', le idee pongono un velo di civiltà, armonia, divinità, al misero mondo umano, che viene così alla fine trasfigurato in un'aura di sogno e di simboli che fanno diventare la storia, Metastoria. E' proprio con i Miti del mondo classico che Foscolo riesce a superare l'iniziale concezione materialistica: Omero, Venere, Aiace, personaggi reali che, divenuti grazie alla Poesia, eterni, sono ormai Ideali supremi che hanno trasfigurato e superato la triste realtà e che quindi incarnano dei valori assoluti e necessari, che permettono al sentimento degli uomini e alla loro stessa civiltà di sopravvivere alla breve esistenza terrena.
Anche il Manzoni, prima della conversione aveva una concezione meccanicistica del mondo, governato da una forza operosa che affatica le cose di moto in moto come il Foscolo e come più tardi il Leopardi. Ma mentre il Foscolo affida la sua immortalità alle opere poetiche, il Manzoni riesce a superare la sua concezione materialistica con la fede in Dio e nella Provvidenza che illumina e spiega, secondo un imperscrutabile giudizio divino, le tragiche e misteriose vicende della vita. I Promessi Sposi narrano la storia di due umili filatori di seta, Renzo e Lucia, il cui matrimonio viene impedito da Don Rodrigo, un signorotto prepotente che, invaghitosi di Lucia, ideò un rapimento, servendosi di un signore malvagio, l'Innominato. Da questo rapimento, deriva tutta una serie di peripezie a cui vanno incontro sia Renzo sia Lucia, fino alla conclusione quando i due Promessi Sposi possono finalmente sposarsi.
Dietro la vicenda di questi due umili personaggi, appare lo sfondo del '600, con la Peste, la presenza di personaggi storici e soprattutto con la Provvidenza che illumina tutto e tutti, perché anche la storia è, il Manzoni, rivelazione di Dio in terra così come per Dante la storia, la politica si fonde con la Teologia.
Tale opera infatti, rappresenta la fede degli umili sventurati, che nonostante le angherie dei potenti, non smettono mai di credere in Dio, il quale 'non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.'. E' questa grande fede in una vita ultraterrena, che sostiene e dà forza agli umili, per i quali ci sarà vera giustizia, felicità e uguaglianza nel regno dei cieli. Ne 'I Promessi Sposi' si ha un vero superamento della concezione tragica, arida, materialistica della vita: infatti bisogna accettare la vita e le sue ingiustizie come fiduciosa attesa di Dio, come lotta contro le ingiustizie (Lucia, padre Cristoforo) perché i guai di questo mondo quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore. Perciò questo romanzo si può veramente considerare il poema del Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, come direbbe Dante. All'ideale-giustizia di Adelchi, qui subentra quello del Dio-Provvidenza, di Padre Cristoforo: anche il dolore, qui è accettato come un dono di Dio. A differenza dell'Adelchi, dove da una parte c'era l'ingiustizia degli uomini, dall'altra la giusta giustizia di Dio, ne I Promessi sposi il male e il bene si trovano nelle mani di Dio e gli uomini sono solo strumenti, 'Baiuli' (come dice Dante nel canto VI del Paradiso) della Sua volontà.
E' quindi la profonda carità che eleva e supera le tragedie e tutti i personaggi, in una visione ultraterrena, di eternità, dentro cui e per cui si muove la storia, in una unità intrinseca tra umano e divino, proprio come nel Poema dantesco. Nell'Inno sacro, la Pentecoste, Manzoni, rivolgendosi alla schiava che invidia la donna libera, le ricorda che anche per lei ci sarà libertà ed uguaglianza dopo la vita terrena e che il Regno dei Cieli è degli infelici. In questo modo, il poeta trova una spiegazione alla Sventura della storia, facendola diventare Provvida Sventura: tutte le sventure e le tragedie che si abbattono sul mondo e sulle persone, avendo fede in Dio, sono 'provvidenziali' cioè volute dalla Provvidenza divina per condurci, alla fine, alla salvezza e felicità eterna. Ricordiamo l'ode 'Il cinque maggio': Napoleone, dopo una vita di gloria, alla fine viene relegato in una piccola isola, solo e dimenticato da tutti; ma una Mano gli viene incontro per condurlo, in questo momento di Provvida Sventura, nel regno della gloria eterna. Lo stesso succede ad Ermengarda, (Adelchi), rifiutata dal marito Carlo Magno e accolta nel regno dei cieli, nel momento di massima solitudine e di infelicità. E' chiaro, quindi come il Manzoni, partito da una concezione tragica e materialistica, riesca a superarla nella Fede nell'attesa fiduciosa della Grazia di Dio che scende dovunque come 'aura consolatrice'.
Anche Leopardi, pur non essendo filosofo nel senso comune della parola, parte da una cultura filosofica materialistica: ricordiamo l'operetta morale 'Dialogo della natura e di un islandese': 'La vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e di distruzione.:a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tute le cose che lo compongono?' La concezione materialistica presenta, però, pure il senso della nullità dell'uomo e della vita affettiva, riflettendo il poeta sul rapporto tra il fine della natura cosmica e il fine della natura umana, che non coincidono. Infatti nello Zibaldone s'afferma che il fine della natura umana è la felicità. mentre il fine dell'esistenza generale non è la felicità degli uomini.
Il poeta supera quindi la concezione filosofica-materialistica del Settecento, scoprendo questa disarmonia tra la vita dell'uomo e quella dell'universo, che alla fine è la scoperta della spiritualità dell'uomo contro la realtà materialistica della natura. Il fine dell'uomo è quindi diverso da quello della natura: gl'ideali umani forse sono illusioni, espressioni del cuore, proiettate e cantate nel futuro o nel ricordo vago e idillico del passato. Ricordiamo 'A Silvia': 'Silvia. rimembri ancor'. In questo idillio viene svolto il motivo della speranza delusa e stroncata prematuramente: il canto, muovendo da un ricordo personale (Silvia sarebbe Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta a ventun anni nel 1818), oltrepassa quella lontana realtà: la memoria della giovinetta, come dice il critico Flora è: 'non più soltanto evocativa e pietosa, ma poetica. è cioè assunta in un significato lirico, ad esprimere non un fatto particolare ma il divino e l'eterno che è in un episodio terrestre'. Quindi Teresa è qui diventata Silvia, una fanciulla che si affaccia al limitare della giovinezza 'quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi / e tu, lieta e pensosa, il limitare / di gioventù salivi?'. (A Silvia vv. 3-6).
In questo Idillio, Silvia lavora e canta, perché simboleggia anche la Speranza sua (e del poeta) in un dolce futuro. Alla fine Silvia muore prima di giungere al fiore dei sui anni, così come -muore- la Speranza del poeta, prima che egli possa vivere la piena giovinezza. L'essenza dolorosa del canto (potremmo dire materialistica nella constatazione della cruda realtà), è però superata dal Mito, dall'Incanto, 'dolce e ameno inganno' della Giovinezza e quel senso di gioiosa attesa, presente negli occhi 'ridenti e fuggitivi' di Silvia. Anche ne 'Il Sabato del villaggio' il poeta ricorda con dolcezza il sabato del suo villaggio, le ragazze e i ragazzi in festa nell'attesa dell'Amore. Il Leopardi non ha la fede religiosa del Manzoni e perciò, quando osserva il rapporto tra le finalità della natura, sempre in un perpetuo circolo di vita e di morte, e le finalità dell'uomo, che cerca disperatamente la felicità, non credendo nell'immortalità dell'anima, supera la materia e trova l'infinità dello spirito, come supremo ideale. Più che superamento o risoluzione del materialismo, il suo atteggiamento si può meglio definire come idealismo naturalistico: egli crea, come poeta e non come filosofo, le infinite Illusioni della sua anima, i miti della Giovinezza, della Felicità, della Gloria.
Anche se in un secondo momento, Leopardi affiderà alla Ragione, il compito di affrontare le tristezze della vita, strappando il velo delle illusioni per guardare in faccia virilmente e titanicamente il vero, il suo sentimento è e rimarrà fondamentalmente un sentimento di commozione, di turbamento verso quegli anni lontani, verso quel mondo ideale di fremiti e di speranze, mondo proiettato nel futuro e nel passato. Così l'iniziale materialismo illuministico, rischiarato dalla voce del sentimento, è già diventato titanismo morale, forza spirituale, 'infinito' che supera il finito. Oggi, più che mai, in un mondo proiettato verso un progresso senza limiti, l'uomo accoglie la voce leopardiana che parla ai nostri cuori, ricordandoci i nostro 'infiniti' limiti e le nostre tragiche infelicità ma anche, e soprattutto, la nostra innata sete di 'Infinito' che ci fa smaniare: '.e un fastidio m'ingombra / la mente, ed uno spron quasi mi punge / sì che, sedendo, più che mai son lunge / da trovar pace o loco'. (Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv.117-121)
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