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Il percorso poetico di Salvatore Quasimodo si apre con la raccolta "Acque e terre", che contiene alcuni temi fondamentali della successiva produzione. La raccolta oscilla tra la celebrazione di una mitica e serena infanzia nella lontana Sicilia e un senso di sofferta, ma a volte ricercata, condizione di sradicato; tra il senso di debolezza e caduta della carne e il rimpianto di una primitiva innocenza e di una perduta comunione con le cose. L'oscillazione si concretizza in alcuni motivi di fondo: malinconia e pena dell'esule, senso del male di vivere, angosciosa solitudine esistenziale, ansia di infinito e di assoluto, assalto dei sensi, preghiera di ascesi e di purezza.
Il nucleo tematico della lirica "Vento a Tindari" nasce, infatti, dalla conflittualità, sempre presente in Quasimodo e spesso anche ricercata, tra la memoria che ha bloccato nell'animo paesaggi e ricordi della terra siciliana e l'"aspro esilio" lontano dall'isola. Dal dissidio tra memoria e realtà germinano altre conflittualità: tra la fanciullezza cara e la maturità pensosa, tra l'amore di un tempo e la tristezza del presente che è "ansia di morire", amarezza e fatica.
In questo mondo poetico, fondato sull'amore della terra d'origine e sui ricordi d'infanzia e della famiglia, risuonano, ma con accenti personali, cadenze pascoliane, echi dell'"Alcyone' di D'Annunzio, suggestioni della "poesia nuova": dalla tecnica dell'analogia all'uso di forme ellittiche.
Con "Oboe sommerso" (1932) ed "Erato e Apollion" (1936), Quasimodo si adegua al gusto e alla sensibilità di tanto Ermetismo fiorentino, spesso esasperando la ricerca della parola essenziale, scarnificata e suggestiva, fino al limite dell'abuso di forme ellittiche e di analogismi. Il Quasimodo di queste opere traduce tutto, anche l'universo privato e dei ricordi della mitica Sicilia, in eleganze formali che mascherano però l'approssimazione e i limiti di tale esperienza. Esemplare in questo senso l'uso di immagini-formule, quali: nuvole, colombe, angeli, isole, fiumi, cielo, vento, aria, ecc.; e della parola-tema "luce" che diventa, anche per la solarità mediterranea dell'ambiente siciliano, un vero polo aggregante di analogie. Certe formule poi non hanno autenticità poetica, ma appaiono piuttosto come una forzatura intellettualistica: "Sono un uomo solo / un solo inferno".
L'ermetismo dominante di "Oboe sommerso" e di "Erato e Apollion" ha indotto molti critici a giudicare Quasimodo uno dei rappresentanti più qualificati di quella scuola. Ma Carlo Bo, esponente della critica ermetica e in un certo senso il teorico della scuola, afferma che molto arbitrariamente Quasimodo è stato ritenuto il responsabile maggiore dell'ermetismo, o, per lo meno, il rappresentante poetico più equilibrato. Oggi a distanza di tempo, secondo il critico, le cose hanno preso un altro rilievo e Quasimodo ci appare come un compagno di strada dell'ermetismo, come uno che vi si è trovato a vivere in un dato momento e per spirito di cameratismo ha creduto di dover condividere motivi critici e posizioni che, in fondo, contrastavano con la sua vera natura. L'ermetismo, dunque, non apparterrebbe alla più autentica fisionomia di Quasimodo; l'ermetismo, come qualcun altro ha sottolineato, sarebbe stato per il poeta siciliano un « equivoco ».
(La Sicilia-Eden) La poesia di Quasimodo trae un elemento di chiarificazione dalla traduzione dei "Lirici greci", apparsa nel 1940. (Traduce anche Omero, i tragici greci, i poeti latini Catullo, Virgilio, Ovidio, e poi Shakespeare, Neruda e altri). Lo stesso Quasimodo spiega che non ha inteso restituire alla poesia greca le sue forme originarie, bensì rivestirla di una forma moderna. Queste versioni, pertanto, devono collocarsi nell'area creativa di Quasimodo, perché il poeta riesce a conferire al testo originale una nuova "scrittura" che risente del gusto ermetico del tempo. Ma la nuova retorica ermetica, applicata a sentimenti e situazioni poetiche sciolte da ogni contesto contemporaneo, vi raggiunge la massima purezza. È razionale perciò la diffusa persuasione che in esse il poeta tocchi il suo punto più alto; comunque è certo che quelle versioni esercitarono sul linguaggio poetico medio e medio-alto un influsso pari e forse superiore e più duraturo della lirica "originale" del loro autore. L'esito felice di queste traduzioni, con la raggiunta purezza e trasparenza espressiva dopo tanta oscurità allusiva, influisce anche sulla contemporanea produzione poetica di Quasimodo, soprattutto sulle "Nuove poesie" che concludono il volume "Ed è subito sera" del 1942, caratterizzata da un più ampio respiro espressivo, da una resa musicale più sciolta, dal recupero di forme metriche tradizionali. Il sapore e i colori della sua terra, ossia la Sicilia dell'infanzia fermentante di umane presenze e di struggenti memorie, l'"alta malinconia dell'esiliato" trovano ora accenti e forme più autentiche. Di fronte allo sgretolarsi del vivere, alla monotonia dell'esistere, al dolore e alla disgregazione senza scampo che il poeta ha scoperto nella vita, la Sicilia, e con essa l'infanzia, mitizzate e favolose, divengono un rifugio, un paradiso perduto di una beata comunione con la natura, un Eden nostalgicamente contemplato nella memoria e a cui il poeta di tanto in tanto approda pacificato.
(La poesia «sociale» del dopoguerra) La parabola creativa di Quasimodo riflette la storia della nostra poesia contemporanea: dall'Ermetismo al bisogno di un colloquio più aperto con gli uomini. L'irrompere tragico della guerra, infatti, porta il poeta a una revisione dei suoi modi di fare poesia, soprattutto incidendo sui contenuti. Con le raccolte "Giorno dopo giorno" (1947) e "La vita non è sogno" (1949) si ha, almeno apparentemente, il rifiuto del passato alla ricerca di un più marcato impegno civile e sociale. Per Quasimodo la guerra ha interrotto una cultura e proposto nuovi valori dell'uomo; e se le armi sono ancora nascoste, il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario, più delle scienze e degli accordi tra le nazioni che possono essere traditi. Nella nuova realtà dunque c'è bisogno di poesia sociale che aspira al dialogo più che al monologo. C'è bisogno soprattutto di "rifare l'uomo": questo è il problema capitale, questo è l'impegno, secondo Quasimodo. A coloro i quali credono che la poesia sia solo un gioco letterario e che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita Quasimodo risponde che "il tempo delle speculazioni è finito".
Sono dichiarazioni che si sintonizzano con l'impegno propugnato dalla narrativa neorealistica che si andava affermando e dibattendo in quegli anni post-bellici, e che testimoniano una volontà di rinnovamento, lo sforzo di uscire dalla solitudine aristocratica della "lirica pura". La voce del poeta si leva sulle rovine e sui dolori della guerra, condanna la barbarie consumata e la violenza dell'uomo diventato peggiore di Caino. Ma su questo deserto di morte e di distruzione sembra intravedersi un raggio di speranza: sulla legge dell'odio trionferà quella dell'amore, l'umanità risorgerà dalle rovine della guerra come è risorto Lazzaro dalla tomba. Di fronte alla nuova poesia «impegnata» di Quasimodo la critica si è divisa, e sostanzialmente lo è tuttora. Alcuni vedono una continuità di ispirazione tra il poeta ermetico e il poeta della realtà della storia vera e attuale, e insistono sull'unità del cammino artistico rivendicandone il valore morale. Altri, forse i più, nella tematica umanistico-sociale avvertono, al di là di alcune zone di intensa significazione e di felice resa poetica, un sapore di insincerità e di retorica, anche se di nobile retorica.
"Uomo del mio tempo" è l'ultima lirica di "Giorno dopo giorno" e, come le altre che compongono la raccolta, riflette la "svolta impegnata" di Quasimodo, la sua intenzione di "rifare l'uomo" attraverso una poesia che affondasse la tematica nella realtà e nelle condizioni dell'uomo del suo tempo. Il compito era indubbiamente alto, forse troppo per gli strumenti a disposizione di Quasimodo, e la poesia approda spesso a risultati di nobile retorica, di alto magistero morale, ma distante da un felice esito artistico.
"Uomo del mio tempo" è un implacabile atto di accusa contro l'agghiacciante disumanità della guerra, contro la ferocia, bestiale e razionale allo stesso tempo, a cui si sono abbandonati gli uomini nella seconda guerra mondiale. Agli occhi del poeta appare un'umanità mostruosa che inizia il suo cammino col più belluino dei suoi gesti: il fratricidio. Su di un piano morale, l'uomo dell'epoca attuale non si discosta dall'uomo dell'età della pietra, che scaricava la sua istintualità selvaggia contro i suoi simili con il sasso scagliato dalla fionda. Il progresso della civiltà non ha certamente mutato quegli istinti primordiali: l'odio è rimasto uguale e insaziabile.
L'insistita ripetizione nella poesia del verbo "uccidere" vuole, infatti, sottolineare la continuità della violenza e di una condizione dell'uomo che, dalle origini a oggi, non ha mutato i suoi animaleschi istinti aggressivi. L'uomo ripete ancora oggi il fratricidio della « Genesi », quasi a scontare la maledizione biblica di quell'originaria colpa.
Quasimodo rimprovera all'uomo del suo tempo non solo di essere ancorato ancora alla dimensione morale della preistoria, ma anche di aver costretto la sua scienza così superbamente perfezionata a divenire strumento di sterminio, piuttosto che di civile progresso, senza curarsi di un sia pur minimo sentimento di solidarietà e d'amore per i suoi simili, senza Cristo, simbolo d'amore oltre ogni fede e ogni ideologia. Non solo, quindi, non è mutato nulla da allora, ma l'uomo ha mirato a perfezionare sempre di più gli strumenti dello sterminio; ha rivestito la guerra di ideali, legittimando perfino gli assassini. La cosiddetta "civiltà", quindi, invece di rendere gli uomini più buoni, li lasciò fermi nei loro istinti di primitivi, di uomini-belva, alla barbarie di Caino. Ma le nuove generazioni devono avere ora il coraggio di vergognarsi dei loro padri e di dimenticarli, piuttosto che vergognarsi di essere uomini, e devono sostituire, finalmente, la legge di Caino con quella di Cristo.
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