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GUIDO CAVALCANTI
La coscienza artistica si mostra in Cino nelle qualità tecniche ed esteriori della forma. La sua principale industria è di sviluppare gli elementi musicali della lingua e del verso né fino a quel tempo la lingua sono, sì dolce in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo polito, da cui sia rimossa ogni asprezza e ineguaglianza. Ma qualità più serie e più profonde si rivelano in GUIDO CAVALCANTI. Anche in lui la perfezione tecnica è somma, anzi in lui è scienza. Innamorato della lingua natia, pose ogni studio a dirozzarla e fissarla, e scrisse una grammatica e un'arte del dire*. Egli, nota Filippo Villani, dilettandosi degli studii rettorici, essa arte in composizioni di rime volgari elegantemente ed artificiosamente tradusse. Di che si vede quanta impressione dovè fare sù contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte. Così Guido divenne il capo della nuova scuola, il creatore del nuovo stile, e oscurò Guido Guinicelli:
Così ha tolto l'uno all'altro Guido
La gloria della lingua.
Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti: sostanza era la filosofia. Perciò aveva a disdegno Virgilio, parendogli, dice il Boccaccio, la filosofia siccome ella è, da molto più che la poesia. Sottilissimo dialettico, come lo chiama Lorenzo de' Medici, introduce nella poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche, e mira a questo: non solo di dir bene, ma dir cose importanti. I contemporanei studiarono la sua Canzone dell'amore come si fa un trattato filosofico, e ne fecero comenti, come si soleva di Aristotile e di san Tommaso: anche più tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone. Così Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso ed elegante dicitore, ma come sommo filosofo.
Questo voleva Guido e questo ottenne, questo gli bastò ad acquistare il primo posto fra i contemporanei. Salutavano in lui lo scienziato e l'artista.
Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu benemerito della scienza perché la divulgò, non perché vi lasciasse alcuna sua orma propria. E fu artefice più che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della forma, vanto non piccolo, ma che tocca la sola superficie dell'arte.
La gloria di Guido fu là, dov'egli non cercò altro che un sollievo e uno sfogo dell'animo. Fu là, ch'egli, senza volerlo e saperlo, si rivelò artista e poeta. Vi sono uomini che i contemporanei ed essi medesimi sono incapaci di apprezzare. Guido era più grande ch'egli stesso e i suoi contemporanei non sapevano.
Guido è il primo poeta italiano degno di questo nome, perché è il primo che abbia il senso e l'affetto del reale. Le vuote generalità dei trovatori, divenute poi un contenuto scientifico e retorico, sono in lui cosa viva, perché, quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni e i sentimenti dell'anima. La poesia, che prima pensava e descriveva, ora narra e rappresenta, non al modo semplice e rozzo di antichi poeti, ma con quella grazia e finitezza a cui era già venuta la lingua, maneggiata da Guido con perfetta padronanza. Qui sono due forosette, egregiamente caratterizzate, che gli cavano di bocca il suo segreto d'amore. Là è una pastorella che incontra nel boschetto, e ti abbozza una scena d'amore colta dal vero. Sono gli stessi concetti de' trovatori, ma realizzati non solo ornati e illeggiadriti al di fuori, ma trasformati nella loro sostanza, divenuti caratteri, immagini, sentimenti, cioè a dire vita e azione. Senti là dentro l'anima dello scrittore, ora lieta e serena, che si esprime con una grazia ineffabile come nelle ballate delle forosette e della pastorella; ora penetrata di una malinconia che si effonde con dolcezza negli amabili sogni dell'immaginazione e nella tenerezza dell'affetto, come nella ballata che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il presentimento della morte. Qui lo scienziato sparisce e la retorica è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro, naturale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il sentimento e l'espressione. Il poeta non pensa a gradire, a cercare effetti, a fare impressione con le sottigliezze della dottrina e della retorica: scrive se stesso, come si sente in un certo stato dell'animo, senz'altra pretensione che di sfogarsi, di espandersi, segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino. I posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sé:
I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto e a quel modo
Ch'ei detta dentro, vo significando.
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