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Il sistema dei personaggi
Nel romanzo "I Promessi Sposi" compaiono numerosi personaggi e lo schema che ci indica i rapporti tra di loro non è molto semplice.
I personaggi principali, che sono anche i protagonisti, sono Renzo (l'eroe), Don Rodrigo (l'antagonista) e Lucia (l'oggetto del desiderio).
Tutti gli altri personaggi sono considerati una folta schiera di sostenitori, dell'una o dell'altra parte, i 'buoni' e i 'cattivi'; tuttavia, il discorso si complica perché la notevole capacità di penetrazione psicologica del Manzoni impedisce ai personaggi di assumere connotazioni nette, definite, unilaterali: nessuno può essere definito del tutto malvagio o perfetto ;lo stesso Renzo va incontro ad ambiguità ubriacandosi e parlando a vanvera.
La catalogazione dei personaggi, a volte, è ancora più difficile perché nel corso della storia possono cambiare parte e evolvere la loro personalità.
Potremmo
comunque raggruppare i personaggi secondo le schema vittima-oppressore,
molto usato nel romanzo del Settecento e dell'Ottocento: le azioni sono
collegate secondo la logica che regge tutto l'intreccio de "I Promessi Sposi":
Renzo e Lucia sono le vittime,
mentre Don Rodrigo l'oppressore.
I suoi 'alleati' sono l'innominato, il cugino Attilio, conte zio e i
bravi, e anche Azzecca-garbugli e il podestà di Lecco).
Invece figure come padre Cristoforo, il cardinal Borromeo, Agnese e persino
l'energica Perpetua, governante di don Abbondio, o gli amici al paese, come
Tonio e il fratello Gervaso, possono annoverarsi fra gli aiutanti delle vittime. Renzo e Lucia,
infine, hanno anche dalla loro alcuni personaggi che li ospitano, danno
protezione, lavoro, sicurezza, come il cugino Bortolo che abita a Bergamo e la
coppia di nobili milanesi che accoglie Lucia dopo la sua liberazione.
I personaggi,
poi, possono essere ulteriormente suddivisi in due categorie: statici
e dinamici, da intendere non solo nel senso che nel corso della
storia non mutano e restano fedeli a se stessi nel corso del tempo, ma
anche della staticità o dinamicità rispetto allo spazio, se cioè restano
fermi in un determinato luogo o sono portati dalle vicende a decidere
autonomamente di spostarsi (in questo senso Lucia è statica perché 'viene
spostata' contro la sua volontà e diviene dinamica solo alla fine quando
decide insieme al marito di abbandonare il paesello per andare a Bergamo, ma
anche qui con una buona dose di staticità, perché in fondo segue il marito).
Sono personaggi statici, (o piatti) quelli che non
modificano la propria personalità nel corso della narrazione, come don
Abbondio. Egli, infatti, proprio perché si comporta in una maniera diversa da
come si dovrebbe comportare un normale parroco, non solamente diverte il
lettore, che sorride alle sue eccessive paure, alla sua pavidità di coniglio,
al suo egocentrismo, alle sue ansie per la propria tranquillità, alle
meschinità messe in atto per non compiere scomodi doveri, ma anche riflette
sulle proprie piccinerie: in fondo don Abbondio è il personaggio nel
quale meglio si riflettono i difetti degli uomini e, soprattutto, le paure e
gli egoismi dei mediocri.
Lucia è un altro personaggio che rimane fedele a se stessa. Il Manzoni
ne fa, riguardo a talune vicende, una specie di strumento della Provvidenza
Divina come avviene ad esempio nel castello dell'innominato in cui alcune
parole che dice impulsivamente, circa il perdono di Dio, che viene concesso
anche solo per un'opera di misericordia, hanno un effetto dirompente sul
cattivo signore, in crisi di identità e, ancora inconsciamente, desideroso di
mutar vita, stanco di commettere violenze contro innocenti. Lucia sembra essere
un mezzo della Grazia Divina, ma non tutti i personaggi sanno accoglierla come
accade per la monaca di Monza che si affeziona alla ragazza e si consola al
pensiero di poterle fare del bene e di riuscire a cambiare la propria vita
grazie alla sua influenza.
Anche don Rodrigo è un personaggio statico: lo troviamo sempre nel suo
palazzotto, dal quale dirige le operazioni per far arrendere Lucia; a un certo
punto, vista la sua impotenza, è costretto a spostarsi nel castello
dell'innominato per chiedere aiuto, e alla fine viene letteralmente trascinato
al lazzaretto, dove finisce la sua miserabile esistenza: in questo senso lo
possiamo definire come il simbolo dell'eterna staticità del male nella sua
essenza.
Ai personaggi statici (o piatti), si contrappongono i personaggi
a tutto tondo, (o dinamici), ossia quelli che si evolvono e
cambiano nel corso della narrazione, come l'innominato oppure Renzo. Il
dinamismo di Renzo non riguarda soltanto la sua trasformazione da giovane
ingenuo in accorto imprenditore, attraverso le numerose peripezie a Milano,
durante i tumulti e poi all'epoca della peste. Renzo è dinamico anche perché le
circostanze lo portano a percorrere, a piedi, chilometri e chilometri.
Attraverso la sua persona, l'azione narrativa stessa acquista dinamismo e si
sposta da un luogo all'altro del Milanese: è quella sua la potremmo definire
un'odissea poiché, convinto di lasciare il paesino per trovare ospitalità a
Milano per qualche tempo, si trova al centro di fatti più grandi di lui.
Inseguito dalla polizia, che lo crede una spia responsabile dei tumulti, fugge
in direzione di Bergamo. Continua ad essere ricercato ed è costretto a non dare
troppa confidenza agli osti e agli avventori nelle taverne dove si ferma a riposar.
Poi, quando l'anno successivo torna al paese in cerca di Lucia, viene a sapere
che si trova a Milano, ospite di una nobile famiglia. Eccolo ancora nel
capoluogo lombardo, scambiato prima per un untore e poi per un monatto, e in
questa veste raggiunge Lucia che è ricoverata al lazzaretto: anche in questo
luogo di dolore non mancano avventure. Ritrovata la fidanzata, comincia un viaggio
interminabile tra il paese, Bergamo (dove torna per allestire la casa) e
Pasturo, dove Agnese si è rifugiata per evitare il contagio.
I viaggi di Renzo hanno un significato profondo, perché questo personaggio è
davvero una guida, per il lettore. In sua compagnia subisce
l'ingiustizia di don Rodrigo e del dottor Azzecca-garbugli, si cala nei tumulti
di Milano e vi partecipa come testimone oculare, con lui si commuove e
inorridisce di fronte alla condizione degli appestati, e gioisce della forza
della pioggia purificatrice, come se vivesse in prima persona gli avvenimenti,
osservando i fatti attraverso gli occhi del giovane. Lo notiamo da molte
osservazioni di Renzo: «Spiccava tra questi, ed era lui stesso uno spettacolo,
un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati,
contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica agitava in aria
un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di voler attaccare
il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse» (cap. XIII). La
rappresentazione non è soltanto viva e interessante, ma trasmette anche l'indignazione
del giovane, che emerge dal giudizio contenuto nelle espressioni «mal vissuto»
e «compiacenza diabolica». Inoltre la commozione del giovane, di fronte alle
sofferenze dei malati, contagia il lettore e gli fornisce le coordinate per
'muoversi' anch'egli, in quella tragedia, con un preciso stato
d'animo.
Un'ultima osservazione circa
i personaggi storici. Sono figure affascianti: l'innominato è
modulato sull'immagine di Bernardino Visconti, feudatario di Ghiara d'Adda, di
cui parlano le cronache milanesi del Seicento. Si sa che, per merito di
Federigo Borromeo, cambiò vita e, dopo aver congedato i suoi bravi, visse
onestamente gli ultimi anni della sua esistenza.
La monaca di Monza era Marianna De Leyva, figlia di don Martino,
costretta alla monacazione con il nome di suor Virginia. Anch'ella si pentì,
come narrano gli storici e, dopo aver subito un processo a causa delle sue
malefatte (tresche amorose e un omicidio), venne murata viva e morì in odore di
santità. Questi due personaggi sono 'rivisitati' liricamente dal
Manzoni. Ciò che di loro tramandano le cronache viene illuminato poeticamente e
viene messo in luce quanto la storia non può dire: le segrete speranze, i
timori, le pressioni psicologiche, il disagio esistenziale, il bisogno di amore,
di bontà, di chiarezza nella vita, di dialogo aperto con i propri simili, lo
sforzo di non lasciarsi sopraffare dalla prepotenza altrui.
Anche il gran cancelliere Antonio Ferrer, protagonista di una delle più
vivaci sequenze durante i tumulti di Milano, viene presentato con le sue
caratteristiche storiche ma anche nelle sue connotazioni psicologiche. Operando
con la fantasia l'autore immagina il suo atteggiamento umile e cortese di
fronte alla folla in rivolta e gli pone in bocca frasi in due lingue: in spagnolo
dice ciò che pensa veramente, in italiano pronuncia frasi di circostanza per
ammansire i Milanesi inferociti: «è vero, è un birbante, uno scellerato» dice
alla gente, ma subito, chinato sul vicario di provvisione che sta portando in
salvo, mormora in spagnolo: «Perdone, usted» (cap. XIII).
Le cronache non riportano questo particolare che colora di tinte fortemente
ironiche tutta la vicenda: l'autore ha fatto appello alla sua immaginazione, a
quella che chiama invenzione e che serve a compenetrare il vero
storico per dare ai personaggi l'umanità che non rimane impressa nelle
pagine delle fonti.
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