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Hannah Arendt (1906-1975)




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Hannah Arendt nata nei pressi di Hannover, studentessa tra il 1924 e il 1929 nell'università di Marburgo, dove fu allieva di Heidegger, con il quale ebbe anche una relazione sentimentale. Di famiglia ebraica la sua educazione e permeata dei valori dell'ebraismo anche se ciò si manifesterà soltanto in età adulta. Infatti per molto tempo Hannah si disinteressa totalmente all'ebraismo e anche quando in età adulta avrà inizio il recuperò della sua identità ebraica, esso sarà rivolto agli aspetti politici e storici, non a quelli prettamente religiosi. Fin da giovanissima Hannah si interessa di filosofia e all'università avrà eminenti maestri quali Martin Heidegger, Edmund Husserl e Karl Jaspers(quest'ultimo rimarrà fino alla morte insostituibile amico e guida spirituale).Nel 1929 a Berlino inizia ad avvicinarsi alle problematiche politiche e alla questione ebraica. Arrestata nel 1933 dopo l'incendio del Reichstag per aver aiutato alcuni comunisti a fuggire dalla Germania,riuscì fortunosamente a fuggire a Praga, poi a Ginevra e a Parigi e successivamente, nel 1941, a New York dove troverà rifugio dalla drammatica situazione europea, qui si rafforza la sua militanza e attività politica con organizzazioni ebraiche: arriva a cercare di raccogliere dei fondi per la formazione di un esercito ebraico che combatta al fianco degli Alleati, procede al recupero del patrimonio ebraico disperso durante la guerra e così via. Dopo la guerra potè riallacciare i suoi rapporti con Karl Jaspers, mentre incontrò difficoltà con Heidegger, anche per il persistente silenzio di quest'ultimo sulla propria adesione al nazismo. Nel 1948 nasce lo Stato di Israele e Hannah prende una posizione imparziale e coraggiosa, con essa si attirerà l'ostilità di larghissimi settori della comunità ebraica:ella ne denuncia il fanatismo nazionalistico, sottolineando che la pace in medio Oriente non sarà mai possibile finchè la politica d'Israele tenderà a escludere i Palestinesi, a negare loro la cittadinanza israeliana e a ridurli alla condizione di minoranza nazionale.

La prima opera significativa della Arendt, pubblicata negli Stati Uniti, è 'Le origini del totalitarismo' (1951). Questa è una delle opere più importanti e famose di Hannah Arendt, si tratta di un'analisi del processo di formazione di un totalitarismo, dalla sua ascesa alla conquista del potere. L'approccio non è solo di tipo storico ma anche sociologico, politico e psicologico, continuamente alternati e intrecciati insieme. L'opera è articolata in tre parti: l'antisemitismo, l'imperialismo e il totalitarismo. I primi due vengono indagati a fondo in quanto concause del formarsi del totalitarismo e in quanto elementi interagenti con esso. L'antisemitismo viene studiato come fenomeno rigorosamente circoscritto all'epoca moderna e non semplicisticamente ricondotto all'odio secolare per il "popolo eletto";Hannah delinea così le cause politiche, sociali ed economiche che hanno resuscitato l'antisemitismo nell'epoca contemporanea. Per quanto riguarda l'imperialismo anch'esso è delimitato storicamente e distinto in maniera precisa dal vecchio colonialismo del cinque-sei-settecento. L'epoca contemporanea ha visto un nuovo tipo di espansione coloniale, finalizzata non più alla conquista, ma alla costruzione di imperi economici, alla spartizione del mondo;questo è un assoluto capovolgimento dei valori che attribuisce l'assoluta priorità economica anziché alla politica. L'imperialismo trova i suoi ingredienti fondamentali nel razzismo e nella riduzione della politica a un governo di burocrati, irrispettoso del diritto e dell'uguaglianza;gli stessi ingredienti del totalitarismo. Caratteristica saliente del totalitarismo è non tanto una concezione filosofica, quanto l'esistenza dei campi di concentramento: nessun governo totalitario, infatti, può sussistere senza terrore e il terrore non può essere edificato e mantenuto senza tali campi, nei quali gli individui sono ridotti a entità superflue. Per questo aspetto esistono, secondo la Arendt, profonde analogie tra nazismo e stalinismo, entrambi diversi dalla democrazia proprio per l'assenza di ogni salvaguardia delle libertà civili. L'esperienza della rivoluzione in Ungheria, nel 1956, rafforza la sua convinzione che l'unica alternativa al totalitarismo nell'età moderna è nel sistema dei Consigli teorizzati da Rosa Luxemburg, che nascono spontanei, senza organizzazione, in nome della libertà, nel corso dei moti rivoluzionari. Intanto, lo studio di Marx e del problema del lavoro la conduce ad interrogarsi sul tema dell'equilibrio delle attività umane: nasce di qui il volume ' La condizione umana ' (1958), noto in Italia col titolo 'Vita activa'. Ispirandosi all'etica aristotelica, Arendt individua tre componenti nella vita attiva degli uomini: sono tre attività, il lavoro, la fabbricazione, o produzione di oggetti e l'azione (in greco, 'praxis'), le quali si connettono alle condizioni generali dell'esistenza umana, ossia al nascere e al morire, al rapporto con gli altri e alla permanenza sulla terra. Il lavoro assicura la sopravvivenza non solo individuale, ma della specie umana, mentre la fabbricazione produce un mondo sulla terra. Mentre è possibile lavorare e produrre anche in solitudine, non è possibile agire se non in relazione almeno ad un'altra persona, ossia, in generale, ad una pluralità di individui. Questo vuol dire che lavoro e fabbricazione non realizzano qualità specificamente umane, dal momento che anche un animale può lavorare e una divinità artefice potrebbe produrre. Specificamente umano è, invece, l'agire insieme, che costituisce l'ambito della politica e presuppone il linguaggio come mezzo essenziale per il rapporto tra una pluralità di individui. Ciò stabilisce una distinzione tra la sfera pubblica, corrispondente alla polis dei greci e la sfera privata, corrispondente all'oikos dei greci: quest'ultima è il regno della necessità, caratterizzato dalle attività economiche del lavoro e della produzione necessarie per sopravvivere, mentre la politica è il regno della libertà, dell'emergenza del nuovo. Tutte queste attività, infatti, sono radicate nella natalità, in quanto hanno il compito di preparare e conservare il mondo per i nuovi venuti, ma più di tutte lo è l'agire, come capacità di dar luogo a qualcosa di integralmente nuovo. I rapporti tra queste attività, che sono le costanti dell'esperienza umana, variano storicamente.                                

Nel mondo moderno, il lavoro ha assunto una posizione di primato rispetto all'agire, prioritario presso i greci, e al fabbricare, dominante nell'immagine cristiana di un Dio creatore. Questo mutamento ha indebolito la distinzione tra pubblico e privato e ha generato una nuova sfera, quella del sociale, che viene ad assumere le funzioni prima pertinenti all'oikos e alla polis. I risultati sono, da un lato, una nazione amministrata burocraticamente come se si trattasse di un'unica famiglia e un generale conformismo e dall'altro, una riduzione della partecipazione politica attiva e la trasformazione della sfera privata in intimità puramente individuale. L'integrazione armonica delle varie attività, con l'attribuzione del primato all'agire e quindi, alla politica, si è invece realizzata, ad avviso di Arendt, nella polis, ma già i filosofi greci avevano minato questo modello, nel momento in cui, a partire da Platone, avevano spezzato la connessione tra la prassi e il discorso, che caratterizza la politica e subordinato la politica alla loro attività, intesa come teoria, ossia attività contemplativa.

In questa situazione, la politica veniva concepita come un ambito che deve essere disciplinato da regole che nascono nella sfera superiore della teoria e sono accessibili soltanto ad una saggezza superiore. Da questa impostazione sono nate, in età moderna, le filosofie della storia e le teorie, come quella hegeliana, che trasformano le nozioni di mezzo e di fine in categorie politiche e interpretano la storia come un processo necessario, finendo in tal modo per giustificare le pratiche totalitarie del XX secolo e sollevando dalla responsabilità di giudicare gli eventi storici. In opposizione a ciò occorre, secondo Arendt, una nuova scienza politica, che torni a porre al centro l'azione, interpretata come inizio di qualcosa di nuovo e di imprevedibile, non fabbricabile nè dall'uomo, nè da Dio. Infatti, quando un'azione si perverte in una specie di fabbricazione, si può generare il male e la distruzione degli uomini. In questa prospettiva, nello scritto ' Sulla rivoluzione ' (1963), la Arendt individua il conflitto essenziale dell'epoca moderna non tra diversi sistemi economici o tra classi, ma tra libertà e autoritarismo; da parte sua, ella si schiera dal lato delle associazioni che nascono spontaneamente, soprattutto nelle situazioni rivoluzionarie, ma rifiuta la definizione della politica come lotta per il potere e le giustificazioni della violenza, fornite da Marx, Sorel e Sartre, in quanto confondono tra loro azione, fabbricazione e processi naturali: ai suoi occhi, la non violenza è essenziale al movimento per la pace e la disobbedienza civile è lo strumento per la difesa dei diritti civili.

Nel 1960 seguì a Gerusalemme, come corrispondente di un giornale, il processo all'ex tenete colonnello nazista delle SS Eichmann, che le apparve un uomo mediocre, incapace di distinguere tra bene e male: da ciò trasse la conclusione della "banalità" del male, che non ha di per sé profondità e attribuì una parte di responsabilità del genocidio alle stesse vittime del nazismo, ma questo sollevò nei suoi confronti accuse di antisionismo e una campagna diffamatoria che si sviluppo in tutti gli ambienti ebraici, nello Stato d'Israele, in Europa, negli Stati Uniti e nelle Germania post-nazista che la turbò profondamente. Tutti i suoi articoli furono raccolti in un unico volume pubblicato col titolo "Eichmann a Gerusalemme" (nell'edizione italiana, "La banalità del male").

Intanto, a partire dal 1956, aveva cominciato a insegnare all'università di Berkeley, per passare poi a quella di Chicago, tra il 1963 e il 1967, e infine alla 'New School for Social Research' di New York, dal 1967 sino alla morte.

L'ultima opera, rimasta incompiuta, 'La vita della mente', pubblicata postuma nel 1978, è presentata da Arendt come 'un trattato del buon governo mentale': essa descrive le attività dello spirito, ossia il pensare, il volere e il giudicare, cercando di mostrare la necessità di un controllo e di un equilibrio reciproco fra esse. Il pensare è diverso dal conoscere, che ha un oggetto e un fine: esso, invece, non ha un oggetto, ma si riferisce solo a sé e produce significati, non la verità, che è piuttosto prodotta dal consenso. Il pensare consente di affrontare i fenomeni direttamente, senza alcun sistema preconcetto e quindi prepara il terreno al giudizio, che rappresenta la vera attività politica della mente. Anche il volere è costitutivo della sfera politica, in quanto mira a produrre un riconoscimento reciproco tra gli individui. In questo senso, la Arendt critica Heidegger per aver rifiutato il volere a favore del pensiero, concepito come forma di azione: ciò equivale, infatti, a rifiutare la politica.


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