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IL CINQUE MAGGIO
Diamo innanzitutto una ripartizione dell'ode.
Abbiamo innanzitutto un primo blocco (vv 1-24) che costituiscono un incipit famosissimo e che presenta lo sbigottimento dell'Europa e del Mondo alla notizia della morte di Napoleone.
In particolare nella terza e quarta strofa Manzoni pone la giustificazione del suo scrivere quest'ode: la maggior parte (di mille voci) dei poeti, mentre Napoleone era al culmine del suo impero (Folgorante in solio), si preoccupavano di incensarlo (servo encomio). Manzoni invece non lo incensò, pur non osteggiandolo (vergin. di codardo oltraggio). Proprio per questo motivo ora Manzoni sente di avere il diritto ma soprattutto il dovere di ricordare, con quella che sarebbe diventata la sua ode più famosa, Napoleone.
Il secondo blocco (vv 25 - 36) costituisce una breve sintesi, anticipata già da quel cadde, risorse e giacque (v. 16), di carattere però prevalentemente geografico, in quanto ricorda le imprese napoleoniche e le sue conquiste territoriali.
Emerge da tutto questo magma però una domanda che, volutamente, rimane insoluta inducendo a riflettere: Fu vera gloria? E' una domanda difficile, che risulta alquanto tormentata (l'ardua sentenza).
E' proprio quest'ultima parte a fungere da premessa da chiave interpretativa delle sezioni successive.
Abbiamo una sezione (vv 37 - 96) più descrittiva, che a sua volta può essere bipartita: fino al verso 60 si prende in esame la vicenda pubblica e storica di Napoleone: in qualsiasi modo egli possa essere giudicato, indiscutibilmente Napoleone costituisce lo spartiacque tra due secoli, tra il vecchio e il nuovo. Dopo il verso 60 invece parte una riflessione costituente quello che Manzoni chiama il "vero poetico". Infatti viene descritta la vicenda umana di Napoleone, il suo itinerario interiore, il percorso di un uomo che è passato attraverso l'altare, attraverso la polvere, attraverso qualsiasi situazione esperibile dall'umana coscienza, ma che alla fine, nella sua ultima ora, non poté che ritrovarsi, come qualsiasi altro uomo, nella fede e in Dio.
Questa consapevolezza, che già aleggia a partire dal verso 60, si chiarifica sempre di più fino a prendere definitivamente corpo nel verso 88 (Venne una man dal ciel), e si esprime in tutta una terzina a carattere naturalistico - paesaggistico, che arricchisce di poeticità ed intensità il momento catartico.
Le ultime due terzine, invece, sono di impianto prevalentemente riflessivo o morale, reso però anche molto celebrativo e quasi innodico dall'apostrofe alla Fede che trionfa sulla grandezza umana e che rende Napoleone, in punto di morte, niente di più e niente di meno che un uomo alla presenza di Dio.
Questa ricognizione dei blocchi risulta funzionale alla nostra indagine sulla comprensione dello spirito da cui l'ode stessa è animata.
Abbiamo già posto l'accento sull'importanza dei versi 31 - 36.
Fu vera gloria? Ai posteri
L'ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.
All'interno del filo narrativo dell'Ode questa domanda appare collocata in maniera poco ordinata (anche perché l'incipit si configura come un flusso di pensieri); infatti si trova tra due sezioni a carattere descrittivo - narrativo, e l'impressione che da al lettore è come di un'interruzione, di un punto di domanda che interrompe quasi sul nascere quello che sembrava un discorso epesegetico epopeico a carattere fortemente celebrativo. E questa domanda, proprio a questo punto, risuona come un eco colmo di inquietudine. Subito dopo l'immediata rimembranza della grandezza delle imprese di Napoleone, quest'impressione tanto esaltante si attenua e l'autore si chiede dolorosamente: fu vera gloria? Davvero tutte queste conquiste, questo essere incensati dal servo encomio, tutti questi successi che hanno reso Napoleone l'uomo fatale, sono davvero motivo di gloria? Valgono davvero qualcosa, in punto di morte?
La domanda rimane insoluta: è proprio da questo che parte la riflessione che continua fino alla fine.
Per il momento Manzoni può solo rimettersi al Massimo Fattor, che volle stampare in lui la più vasta orma del suo spirito creatore.
Giuseppe Ungaretti offre una acuta interpretazione di quest'orma che due volte Manzoni riferisce all'uom fatal, la prima volta al verso 10, la seconda qui.
Mettiamo a confronto le due strofe:
Orma di piè mortal
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Che cos'è quest'orma? Qui dice che l'orma è stampata da un piè mortale, perché Napoleone è e rimane sempre e comunque un uomo. Ma è un uomo fatale, sia in quanto uomo di guerra sia in quanto portatore in Europa di un determinato tipo di istituzioni e soprattutto del Codice Civile (ricordiamo, a questo proposito, che il nonno di Manzoni era un giurista).
Ed è un uomo fatale non tanto per sua scelta, ma perché il Massimo Fattor volle stampare in lui la più grande orma del suo spirito creatore. Qui Manzoni si rifà alla visione filosofica, già presente in autori come Agostino, secondo cui ogni individuo è espressione del divino, in quanto ne contiene in sé una parte, per quanto limitata. Evidentemente la Provvidenza però, secondo il suo imperscrutabile disegno, riteneva necessario che un essere "fatale" (sia in quanto grande, sia in quanto appartenente al Fato) si "nomasse" per fungere da regolatore dei "due secoli, l'un contro l'altro armato".
Cosicché si apre una nuova problematica di natura ancora una volta filosofica: a stampare l'orma, a compiere tutte quelle imprese, fu Napoleone o il Fato?
Il che vale a dire, per metterla in termini più schiettamente filosofici, Napoleone poté godere del libero arbitrio oppure fu solo un uomo (e quindi un mortale) amministratore del Fato?
Probabilmente fu l'uno e l'altro, perché se fosse stato solo un burattino Manzoni ne avrebbe sicuramente parlato in termini diversi, e se avesse agito in completa autonomia dalla Provvidenza non si vedrebbe il nesso logico con la sezione conclusiva.
In realtà l'arbitrio di Napoleone stette nello scegliere se stampare o meno quell'orma, ma nel modo in cui stamparla Napoleone ha inevitabilmente ubbidito ai disegni della Provvidenza. E questo viene sottolineato dalla curiosa "sgrammaticatura" come la chiama Ungaretti, della seconda strofa.
Orma di piè mortal
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
L'orma non è un'entità concreta che possa calpestare la polvere. L'orma è qualcosa che qualcuno può imprimere o che può essere calpestata. Tuttavia quest'orma che calpesta da un'idea di grandiosità, di continuità, proprio perché è l'orma di uno e l'insieme l'orma di tanti che calpestano ripetutamente quest'orma. Ma questo può avvenire perché allo stesso tempo è il Massimo Fattore della sesta strofa che stampa la sua orma in Napoleone; il che può rendere l'orma di Napoleone qualcosa alla stregua di un'entità concreta proprio perché è resa concreta dal fatto che tutti coloro che in Napoleone vedono l'uomo fatale lo seguono passando sulla sua orma e stampandola ulteriormente nel terreno.
Insomma, quest'orma, oltre ad essere un efficace espediente filosofico per evidenziare il rapporto di Napoleone con la Provvidenza, si traduce soprattutto in un elemento di pura poesia.
Una poesia che, in questo momento, visto il coinvolgimento di tutto un popolo che calpesta l'orma, risulta epica (naturalmente da intendere in senso lato, non come termine tecnico).
Le venature liriche invece sono fortemente presenti nella seconda parte dell'opera (a partire dal verso 60).
In realtà il passaggio epicismo - lirismo poetico è abbastanza discontinuo. Questa ardua sentenza blocca il flusso epopeico della narrazione, che, pur proseguendo in un tono descrittivo - storico, continua a risuonare di quella fatidica domanda che si traduce gradualmente in un'indagine dell'interiorità di Napoleone, il che si configura come un vero e proprio passaggio da vero storico a vero poetico, per usare termini cari a Manzoni.
Al di là dell'uomo fatale, del censore dei due secoli e del fautore di grandi imprese, c'è l'uomo, il mortale che si ritrova a vivere gli ultimi anni della sua vita in un'isoletta sperduta dimenticata dal mondo. E qui la figura di Napoleone viene indagata nel suo profondo. Lo vediamo che cerca di scrivere le sue memorie per i posteri, ma che inevitabilmente rinuncia, forse perché nemmeno lui, secondo me, riesce a cogliere razionalmente il perché e il come delle sue imprese, della sua stessa persona. E questo perché ancora non è consapevole del rapporto della sua opera con un disegno più alto.
Ma questa inconsapevolezza è stata causata proprio dalla grande iperattività che Napoleone ha vissuto negli anni di fulgore. In mezzo a tutta quella che Ungaretti definisce "giostra", in mezzo a tutti quegli incensamenti ed azioni di varia natura, in mezzo a tutta quella pomposità, Napoleone non aveva mai avuto la possibilità di fermarsi per capire.
Solo ora è nato questo rapporto "in tono minore" tra divino e umano, proprio perché, abbandonato da tutto e da tutti, Napoleone viene abbracciato da una nuova consapevolezza, che viene presentata sotto forma di una "mano dal cielo": la speranza.
La speranza verso un divino che trascende l'effimera gloria terrena, una speranza che gli mostra campi eterni e l'eterna beatitudine. E qui c'è la definitiva vittoria dell'Eterno, della Fede e del Divino, sull'effimero, sul mutevole e sull'umano (infatti la Fede è avvezza ai trionfi).
In quest'ultima parte si chiarifica quella che Ungaretti ha chiamato la compresenza di due colonne d'immagini, ovvero divino e umano. Il fatto che perfino l'uomo che fino a quel momento era risultato il più superbo nella storia dell'umanità, alla fine abbia deciso di chinarsi di fronte alla croce del Golgota (cosa che, nelle intenzioni dei suoi aguzzini avrebbe dovuto essere un grande disonore), costituisce da una parte un grande atto di umiltà da parte di Napoleone, dall'altra un primo ricongiungimento con Dio.
Viene assolutamente spontaneo in questo caso il paragone con i Promessi Sposi; in generale la conversione più eclatante dei Promessi Sposi è ovviamente quella dell'Innominato, ma nel caso specifico dell'immagine dell'inginocchiarsi, si richiama alla mente la conversione di Fra Cristoforo.
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