Il cardinale, un''immagine
essenziale' del romanzo
Il
personaggio del cardinale Borromeo - il terzo dei personaggi
'storici' le cui vicende si intrecciano con quelle dei promessi - ha
forse più di ogni altro contributo a dividere in due schieramenti ideologicamente
contrapposti i critici di Manzoni. Da una parte i laici che, con poche
significative eccezioni, hanno sottolineato la rigidità apologetica e
l'astrattezza oratoria del personaggio (casi, per esempio, Luigi Russo vede nel
cardinale le 'massime della morale cattolica contratte e simboleggiate in
un uomo'); di contro i cattolici che ne hanno rivendicato la vitalità
poetica accesa proprio dallo spirito evangelico. Certo è che il Manzoni, nel
tracciarne il ritratto, tace tutte quelle circostanze che avrebbero potuto
mettere in cattiva luce l'alto prelato: così, ad esempio, nel cap. XXXI,
riferendo del processo per stregoneria a Caterinetta Medici, conclusosi con il
rogo, mentre denuncia le responsabilità del Settala, non fa menzione di quelle,
altrettanto e più pesanti, del Borromeo. A proposito di eccezioni nello
schieramento laico, occorre ricordare che la complessità del personaggio era
stata molto chiaramente intuita dal De Sanctis, il quale, a proposito della
conversione dell'innominato, che il Manzoni 'riconduce nelle proporzioni
di un fenomeno psicologico', osserva che 'se Borromeo compie il
miracolo con la sua ardente parola, si deve non solo a quella fiamma di carità
che lo divora, a quella sua eroica esaltazione religiosa, ma a qualità più
mondane che pare diminuiscano il santo, eppure lo compiono e lo perfezionano.
Perché il poeta allato al santo fa apparire il gentiluomo, l'uomo di mondo e di
esperienza, dotato di cultura, di un tatto squisito, di una grande conoscenza
de' caratteri e delle debolezze umane, che indovina i pensieri e le esitazioni
più occulte de' suoi interlocutori, e sa tutte le vie che menano al loro
cuore'. Di seguito un equilibrato ritratto di Federigo tratto dalle
Letture manzoniane del cattolico Giovanni Getto (per cui ad. p.
203).
La
biografia si stende per quasi l'intero capitolo [XXII]. [] A differenza
delle due biografie precedenti di Lodovico [cap. IV] e di Gertrude [capp.
IX-X], non ha un carattere dinamico ed avventuroso, di rappresentazione
drammatica, con movimento di personaggi, di scene, di dialoghi, ma ha un
carattere statico e documentario, di relazione su pregi e virtù, di ritratto in
posa. Ne deriva un capitolo di storia più simile alle pagine sui bravi e sulla
carestia che alle pagine delle biografie di Lodovico e di Gertrude, o comunque
un capitolo tendenzialmente spostato dal tipo di queste biografie ai modi di
quegli excursus storici. []Ogni concessione ai richiami di una agiografia
pittoresca vien meno in questo capitolo dei Promessi sposi. La figura del
cardinale è interpretata su linee severe, con sobrietà di colore, in pagine
inconfondibili, che mantengono un loro tono, diverso da quello delle pagine in
cui Federigo interviene come personaggio fra i personaggi del romanzo. Il volto
rimane sempre identico, naturalmente: quel che cambia è la luce da cui è
investito, il punto di vista dell'autore, l'economia narrativa, stilistica. In
questo capitolo il cardinale Borromeo è un'immagine contemplata con autonomia
di interesse, un'occasione (non avulsa dal romanzo ma necessariamente inserita
in esso) per scrivere un pezzo di storia religiosa milanese, una pagina
agiografica. Negli altri capitoli invece Federigo è visto in funzione dei vari
personaggi, dall'innominato a Lucia a don Abbondio [capp.XXIII-XXVI] o dei
diversi avvenimenti storici, dalla carestia [cap. XXVIII] alla peste [capp.
XXXI-XXXII]. []Il racconto biografico procede prima con sobrietà, compreso
fra due date, quella di nascita (1564) e quella dell'elezione da parte di
Clemente VIII all'arcivescovato di Milano (1595), distinto in tre paragrafi,
dedicati rispettivamente a Federigo fanciullo, adolescente, ventenne: e il
personaggio passa davanti ai nostri occhi nella luce modesta delle virtù
cristiane meno attraenti, l'umiltà soprattutto, da lui cercate, praticate,
intimamente vissute. 'Humilitas': la parola scritta sullo stemma
araldico della famiglia Borromeo sembra guidare la penna di Manzoni e diventare
la realtà morale fondatrice della biografia di Federigo. Nella puerizia l'umiltà
si pone come una parola guida, un punto di orientamento. [] Nell'adolescenza
domina ancora l'umiltà, che si esprime nel servizio rivolto alle menti e ai
corpi dei derelitti. [] E infine nella giovinezza spicca sempre l'umiltà,
che si traduce nella fuga dalle dignità. [] Per questo periodo di tempo
precedente l'elezione di Federigo ad arcivescovo, Manzoni sembra sottolineare
con una tutta speciale partecipazione il valore dato dal suo personaggio alle
parole, ascoltate o pronunziate. Subito, all'inizio, dopo la frase riferita
sulle 'parole d'annegazione e d'umiltà' ('badò fin dalla
puerizia a quelle parole d'annegazione e d'umiltà, a quelle massime ecc.
'), l'autore riprende: 'Badò, dico, a quelle parole, a quelle
massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan
dunque esser vere altre parole e altre massime opposte in Alla fine poi, a
proposito delle resistenze umili di Federigo all'offerta di Clemente VIII e del
valore di tali dimostrazioni 'né difficili né rarefò, Manzoni commenta:
'La vita è il paragone delle parole: e le parole ch'esprimono quel
sentimento [e cioè il 'sentimento virtuoso e sapiente' di cui ha
detto prima, l'umiltà], fossero anche passate sulle labbra di tutti
gl'impostori e di tutti i beffardi del mondo, saranno sempre belle, quando si e
no precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrifizio'. Su
questa rispondenza fra parole e vita egli insiste ancora iniziando la seconda
parte, e la più diffusa, della biografia, quella relativa a Federigo arcivescovo:
'Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio
de' poveri: come poi intendesse infatti una tal massima, si veda da questore. E
segue la documentazione della sua rinunzia ad attingere a quelle rendite per il
proprio mantenimento: 'non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito
vivere di quel patrimonio'. Ancora al principio del capitolo XXVI,
Manzoni, in certo qual modo giustificato dalla anticipazione di questo motivo
biografico, dovendo riferire le parole dette da Federigo nel colloquio con don
Abbondio, ritornerà su questo tema risentito della parola: 'E, per dir la
verità, anche noi [] troviamo un non so che di strano in questo mettere in
campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura
operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle
cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio'.
Manzoni
che tante volte, lungo le pagine del romanzo, ha raccolto la sua meditazione
poetica sulla realtà della parola, sul rapporto di essa con la verità, sul suo
valore in relazione all'intimo sentire dell'uomo, sulla sua funzione di
mediatrice fra uomo e uomo, ritraendone per lo più motivi di dissenso e di
perplessità, indugia ancora una volta su questa realtà umana, esprimendone il
significato che solo la giustifica, di testimonianza della verità, una verità
confermata dalla vita. Le pagine dedicate a Federigo arcivescovo si mantengono
fedeli a questa sobria immagine delineata nel racconto degli anni precedenti.
Quasi a volersi inibire il consenso alle seduzioni figurative emananti dallo
splendore della porpora, l'autore propone fin dall'inizio quel particolare sul
vestire dimesso del cardinale: ' badava di non ismettere un vestito,
prima che fosse logoro affatto'. E il ritratto prosegue con gli accenni
alla mensa frugale [] e con lo scorcio di Federigo tra i fanciulli cenciosi
di un paese alpestre []. Un accento grandioso, ma di una grandiosità severa,
si fa sentire soltanto nelle due pagine che presentano Federigo quale fondatore
della biblioteca ambrosiana: con quella vasta geografia in cui spazia l'incetta
dei libri []; con quelle cifre imponenti dei volumi e dei manoscritti
raccolti []; con quell'insieme di collegi e istituti annessi che
specialmente per la stamperia di lingue orientali si stende in elenco solenne
[]; con quella liberalità eccezionale [].La contrapposizione
dell'ordinamento dell'ambrosiana a quello delle altre biblioteche richiama un
motivo polemico nei confronti del Seicento, che corre in maniera più o meno
scoperta in tutte queste pagine, e che ora viene affidato indirettamente al
personaggio ora viene svolto direttamente dall'autore. Questa situazione
negativa si presenta non solo per quel che si riferisce all'uso e al governo
delle biblioteche, ma anche (e con accentuato intervento giudicante da parte di
Federigo) per quel che riguarda gli uomini di cultura: 'di nove dottori,
otto ne prese tra i giovani alunni del seminario, e da questo si può argomentare
che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel
tempo: giudizio conforme a quello che par che n'abbia portato la posterità, col
mettere gli uni e le altre in dimenticanza'. E, con più personale
assunzione di responsabilità polemica, l'autore conclude sulla biblioteca
ambrosiana: ' e l'eseguì, in mezzo a quell'ignorantaggine, a
quell'inerzia, a quell'antipatia generale per ogni applicazione studiosa'.
Così una antitesi fra il personaggio e il suo tempo è segnata anche a proposito
delle abitudini di Federigo nel vestire, dove è fatto notare l'incontro del
genio della semplicità e di quello d'una squisita pulizia: 'due abitudini
notabili infatti', osserva Manzoni, 'in quell'età sudicia e
sfarzosa'. Allo stesso modo si apre ancora un'opposizione di sensibilità e
di costume sul tema, tipicamente secentesco, delle monacazioni forzate,
affiorante nell'esempio di liberalità, fatta di sapienza e di gentilezza, che
vien riferito []; un esempio commentato come augurabile eccesso di una virtù
sciolta dalle 'opinioni dominanti' e indipendente dalla
'tendenza generale'. Se in tutto il romanzo è naturalmente implicita
la 'polemica del Seicento', in nessun punto come in questo essa si
rende così dichiarata. La presenza del Borromeo si direbbe che provochi, per
amore di contrasto, la violenta accentuazione delle tinte cupe del quadro
storico, mentre, a sua volta, nei capitoli della fame e della peste, la fosca
pittura del secolo sembrerà esigere uno sprazzo luminoso, alla cui funzione
soddisferà appunto l'immagine del grande cardinale. []Eppure, nonostante
questi riflessi agiografici, la figura del cardinale è sottoposta alla fine ad
una limitazione. E questa si riferisce proprio a quella realtà degli studi e
della cultura che, nel giudizio sull'opera e sulla sensibilità di Federigo
fondatore della biblioteca ambrosiana, costituisce la sola eccezione registrata
nel romanzo che sia in netto contrasto con la decadenza del secolo. Manzoni,
dopo di avere ricordato la parte avuta dallo studio nell'attività del Borromeo
('ce n'ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe
bastato') e la fama goduta presso i contemporanei 'd'uom dotto',
aggiunge: 'Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione,
e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d'oggi
parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che
avrebbero una gran voglia di trovarle giuste'. Allo stesso modo, mentre a
proposito della ipotetica domanda del lettore me di tanto ingegno e di tanto
studio quest'uomo abbia lasciato qualche monumento', Manzoni risponde con
un'enfasi un po' sorniona ('Se n'ha lasciati! Circa cento son l'opere che
rimangon di lui, tra grandi e piccole '), alle successive domande dello
stesso lettore sulla ragione dell'oblio in cui quelle opere sono cadute, si
sottrae invece con reticente ironia: 'La domanda è ragionevole senza
dubbio, e la questione molto interessante; perché le ragioni di questo fenomeno
si troverebbero con l'osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero
alla spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e
poi se non v'andassero a genio? se vi facessero arricciare il naso?'. In
tal maniera il ritratto del cardinale Federigo, disegnato inizialmente con netto
distacco sullo sfondo negativo del Seicento, sfuma alla fine gradatamente e si
perde un po' nel grigiore di quel clima storico. Non solo per questi punti di
contatto o di distacco rispetto al suo secolo, ma anche per la sua autonoma
individualità, la figura del cardinale Federigo Borromeo collabora alla
definizione del mondo umano su cui si apre il romanzo, ponendosi come una
componente, e sia pure del tutto eccezionale, di esso. Il cardinale Federigo
interviene nel romanzo non soltanto per portare a compimento, nella sua fase
risolutiva, la conversione dell'innominato, ma anche per istituire una trama
sottile di relazioni con Lucia e Agnese e i suoi incontri con don Abbondio
hanno un insostituibile valore compositivo. E la sua presenza nei capitoli XXVIII,
XXXI e XXXII contribuisce a rendere un più vario paesaggio delle grandi vicende
della carestia e della peste. Il capitolo XXII costituisce dunque la premessa
di una funzione figurativa che si estende per tutta una zona del romanzo.
Federigo, anche se nella vicenda dei protagonisti non rappresenta come fra
Cristoforo una presenza costante ma una semplice apparizione momentanea, entra
tuttavia nel romanzo come una immagine essenziale, e proprio per questo il
capitolo XXII spalanca una prospettiva non oziosa, ma necessaria, ampliando le
dimensioni ideali del romanzo, il suo spazio ideale e il suo tempo ideale.
D'altra parte, in rapporto alla conversione dell'innominato, la vasta pausa
creata dalla biografia prolunga la durata dell'evoluzione spirituale, il senso
del lento processo interiore su cui tanto ama insistere Manzoni, e reca ad essa
un elemento nuovo, ponendo tra le forze che vi concorrono dall'esterno, accanto
alla santità umile di Lucia, la santità eminente di Federigo, sommando
all'esperienza della fede semplice, tutta innocenza e sofferenza, della povera
contadina, l'esperienza della fede complessa, nutrita di dottrina teologica e
profana, sostenuta da una vita esemplare di virtù personali e sociali, del
grande cardinale.