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Gli orientamenti letterari del primo '900




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Gli orientamenti letterari del primo '900


La letteratura del Novecento in Italia si apre con i movimenti crepuscolare e i futurista: due diversi orientamenti con alcuni atteggiamenti che potremmo riportare a una matrice comune: quella del rifiuto e del superamento dei modelli dannunziani e pascoliani. Le prime esperienze poetiche del secolo nascevano da una precisa volontà di rinnovamento dei contenuti e delle forme liriche: al modello del poeta-artista, rappresentante di un universo raffinato ed esclusivo, cultore di un'esistenza privilegiata e inimitabile, sempre più integrato nei meccanismi dell'industria editoriale, quindi esponente di una concezione mercificata del prodotto artistico, andarono progressivamente affermandosi modelli di scrittura e di organizzazione culturale che portavano con sé una volontà di protesta, di rifiuto, di auto-emarginazione da questo contesto.

In questo senso la letteratura del primo Novecento svilupperà una nuova coscienza morale dello scrittore attraverso il rovesciamento e la liquidazione dei tratti aristocratici ed elitari del codice decadente.

Un dato comunque interessante è quello che vede, nel primo decennio del secolo, ancora sovrapposte le esperienze del maturo dannunzianesimo a quelle della generazione più giovane: tra i poeti, Gozzano e Saba sono del 1883, Govoni del 1884, Campana, Rebora e Moretti del 1885, Corazzini del 1886, Sbarbaro e Ungaretti del 1888; tra i prosatori e i critici che animarono le più importanti riviste vi sono Papini del 1881, Prezzolini e Borgese del 1882, Tozzi, Serra e Cecchi del 1883, Jahier del 1884, Michelstaedter e Boine del 1887.

Caratteristici di questa fase, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, sono alcuni atteggiamenti contrastanti, che si manifestano in rotture improvvise e in altrettanto rapidi tentativi di ritorno all'ordine: lo sviluppo di poetiche ed estetiche d'avanguardia si intrecciò a frequenti e brusche frenate nei confronti delle novità ideologiche e delle rivoluzioni formali. Tutto questo almeno all'interno del primi venti trent'anni del secolo, quando il peso della tradizione e la volontà di superamento di certi schemi formali portò all'affermazione di un nuovo sistema letterario, una sorta di antisistema in cui si sviluppavano tendenze diverse, eterogenee, concomitanti.

Dopo l'esperienza letteraria nostrana di Carducci, Pascoli e D'Annunzio, la generazione che si affaccia,nei primi anni del secolo, sul palcoscenico della poesia e del romanzo manifesta una spiccata vocazione ad assimilare in fretta, e spesso in maniera generica, alcune tematiche di spessore europeo: la grande lezione del simbolismo francese, la psicanalisi, il pensiero negativo e "destrutturante" di Nietzsche, le filosofie di Bergson e di William James (che penetrarono in Italia grazie all'impegno di alcune riviste).


I crepuscolari


La rottura con il passato si manifesta con una concreta "perdita d'aureola", cioè con una vissuta e inevitabile rimessa in discussione dell'antico privilegio dell'artista decadente. La professione del poeta viene dunque riportata all'interno di un ruolo quotidiano, piccolo-borghese, che viene privato e depurato di qualsiasi istanza retorica e trionfalistica: l'immagine dell'artista risulta fortemente ridimensionata e circoscritta a una concezione del mondo ristretta, personale, mai totalizzante o assoluta. Se guardiamo alle metafore con cui i giovani poeti di questa generazione tratteggiano la figura del poeta possiamo facilmente individuare questa crisi del ruolo. Palazzeschi adopera l'immagine del saltimbanco (nella lirica giovanile Chi sono?), Saba (in Il poeta, da Trieste e una donna) quella dell'uomo "come tutti gli uomini di tutti i giorni", Corazzini quella del "piccolo fanciullo che piange" (in Desolazione del povero poeta sentimentale, da Piccolo libro inutile), Gozzano quella del reduce e del sopravvissuto (nella raccolta I colloqui).

La rivendicazione di questa diversità passa attraverso l'emarginazione e la rottura con i tradizionali veicoli dell'artista romantico: l'esistenza dei poeti crepuscolari viene ricondotta al tema della malattia (anche reale, come in Corazzini e Gozzano) e della inadeguatezza a svolgere una missione sociale e pubblica. Essa equivale a una metafora dell'esistenza, a una dichiarazione di impotenza e di incapacità a definire il mondo e la realtà come funzionali a qualcosa di altro rispetto alla poesia: in altri termini, mentre in D'Annunzio la letteratura consisteva nella riproduzione di una vita straordinaria ed eccezionale, nel caso dei crepuscolari e di altre esperienze vicine, l'obiettivo del poeta è essenzialmente quello di concentrarsi sul testo, sull'elaborazione artistica in quanto unico elemento di confronto con la realtà, vera e propria fonte di salvezza spirituale.

Spetta al critico letterario Giuseppe Antonio Borgese il merito di avere per primo adoperato in un articolo giornalistico il termine di "crepuscolare" per indicare il tono lirico di alcuni poeti da lui recensiti. L'articolo, pubblicato sulla "Stampa" di Torino il 1 settembre 1910, si intitolava appunto Poesia crepuscolare e additava come esempi le Poesie scritte col lapis di Marino Moretti, le Poesie provinciali di Fausto Maria Martini e Sogno e ironia di Carlo Chiaves. Dall'articolo di Borgese in avanti quella dei crepuscolari è divenuta una questione estremamente importante per discutere e definire l'orientamento della poesia italiana del primo quindicennio. Anzitutto andrà precisato che i crepuscolari non dettero vita a nessun movimento o raggruppamento precostituito: essi non si attennero a ordini, schemi, modelli e strategie comuni, come avrebbero fatto invece i futuristi o altre avanguardie artistiche di questo periodo. Anche la terminologia che si adoperò per definire il loro comportamento venne utilizzata a posteriori, quando cioè le loro poesie erano in parte già stampate: un fatto questo che invece non riguarda i veri e propri movimenti d'avanguardia, che definiscono in anticipo le terminologie, i compiti, la funzione attribuita al messaggio artistico. Dell'esperienza crepuscolare, "quella dei lirici che s'annoiano", il Borgese metteva in evidenza "la torpida e limacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare", un connotato negativo, nostalgico del loro fare poetico: questa configurazione è rimasta sostanzialmente invariata anche nei giudizi successivi della critica. I crepuscolari hanno raffigurato con la loro disincantata visione un mondo parcellizzato, decaduto, composto di situazioni e eventi banali, simboli di una inadeguatezza e di una debolezza vitale, popolato di anti-eroi, di controfigure letterarie, di luoghi in cui rifugiarsi e nascondersi dal clamore di una realtà a cui non sentivano di appartenere.

La loro collocazione geografica non rispecchia una volontà comune di assimilarsi entro un progetto collettivo: Torino (Gozzano, Chiaves), Roma (Corazzini), la Romagna (Govoni, Moretti) sono i luoghi che videro delinearsi e emergere questa nuova poetica, ma senza una precisa intenzione di collocarsi all'interno di una strategia editoriale o commerciale, che anzi essi rifiutarono decisamente. In questo senso i crepuscolari, in misura più consapevole rispetto ai contemporanei futuristi, rappresentavano un clima di ripiegamento e auto-emarginazione dalla cultura borghese allora dominante: i loro modelli erano rintracciabili nel simbolismo introspettivo di Maeterlinck, Rodenbach e Jammes, nelle atmosfere dei giardini chiusi del Poema paradisiaco di D'Annunzio, nella lirica campestre del Pascoli di Myricae e dei Canti di Castelvecchio.


Guido Gozzano

(Torino, 1883 - Aglié Canavese, Torino, 1916)


Ristretto in uno spazio culturale, la Torino tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, quanto mai significativo per gli sviluppi di cui sarà poi capace, la biografia di Gozzano appare avara di contenuti e manifestazioni eccezionali, alternata soltanto dai lunghi soggiorni nel Canavese, dal rapporto sentimentale con la scrittrice Amalia Guglielminetti (testimoniato da un ricco carteggio), dal viaggio in India (1912), compiuto nel vano tentativo di alleviare gli effetti della tubercolosi.

Nell'interpretazione della poesia di Gozzano, concentrata nell'arco brevissimo di poco più di un decennio, hanno prevalso differenti orientamenti: si è visto nelle sue due raccolte principali (La via del rifugio del 1907 e I colloqui del 1911; il poemetto lasciato incompiuto Le farfalle) il tentativo di lasciare alle spalle il modello dannunziano di una lirica fatta di situazioni preziose, di sensazioni rarefatte e artificiose.

Gozzano nasce nel 1883 a Torino, da famiglia benestante. Intraprende gli studi di giurisprudenza, ma non li conclude; è fortemente attratto dal fascino mondano dei salotti e dei circoli intellettuali della sua città, e negli anni universitari allarga e approfondisce gli interessi letterari e filosofici attraverso varie esperienze, fra le quali la lettura dei classici italiani (soprattutto Dante e Petrarca) e di autori contemporanei, specialmente stranieri (come Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche). Risalgono a questo periodo i primi sintomi della tisi, che lo condurrà a una morte prematura.

La breve raccolta d'esordio, La via del rifugio (1907) gli procura immediata notorietà, confermata nel 1911 dai Colloqui. Nel 1912 intraprende un lungo viaggio per mare in India e a Ceylon, nella speranza di migliorare il suo stato di salute; ne trarrà spunto per una serie di articoli apparsi sulla "Stampa" sotto forma di lettere. Al ritorno si dedica al poemetto Le farfalle, rimasto incompiuto, ma scrive soprattutto racconti per periodici e quotidiani. Muore ad Agliè Canavese (Torino) nel 1916.

Nella poesia di Gozzano è tuttavia pienamente avvertibile l'attraversamento di D'Annunzio (per usare una terminologia adoperata da Montale proprio relativamente a quell'esperienza), soprattutto quello dei toni minori e chiusi del Poema paradisiaco: questa particolare fruizione del verso dannunziano faceva di Gozzano una sorta di epigono della stagione decadente e liberty e allo stesso tempo il primo di una generazione nuova, sinceramente al di là di D'Annunzio.

Il gusto e la sensibilità di Gozzano si attestano intorno a una poesia di situazioni quotidiane, inscritte in un ambiente circondato di oggetti desueti, di atmosfere tardo-simboliste che hanno in parte contribuito ad ascrivere la sua poesia entro la schiera dei dannunziani. Ma si è visto invece come quella poesia andasse nella direzione opposta, seguendo il corso dell'ironia e dell'autoironia, un'arma alla quale Gozzano non rinuncia e che anzi utilizza con una chiara funzione di demistificazione di se stesso e dei valori ideologici dell'arte. Nella figura di Totò Merumeni, il protagonista dell'omonima poesia dei Colloqui, Gozzano pare infatti mettere in luce una condizione negativa dell'artista: egli è il buono deriso da Nietzsche, non possiede verità assolute ma una "scarsa morale", non è in grado di sostenere amori straordinari accontentandosi della cuoca diciottenne, vive "con una madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente", e tutta la sua esistenza assomiglia a un "lento male indomo", a un'inettitudine che torna frequentemente in tutta la produzione di Gozzano. Tuttavia in Totò Merumeni "chiuso in se stesso", la degradazione e il distacco da un vuoto e inutile estetismo produce la riduzione della vita a letteratura: la poesia soltanto, vista ora come ripiego e consolazione e ora come rifugio della propria inettitudine, è in grado di offrire una pur modesta risposta a un'esigenza di meditazione e di canto.

Un aspetto immediatamente evidente della lezione di Gozzano è il tono dimesso, prosaico, anti-aulico, della sua scrittura: questa tonalità, che voleva riprodurre la dimensione quotidiana di ambienti legati a un'aristocrazia cittadina decaduta, spesso viene contaminata e intrecciata da un lessico prezioso e sofisticato. La stessa poesia viene considerata una sorta di "vergogna" in contrapposizione all'esibizionismo dichiarato degli atteggiamenti dannunziani: per questo le sue liriche sono popolate di interni borghesi dimessi e banali, di oggetti desueti e quotidiani, proprio a significare quella volontà di ribaltamento della sacralità della poesia, ora intesa unicamente come chiarimento personale, sfogo esistenziale, esercizio di terapia interiore.

Accanto a questo lessico si colloca anche la scelta di metri prevalentemente narrativi e discorsivi, come ad esempio la sestina, senza tuttavia una complessa articolazione della sintassi che anzi rispecchia in pieno l'esigenza comunicativa delle immagini e delle vicende.


Il futurismo


Il Futurismo è un movimento artistico e letterario di portata europea, che nasce ufficialmente il 20 febbraio del 1909 con il Manifesto del futurismo, steso da Marinetti e apparso sul "Figaro" di Parigi, e si prolunga fin verso il 1925, con varie diramazioni e influenze. Esso raccoglie e amplifica tendenze già largamente presenti nel clima culturale di quel periodo, e, oltre alla letteratura e alle arti figurative, coinvolge la musica, il teatro, il cinema, la danza, ed anche la politica. In Italia, esso giunse a sostenere, sebbene in forme contraddittorie, la necessità di uno Stato autoritario e a schierarsi infine al fianco del fascismo.

Vera e propria avanguardia storica, il Futurismo costituisce una delle tante forme di rottura nei confronti dell'arte del passato che si manifestarono agli inizi del Novecento. nel movimento di marinetti confluiscono artisti e scrittori di varia estrazione e provenienza: Umberto Boccioni, Gino Severini, Carlo Carrà e, in un secondo momento, il gruppo fiorentino di Ardengo Soffici, Aldo Palazzeschi e Giovanni Papini.

Il Futurismo esalta un ideale di vita attiva, fondata sullo slancio e sull'aggressività, sull'amore per il pericolo, l'audacia e la temerarietà, in un impegno globale della mente e del corpo. Per diffondere le loro teorie, i futuristi ricorsero a innovative e clamorose tecniche promozionali, dai pubblici appelli nelle piazze, alle conferenze e ai dibattiti, giungendo ad improvvisare spettacolari esibizioni davanti al pubblico, o a fingere risse per scandalizzare i benpensanti.

L'entusiasmo per gli aspetti più appariscenti del mondo moderno, la tendenza a proiettarsi verso un futuro meccanizzato e tecnologico, l'idolatria della macchina e il culto della guerra, della lotta e della "bella morte" sono solo alcuni elementi dell'ideologia futurista, che confonde in un tutto unico il disprezzo per la donna, per il sapere e per la morale, la condanna della tradizione, spregiativamente indicata come passatismo. Il Futurismo tenta insomma di creare una nuova sensibilità, fondata su una perfetta sintonia fra arte e vita e sull'ipotesi che ogni manifestazione della realtà sia ugualmente degna di diventare oggetto di impegno creativo e di espressione artistica e poetica.

Ciò non significa tuttavia che i futuristi rinuncino ad affermare la specificità di ogni singola disciplina artistica. Per quanto riguarda la letteratura, i princìpi fondamentali sono il rifiuto totale di ogni forma di intimismo, la distruzione della metrica e della sintassi, l'abolizione dell'aggettivo e dell'avverbio, l'uso del verso libero e del verbo all'infinito. Frequente è anche l'impiego di onomatopee, l'incontro e lo scontro di colori, suoni, "rumorismi" e segni matematici, che implicano una vera e propria rivoluzione tipografica, da cui ha origine la cosiddetta "poesia visiva".

Un procedimento tipico del Futurismo è l'analogia, che accosta per via intuitiva e allusiva elementi che non hanno fra loro alcun evidente nesso logico. Secondo i futuristi, le sue infinite possibilità si evidenziano nelle "parole in libertà" (o "paroliberismo"), una nuova tecnica di scrittura sottratta ad ogni tipo di codificazione e di vincolo imposti dalla tradizione, che permette di creare accostamenti imprevedibili, con rivelazioni fulminee e folgoranti. All'analogia si accompagna l'"immaginazione senza fili", ovvero una libera successione di immagini non legate da un nesso logico.


Filippo Tommaso Marinetti

(Alessandria d'Egitto, 1876 - Bellagio, Como, 1944)


Filippo Tommaso Marinetti nasce ad Alessandria d'Egitto nel 1876. Compie i primi studi in Francia, concludendoli in Italia, a Genova, dove si laurea nel 1899. Si dedica quindi completamente alla letteratura. Volontario durante il primo conflitto mondiale, nel dopoguerra Marinetti diventa uno degli esponenti più autorevoli della cultura fascista, e al regime resta fedele anche dopo la sua caduta, al tempo della Repubblica di Salò. Muore a Bellagio, in provincia di Como, nel 1944.

Dopo aver composto un nutrito gruppo di opere in francese, Marinetti nel 1909 scrive il Manifesto della letteratura futurista (anticipato nel 1905 dalla rivista internazionale "Poesia"). Nel 1910 appare il romanzo Mafarka il futurista, pubblicato l'anno precedente in francese a Parigi. Del 1912 sono il Manifesto tecnico della letteratura futurista e l'antologia Poeti futuristi. Tra le opere seguenti, vanno segnalati: il romanzo Zang-tumb-tumb (1914), uno dei testi che meglio rappresentano il paroliberismo; Scelta di poesie, versi liberi, parole in libertà (1919), Poemi simultanei futuristi (1933); i testi autobiografici, pubblicati postumi, La grande Milano tradizionale e futurista e Una sensibilità italiana nata in Egitto (1969). Nel 1971 sono apparse le Poesie a Beny, dedicate alla moglie Benedetta (scritte in francese tra il 1920 e il 1938), un elegante e intenso diario d'amore.

In Marinetti domina l'esaltazione della vita moderna, della velocità e della violenza; il mito della città e del dinamismo si accompagna ad una ripresa dell'ideale del superuomo che era già stato introdotto nella cultura italiana da D'Annunzio. La sua poesia conosce successive fasi di sviluppo: dagli esordi, decisamente influenzati dal Simbolismo, egli giunge infatti ad opere più esplicitamente ideologiche. Fra queste compare il libello Guerra sola igiene del mondo (1915), che auspica una sorta di velleitaria rigenerazione del mondo attraverso la guerra, anticipando il passaggio ad un sostegno concreto e sempre più convinto del fascismo.

Tutta la produzione di Marinetti porta il segno del culto del presente e della ricerca sperimentale. Nelle sue prime opere predomina una sintassi basata sulle iperboli e le più ardite e immaginose metafore; in seguito, fedele ai canoni della poetica futurista, trionfa un paroliberismo radicale, da cui deriva una scrittura che tenta di superare le tradizionali suddivisioni dei generi e si propone di rinnovare radicalmente la letteratura mediante l'adozione di tecniche fondate su un'assoluta immediatezza.


Una trattazione isolata la serbiamo a Palazzeschi che, oltre ad avere aderito, sia pur fugacemente ad entrambe le correnti, ha sempre mantenuto una certa originalità che lo contraddistingue


Aldo Palazzeschi

(Firenze, 1885 - Roma, 1974)


Una personalità letteraria di notevole interesse, soprattutto per l'ampiezza della produzione letteraria e per la varietà dei temi e dei generi affrontati, è quella di Aldo Palazzeschi.

Aldo Giurlani (questo il vero cognome, che l'autore sostituì con quello della nonna materna) nasce nel 1885 a Firenze. Dopo avere ottenuto il diploma in ragioneria, studia recitazione e per un certo periodo calca le scene come attore. Il suo esordio poetico, I cavalli bianchi, risale al 1905, ma il nucleo della sua attività di poeta si concentra nel periodo che precede la prima guerra mondiale, ed è legato alla frequentazione dell'ambiente crepuscolare e futurista. Nel frattempo Palazzeschi si apre alla narrativa, un campo che sonderà nelle più diverse direzioni: il suo primo romanzo è Il codice di Perelà (1911). Nel 1913 comincia a collaborare con "Lacerba", la rivista di Papini e Soffici, e già nel 1914, allo scoppio del conflitto mondiale, si distacca ufficialmente, con una dichiarazione sulla rivista, da Marinetti e dal Futurismo, dei quali non condivide l'atteggiamento guerrafondaio e interventista. L'esperienza bellica lo rende ostile anche al nazionalismo e al fascismo, alla cui ideologia resterà sempre estraneo. Gran parte dei libri migliori di Palazzeschi nascono fra le due guerre: Stampe dell'800 (1932), Sorelle Materassi (1934), Il palio dei buffi (1937). Nel 1941 lo scrittore si trasferisce da Firenze a Roma, dove fissa la sua dimora abituale, se si eccettuano soggiorni più o meno lunghi all'estero, soprattutto a Parigi e a Vienna. Muore a Roma, quasi novantenne, nel 1974, lasciando una ricca produzione in versi e in prosa.

Come si è accennato, l'esperienza poetica di Palazzeschi si concentra quasi tutta nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale, con le raccolte Lanterne (1907), Poesie (1908) e L'incendiario (1908), quest'ultima dedicata a Marinetti e apparsa nelle edizioni futuriste di "Poesia".

Fin dai versi d'esordio, l'autore sceglie una prospettiva provocatoria e sarcastica, e imprime alla sua poesia un taglio inconsueto, bizzarro, che scardina le strutture e i ritmi tradizionali. Egli ridimensiona i toni elegiaci o sublimi con maliziosa impertinenza, fedele ad una poetica che sfida le convenzioni e che egli stesso riassunse nella frase proverbiale "lasciatemi divertire", formula che allude non solo alla dissociazione della funzione e della figura del poeta, ma anche al sovvertimento delle regole metriche in una ininterrotta sperimentazione di forme alternative.

Tra le soluzioni più originali messe in opera da Palazzeschi, figura l'inserimento di dialoghi vivaci, con battute incalzanti che rimandano ad una struttura teatrale, o di episodi narrativi che non di rado si dilatano, fino ad assumere la consistenza di veri e propri raccontini; è frequente anche l'elencazione di immagini e parole che appartengono a campi semantici fra loro lontani e, soprattutto nel periodo di maggior contatto con il Crepuscolarismo, l'uso del colloquio e di un linguaggio tratto dal parlato.

A queste caratteristiche Palazzeschi unisce la capacità di cogliere con tecnica impressionistica i dettagli della realtà, e di tradurli in strofe cantilenanti, che ricordano le filastrocche e le nenie infantili. Il tono ora caustico, ora sorridente e divertito, ma sempre ironico e autoironico, corregge e tiene a freno l'estro inventivo dell'autore, temperandone le stravaganze e l'istrionismo ribelle.

Dopo una lunga parentesi narrativa, a distanza di anni, Palazzeschi torna alla poesia in vecchiaia, con le due raccolte Cuor mio (1968) e Via delle cento stelle (1972), nelle quali riprende il filo della sua opera giovanile, con una maggior pacatezza ma anche con una (forse inevitabile) opacità.

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