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Una mobilità territoriale straordinariamente intensa, diffusa e crescente si registra nel mondo contemporaneo, che proprio nella mobilità trova uno dei suoi elementi più caratterizzanti.
Persone che tracciano sul territorio una rete fittissima di traiettorie compiendo percorsi brevi o lunghi per distanza o per durata, per necessità o per piacere. E certamente la mobilità intesa nel senso più lato - includendo quindi non soltanto quella delle persone, ma anche quella delle idee, della cultura, dei capitali, della parola e delle immagini, delle merci, dei servizi - è diventata elemento distintivo degli ultimi decenni del secolo XX e certamente lo sarà anche del XXI.
Una mobilità che trova il suo culmine nella rete Internet, attraverso la quale, date certe condizioni minime di infrastrutture e di cultura, tutti possono muoversi navigando, annullando così, in grande misura e in qualche caso del tutto, i nodi del tempo e dello spazio.
La mobilità va diventando sempre più elemento di democrazia reale, dal momento in cui grazie ad essa tutti possono essere messi in condizioni di sfruttare, in situazioni sempre più ampie e diverse, le proprie potenzialità, senza il vincolo, fortissimo e a volte paralizzante, costituito dal contesto umano e ambientale nel quale ogni individuo necessariamente si trova a essere inserito.
Le cause che determinano una crescente mobilità sono note. A livello micro, di singoli individui e famiglie, agisce una sempre maggiore e migliore percezione di sé, della propria condizione di vita in funzione degli altri, delle proprie aspettative e, in moltissimi casi, delle proprie esigenze, anche basilari, di vita. Più in generale si tratta, specie nei paesi economicamente più evoluti, dell'aumento del benessere, compreso quindi l'aumento del tempo libero.
A livello macro agiscono diversi fattori: le esigenze e le spinte, attrattive e repulsive, del mercato - mercato del lavoro e mercato dei beni e servizi-; la disponibilità di infrastrutture, soprattutto di trasporto; la grande crescita economica; i fortissimi, e in molti casi crescenti, squilibri demografici, economici e sociali fra le varie parti del mondo e fra le varie aree all'interno di uno stesso paese e infine il progresso tecnologico.
La conoscenza statistica dei flussi migratori e delle popolazioni degli immigrati, soprattutto stranieri, costituisce un elemento di primaria importanza scientifica e politica. E invece, anche per motivi oggettivi, le statistiche migratorie sono, a livello internazionale incomplete e inattendibili. La conoscenza dal punto di vista statistico degli altri spostamenti territoriali è adeguata nei paesi economicamente sviluppati per quanto riguarda i flussi turistici e gli spostamenti effettuati con mezzi di trasporto collettivi. Lo è invece molto di meno, o è del tutto inadeguata, quando gli spostamenti sono fatti con mezzi privati.
Le migrazioni internazionali e le pseudo migrazioni
Le cause degli spostamenti di persone di cui si è detto sono di natura individuale o familiare. Ma l'individuo si trova e si muove in contesti macro - soprattutto di natura economica e sociale, ma anche normativa e politica - che possono respingerlo dal suo luogo di origine (in base a forze dette di push) e attirarlo nel luogo di destinazione (forze di pull).
Si ritiene infatti che le migrazioni volontarie siano largamente determinate dalla pressione demografica differenziale che esiste fra un paese di origine e un paese di destinazione. Tanto maggiore, in un certo periodo di tempo, è lo squilibrio fra la crescita demografica ed economica di un paese e quella di un altro paese - cioè fra la variazione, l'aumento modesto o addirittura la diminuzione, del reddito pro-capite in un possibile paese di origine e il parallelo aumento in uno possibile di destinazione - tanto maggiore sarà la pressione migratoria che si verrà a creare fra i due paesi. Ma perché essa si manifesti non basta considerare questo aspetto congiunturale, ma occorre che anche i differenziali nel tenore di vita fra i due paesi siano molto ampi.
La pressione demografica così intesa definisce il contesto generale nel quale si viene a trovare, nel paese d'origine, la singola persona che è poi quella che deve prendere la decisione di emigrare, sempre che abbia la possibilità, giuridica o di fatto, di lasciare il paese e abbia quella, giuridica o di fatto, di entrare nel paese di destinazione.
Negli anni Cinquanta si registrava in Europa occidentale una grave carenza di manodopera, come effetto delle tendenze passate della natalità e del largo numero di morti avutosi durante la seconda guerra mondiale. I lavoratori temporanei (i cosiddetti guest workers, i lavoratori ospiti) che provenivano dall'Europa meridionale e da quella orientale furono il principale "strumento" per fornire forza lavoro alla nuova espansione industriale della Germania occidentale dell'epoca, del Belgio, della Francia, della Svizzera, dell'Olanda e, in minor misura, della Svezia.
Le successive migrazioni verso i paesi europei occidentali negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta provenivano in parte da alcuni paesi nordici - Irlanda e Finlandia - ma soprattutto dai paesi del Mediterraneo: dapprima dall'Italia, poi da Jugoslavia, Grecia, Turchia, Spagna e Portogallo. Esse rappresentarono una soluzione sia per le esigenze delle industrie dei paesi europei occidentali, sia per le eccedenze di manodopera dell'Europa orientale e del Mediterraneo settentrionale.
Sulla base delle tendenze e delle politiche adottate dai vari governi nei confronti delle migrazioni fino all'inizio degli anni Settanta, i paesi industriali a economia di mercato possono essere suddivisi in tre gruppi principali: paesi che hanno favorito l'insediamento di immigrati permanenti; paesi che hanno favorito o tollerato la presenza di lavoratori immigrati temporanei; paesi di origine dei flussi migratori.
Con l'inizio degli anni Settanta, tutto è profondamente cambiato. La fine del reclutamento massiccio e organizzato di manodopera da parte dei paesi industrializzati di destinazione delle migrazioni si è rivelato essere non un mero fatto congiunturale, ma la conseguenza di una profonda ristrutturazione del mercato del lavoro e dei processi produttivi mondiali che ha preso spunto dal primo shock petrolifero del 1973.
La rivoluzione è stata profonda e ha fra l'altro sensibilmente mutato le politiche migratorie dei paesi di destinazione, contribuendo a creare nuovi modelli e nuove correnti migratorie e provocando un processo di ulteriore globalizzazione delle migrazioni che, per la loro natura, sono sempre state "globali".
Alcuni di questi fenomeni devono essere interpretati alla luce dei profondi mutamenti strutturali che hanno interessato i mercati del lavoro dei paesi industrializzati (è da citare il fenomeno dei lavori poco graditi o poco pagati che gli autoctoni non vogliono più fare, anche in presenza di una più o meno vasta disoccupazione), alla luce della assai crescente pressione migratoria da parte di paesi in via di sviluppo.
Se si guarda più in dettaglio alla situazione europea deve essere sottolineato che i vecchi paesi di destinazione (cui si devono aggiungere quelli nuovi) si trovano di fronte a una situazione del tutto diversa da quella degli anni Cinquanta e Sessanta, di conseguenza, hanno profondamente cambiato le politiche migratorie. Esse non sono più focalizzate sul reclutamento e sulla ottimizzazione dei flussi in relazione alle necessità dei locali mercati del lavoro, ma sono soprattutto dirette a limitare strettamente la nuova immigrazione e a favorire, nei limiti del possibile, da un lato il rimpatrio e dall'altro l'integrazione, o l'assimilazione, dei già immigrati.
Le prospettive dei perduranti e in molti casi crescenti squilibri nelle tendenze demografiche e socio-economiche, lasciano credere che, con ogni probabilità, le migrazioni internazionali continueranno anche nel XXI secolo a essere un fattore strutturale dei rapporti fra le nazioni, così come lo sono state nei due secoli passati.
Un problema specificamente europeo derivato dai fenomeni migratori è costituito dalla sovrapposizione e dalla coesistenza di antiche e nuove minoranze.
Da un lato si hanno infatti antiche minoranze storicamente determinatesi a seguito delle vicende dell'Europa che possono considerarsi del tutto straordinarie visto che si tratta di un continente che possiede tratti di omogeneità assolutamente peculiari, dati da un sistema politico e da una cultura con fortissime radici comuni (la civiltà greca, l'impero romano, la cristianità, le invasioni 'barbariche'). Le stesse vicende hanno d'altra parte prodotto ramificazioni e differenziazioni altrettanto forti attraverso le lingue, determinanti per la formazione dei gruppi etnici, e gli avvenimenti politici, determinanti per la formazione degli stati nazionali. Dall'altro lato si hanno le nuove minoranze, quelle formate dagli immigrati che si sono insediati a milioni in Europa, specie a partire dal secondo dopoguerra.
Per i meccanismi sopra ricordati, oltre che per l'obiettivo interesse della comunità a salvaguardare l'identità storica dei luoghi e delle popolazioni, il fenomeno delle nuove minoranze e il problema delle forme di integrazione più efficaci rappresentano certamente una delle sfide più importanti e difficili per la società europea del XXI secolo.
La popolazione dei rifugiati, che rappresentano i cosiddetti pseudo migranti, è cresciuta notevolmente negli ultimi 30-35 anni del XX secolo: da meno di 2 milioni nel 1965 a circa 13,2 milioni della metà degli anni Novanta. Tale cifra è soltanto una stima di larga massima, ma quale che sia la reale portata del fenomeno dei rifugiati, si tratta in ogni caso di un fenomeno rilevante e fortemente variabile di anno in anno. Sono i continenti e i paesi più poveri che ospitano il maggior numero di rifugiati e di altre persone bisognose di aiuto e ne sostengono maggiormente il peso: alla fine degli anni Novanta l'Africa ne ospitava 6,3 milioni e l'Asia 7,5. L'Europa, tradizionale terra di asilo, ne accoglieva un numero minore, anche se straordinariamente cresciuto negli ultimi anni a seguito dei tragici eventi registratisi nella ex Iugoslavia. Né meno importanti sono gli spostamenti forzati di popolazione all'interno di un singolo paese.
Le migrazioni interne - soprattutto quelle effettuate per ragioni economiche e di sopravvivenza, ma non esclusivamente - sono state una costante dell'umanità in tutti i tempi e in tutti i luoghi. La loro intensità e diffusione erano però piccola cosa rispetto alle migrazioni che si sarebbero avute nel secolo XIX e assai di più nel XX, quando la rivoluzione industriale ha richiamato masse enormi di popolazione nelle zone urbane e industriali, favorendo e assecondando parallelamente il processo di ammodernamento della agricoltura, con una riduzione progressiva e irresistibile della popolazione addetta al settore primario (che costituiva fino all'85-90% del totale della popolazione attiva - com'è peraltro ancora adesso nei paesi economicamente più arretrati - e che è arrivata al 3-5% nei paesi a sviluppo economico avanzato).
Lo sfasamento temporale fra sviluppo demografico, sviluppo industriale, ammodernamento dell'agricoltura e crescita urbana hanno dato luogo in Europa a complesse combinazioni fra migrazioni interne di breve raggio, migrazioni interne di lungo raggio, migrazioni internazionali intracontinentali e intercontinentali: combinazioni difficili, che hanno comportato altissimi costi umani, ma che hanno, nello stesso tempo, fatto ritrovare al vecchio continente un equilibrio dinamico al rapporto fra popolazione e territorio, fra popolazione e produzione (agricola, industriale e di servizi), fra popolazione e risorse, fra popolazione e luoghi in cui vivere.
I movimenti interni di popolazione hanno peraltro, da sempre, interessato anche i paesi di Africa, Asia e delle Americhe (negli Stati Uniti, forse come retaggio della mentalità degli antichi pionieri, una straordinaria mobilità lavorativa e residenziale è fatto normale. Basti pensare che, nel 1940, il 22,4% della popolazione risiedeva in uno stato diverso da quello di nascita).
Dall'inizio della rivoluzione industriale e per molti decenni a seguire la triade industrializzazione-migrazioni-urbanizzazione, fra le cui componenti vi era un intenso e mutuo interscambio, è stata alla base del processo di modernizzazione che ha dato alle società occidentali la spinta decisiva verso lo sviluppo globalmente inteso.
La grande città, diventando sede delle industrie più importanti si è alimentata per la grande crescita demografica. Una crescita demografica che è stata assai lenta fino al XIX secolo e che poi è esplosa nel XX e che, con ogni probabilità, proseguirà nel XXI secolo.
La grande crescita urbana era, proprio perché legata alla industrializzazione, concentrata nel mondo economicamente più progredito: al 1950, delle 30 più grandi agglomerazioni urbane del mondo, 20 erano localizzate nel Nord del mondo e 10 nel Sud. Al 2000 le più grandi agglomerazioni urbane sono 8 nel Nord del mondo e 22 nel Sud. Al 2015 si stima che potranno essere, rispettivamente 6 e 24. I dati dimostrano quindi che, per quanto riguarda le aree urbane, in soli 65 anni i rapporti fra Nord e Sud del mondo si saranno completamente invertiti.
Per tutti i secoli XIX e XX urbanizzazione e crescita economica sono andati sostanzialmente mano nella mano nei paesi industrializzati e, quando si sono creati forti squilibri demografico-economici, i paesi europei hanno avuto la valvola di sfogo dell'emigrazione internazionale con i nuovi mondi da popolare e le colonie da sfruttare. Fra il 1800 e il 1950 Londra è cresciuta di 7,7 milioni di abitanti a un tasso medio annuo dell'1,5% all'anno e l'emigrazione verso gli Stati Uniti è stata intensissima, così come quella verso le colonie. Attualmente la popolazione ha smesso di crescere, fra il 1950 e il 2015 la diminuzione potrebbe essere di 1 milione di abitanti.
Nella seconda metà del XX secolo l'urbanizzazione è cresciuta nei paesi in via di sviluppo, dove la crescita demografica supera per rapidità la crescita economica; fra il 1950 e il 2000 Lagos è cresciuta di 46 volte a un tasso medio dell'8,0% per ognuno di tutti i 50 anni e Dacca di 29 volte a un tasso del 7,0%. Ci si può aspettare che nei prossimi 15 anni la prima si accrescerà ulteriormente di 9,8 milioni di abitanti e la seconda di 8,7 milioni ed è evidente che non ci saranno le risorse finanziarie, economiche, politico-amministrative in grado di fronteggiare una tale intensissima crescita.
Nei paesi a sviluppo avanzato il quadro della crescita urbana è cambiato profondamente da quando, a partire dagli anni Sessanta, la triade industrializzazione-migrazioni-urbanizzazione non è stata più in equilibrio. Dati quantitativi e qualitativi confermano l'esistenza di un ciclo evolutivo nella triade, così come nella interazione fra le sue componenti. L'elemento del sistema che sembra aver sperimentato la crisi maggiore è la grande città che nel tempo si è dimostrata incapace di continuare a ottimizzare la relazione fra attività produttive, mercato e residenza.
È quindi cresciuta l'importanza delle città di piccola e media ampiezza, oltre che di tutti gli insediamenti che fanno da corona alla grande città centrale. Si è attuata così in quasi tutti i paesi economicamente progrediti una disseminazione dell'urbano su territori sempre più vasti.
La mobilità della popolazione legata all'uso del tempo libero
L'elevata crescita della mobilità che si è registrata negli ultimi decenni soprattutto nei paesi più ricchi, è determinata e sostenuta da un significativo sviluppo economico, dalla sempre maggiore disponibilità, frequenza e diffusione di mezzi di comunicazione economici e relativamente sicuri, da stili e condizioni di vita e da fattori socio-culturali, fra cui la "necessità" di sempre più fitti e frequenti interscambi sociali.
Sullo sfondo, giocando un ruolo non secondario, vi sono la stabilità politica dei paesi e anche, per la mobilità internazionale, gli accordi che essi stringono.
Da questa situazione deriva una diversa relazione tra individuo e spazio, anche per il fatto che sono aumentate in termini di frequenza e di rapidità le differenti funzioni e attività che una persona svolge nell'arco di una giornata, in virtù di una forte riduzione del tempo necessario per gli spostamenti. Il tempo e il territorio di vita dell'individuo si sono così dilatati straordinariamente.
Quando si voglia avere un'idea dell'intensità degli spostamenti territoriali dovuti a viaggi e vacanze in un singolo paese, ci si può riferire ad esempio all'Italia. Il numero di viaggi con pernottamento effettuati dagli italiani nel 1998 è risultato pari a 92.953.000, di cui l'84,6% in Italia, il 9,9% negli altri paesi dell'Unione Europea, il 2,5 negli altri paesi europei e infine il 2,9% (perciò 2.737.000) nel resto del mondo: una media per abitante di 1,6 viaggi con pernottamento. Se a questi viaggi, che in media sono 255.000 al giorno, si aggiungono quelli che vengono fatti quotidianamente senza che comportino un pernottamento e gli spostamenti che non vengono considerati viaggi, ben si intende come il territorio italiano - così come quello di qualsiasi paese economicamente progredito - sia coperto ogni giorno da una mobilità straordinaria costituita da una fittissima rete di traiettorie.
Le statistiche sui flussi turistici internazionali mostrano una significativa concentrazione geografica delle aree di arrivo dei turisti. Nel 1999, il 40% del volume dei flussi ha avuto come destinazione sei paesi (Francia, Spagna, Stati Uniti, Italia, Cina, Regno Unito). Durante la prima metà degli anni '90 si è registrata una lenta e graduale diversificazione del mercato turistico con una progressiva crescita di importanza dei paesi della regione dell'estremo oriente (in particolare Cina e Hong Kong) e dell'Europa centro-orientale (soprattutto Polonia e Repubblica Ceca). I flussi sono fortemente in aumento, specie per i paesi in via di sviluppo e quindi in molti paesi il turismo sta diventando, quando già non lo è, un settore di primaria importanza economica.
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