Il bambino con il pigiama a righe.
E' l'ingenuità di un bambino
che questa volta fa da sfondo a uno degli orrori più grandi che ha macchiato
irreversibilmente la storia dell'uomo: lo sterminio degli ebrei. "Il bambino
con il pigiama a righe", film tratto dal romanzo omonimo di John Boyne, è un
film che si commenta da solo. E' duro, secco. Non lascia spazio alla fantasia,
racconta solo le cose come stanno. Strazia chi lo guarda, fa chiedere ancora
una volta perché sia potuto accadere. Mi ha lasciata senza parole, triste e
sconvolta. Infatti secondo me è un film terribilmente brutale, anche se allo
stesso tempo molto delicato. Il suo scopo è quello di raccontare e rivivere
l'orrore dei campi di concentramento. In più aggiunge un ingrediente, che rende
il racconto più coinvolgente: l'amicizia. E non è la solita amicizia tra due
adulti: la storia questa volta è narrata dagli occhi innocui di due bambini. Il
film ha inoltre un finale a sorpresa che distrugge tutto il piccolo fondo di
speranza creatosi nelle ultime scene.
Bruno, il protagonista della
storia, è un bambino tedesco di otto anni dagli splendidi occhi azzurri, che ha
un solo desiderio, quello di tutti i bambini: giocare. Ama molto i libri, ma
soprattutto quelli di avventura, e rimane addolorato quando suo padre, un
soldato nazista, lo porta via dalla sua casa per andare a vivere in campagna.
Bruno non sa esattamente il perché, gli hanno detto solo che era per motivi di
lavoro, si trattava di una promozione. E lui si fidava. La nuova casa era
un'enorme villa bianca circondata da un giardino sorvegliato da soldati. Bruno
però non è contento, perché gli proibiscono di uscire, impedendo così di
"esplorare", il gioco che preferiva e che a Berlino faceva sempre con i suoi
migliori amici. Da subito però, affacciandosi dalla finestra della sua camera,
si rende conto di non essere solo in quel posto: un grande filo di ferro
recintava un rettangolo all'interno del quale si trovavano tante persone
"strane". Bruno è curioso, e subito chiede alla madre se può andarli a trovare.
Dapprima la madre non ci trova nulla di male, ma lo stesso giorno uno di quegli
"strani" omini entra in casa, portando un sacco di patate. E allora la madre
capisce. Corre da suo marito, chiedendo come mai fosse arrivato uno di quelli.
La "fattoria", (così Bruno aveva definito ciò che vedeva dalla finestra), era
molto vicina, troppo. Da allora la mamma controlla il bambino incessantemente,
è terrorizzata del fatto che il figlio possa uscire per andare a conoscere le
persone al di là della rete. Ma l'inconsapevolezza di Bruno è una forte
curiosità, è pura ingenuità. Ma d'altronde cosa altro si poteva pretendere da
un bambino di otto anni? Bruno decide quindi di scappare per qualche ora
durante l'assenza dei genitori. In questo breve tempo conosce Shmuel, un altro
bambino, soltanto un po' "diverso". Shmuel infatti è magro e pallido e indossa
sempre lo stesso vestito: un pigiama a righe bianche e blu. Bruno non ha dubbi:
si tratta di un gioco, e invano Shmuel in maniera vaga e imprecisa cerca di
dirgli che non è affatto un gioco. "Non dovremmo essere amici, tu ed io". E'
questo che dice Bruno a Shmuel, dopo aver parlato con i genitori, anche se disubbidendo il bambino inizia a
scappare tutti i giorni da casa e a stringere amicizia con Shmuel. Contemporaneamente,
in casa di Bruno nascono seri problemi: la madre, comincia a rendersi conto
degli orrori che avvenivano nel campo, scopre delle ciminiere, piange tutta la
notte per l'orribile morte di Pavel, l'ebreo che li aiutava in casa, picchiato
a sangue. Mentre la moglie soffre così, il padre di Bruno continua il suo
lavoro in maniera fredda e spietata, disumana come tutto il nazismo. E' questo
il suo atteggiamento in tutta la vicenda: il distacco è la sua arma più forte.
Ingaggia addirittura un insegnate privato per i due figli (Bruno ha una
sorella, Gretel), che comincia a educare i ragazzi secondo l'ideologia nazista.
Bruno non ascolta, perché sa che Shmuel è un ebreo, e trova quindi impossibile
che un intero popolo sia così spregevole e malvagio. Gretel invece cambia: da
bambina che era, decide di trasformarsi in una donna adulta e con idee proprie:
porta le sue bambole in cantina, e riempie i muri della sua camera con svastiche.
Dopotutto è l'atteggiamento dei ragazzi, seguire i genitori e tutti gli esempi
adulti, accettando le loro idee e trasformandole in proprie. Purtroppo,
all'interno di una situazione familiare così difficile, si ha una svolta, che
porta a un finale inimmaginabile. La mamma convince il marito a permettere a
lei e ai figli di tornare a Berlino, ma Bruno, triste di dover salutare Shmuel
decide di andarlo a trovare per l'ultima volta. Davanti al filo che li separa,
scopre che il suo amico ha perso il padre, non lo trova più. Decidono così di
iniziare quello che per loro senza saperlo sarebbe stato l'ultimo grande gioco:
cercare il padre di Shmuel all'interno della "fattoria". Bruno infatti si era
accorto che il terreno era estremamente morbido, e poteva scavare facilmente.
Si mettono quindi d'accordo: la mattina dopo Shmuel avrebbe portato a Bruno un
"pigiama a righe", sarebbero entrati nel campo e avrebbero cercato il papà.
Bruno subito si rende conto della realtà della "fattoria", vuole tornare
indietro, ma le promesse fatte vanno mantenute. Cominciano la ricerca, e vanno
nella baracca dove dormiva il padre. All'improvviso, dei soldati entrano,
cominciano ad urlare, li portano in un'altra baracca. Gli dicono di spogliarsi,
avrebbero fatto fare loro una doccia. Bruno e Shmuel sono un po' impauriti, ma
tranquillizzati dal fatto che si trattava solo di una doccia. Sì, era solo una
doccia. Ma di gas.