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Gli intellettuali e il fascismo
Solaria Un ruolo centrale nella letteratura del Ventennio fu svolto dalla rivista fiorentina <<Solaria>>, che si propose di rimanere del tutto indipendente dai condizionamenti del potere politico. La rivista, che accordò ospitalità negli ultimi anni agli scrittori più giovani (Vittorini, Gadda, Moravia, Montale ecc.), prestò particolare attenzione al problema della responsabilità storica dello scrittore, attirando su di sé l'attenzione sospettosa del regime, che ne mise sotto sequestro alcuni fascicoli.
L'Ermetismo. L'Ermetismo fu la tendenza poetica prevalente nel decennio che precedette la guerra. L'elaborazione del termine <<ermetismo>> fu riconosciuta nel 1936, quando Francesco Flora (un critico accademico) pubblicò il libro La poesia ermetica, fermandosi tuttavia a considerazioni ancora generiche e superficiali.
L'Ermetismo faceva coincidere la poesia con la <<vita>>, intesa come la realtà più intima e raccolta dell'uomo, al di fuori di ogni confusione con il mondo dell'esteriorità: di qui il rifiuto di ogni compromesso o contatto nei confronti della storia. Gli Ermetici sceglievano un linguaggio arduo, difficile, al limite dell'incomunicabilità; dal messaggio letterario veniva esclusa, di conseguenza, la maggior parte del pubblico. Il termine "ermetismo" divenne così sinonimo di oscurità e indecifrabilità, dando spunto ad interpretazioni banali e superficiali.
Ciò che maggiormente si rimprovererà agli Ermetici nel dopoguerra sarà il loro rifiuto di confrontarsi con la storia: ma essi risponderanno che la totale chiusura in uno spazio interiore rappresentava l'unico modo per sfuggire alla retorica e alle scelte culturali del fascismo, allontanando qualsiasi possibilità di compromesso e assumendo implicitamente un atteggiamento di dissenso.
Secondo i principi dell'estetismo, bisognava fare della vita un'opera d'arte, e D'Annunzio fu costantemente teso alla ricerca di questo obiettivo (oltre che molto attento al pubblico a cui tale "opera d'arte" era destinata). Nell'intento di creare di sé un'immagine mitica, non si accontentò dell'eccezionalità di un vivere puramente estetico, ma volle sperimentare anche forme di attivismo politico. Allo scoppio della prima guerra mondiale iniziò un'intensa campagna interventista, ed ebbe un peso notevole nello spingere l'Italia in guerra, influendo sull'opinione pubblica. Nel dopoguerra si fece interprete dei rancori per la <<vittoria mutilata>> che fermentavano fra i reduci, capeggiando una marcia di volontari su Fiume, dove instaurò un dominio personale sfidando lo Stato italiano. In seguito, il fascismo lo esaltò come padre della patria, ma lo guardò anche con sospetto, confinandolo praticamente in una sontuosa villa di Gardone, che D'Annunzio trasformò in un mausoleo eretto a se stesso ancora vivente.
Per quanto riguarda le concezioni letterarie dannunziane, dopo una fase estetizzante caratterizzata dalla convinzione che l'arte sia estranea al bene e al male e sottoposta soltanto alla legge del bello (<<il Verso è tutto>>), esse vengono dominate da una nuova ideologia, superomistica, antidemocratica, imperialistica, che trova espressione nei "romanzi del superuomo" (Le vergini delle rocce, Fuoco, Forse che sì forse che no).
Ne Le vergini delle rocce viene teorizzato il diritto di dominio che spetta all'aristocrazia sulle plebi:
<<Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell'uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile, ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un instituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione di una classe privilegiata verso un'ideal forma di esistenza. Su l'uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza, e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all'obbedienza. Le plebi restano sempre schiave avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli.>>
Questa ideologia trovava un preciso riscontro, nella società italiana, nell'orientamento di quelle forze che confidavano in uno Stato forte in grado di costituire una difesa dal crescente peso che le organizzazioni popolari assumevano via via nel paese; e dava al tempo stesso una nobilitazione artistica a quella tendenza politica.
La figura di D'Annunzio rappresentò nel primo Novecento un modello illustre, sia per il culto del gesto eroico manifestato in guerra e durante l'impresa di Fiume, sia per l'uso di una retorica nazionalistica - alla quale si ispirò nei suoi discorsi lo stesso Mussolini (abbassandone il livello in modo da poter suggestionare facilmente la massa); persino alcuni suoi slogan furono fatti propri dal fascismo (il <<Mare nostro>>, le <<folle oceaniche>>).
Dato il precocissimo esordio, inoltre, la sua personalità attraversò oltre un cinquantennio di cultura italiana, influenzandola profondamente:
<<In tempi in cui non c'erano ancora i mass-media per dare alle folle il loro mito quotidiano, D'Annunzio, reclamizzando la sua vita e amministrandone da sagace manager il mito che era riuscito a crearne (amori con donne d'eccezione, mondanità e duelli, automobili ed aerei), influenzò a lungo e in profondità larghissimi strati della società italiana nei quali inoculò i miti di una vita inimitabile, ardimentosa e disponibile: sulle sue pagine, generazioni di piccoli borghesi realizzarono i loro sogni proibiti e vagheggiarono, prima, Capponcine, amanti fatali e lussuriose sperimentazioni; dopo, si imbottirono di velleità guerresche e imperialistiche.>> [Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, Principato Editore, Milano 1971, I, pp.57-58]
L'adesione di Luigi Pirandello al fascismo ebbe caratteri ambigui e difficilmente definibili; avvenne, con una dichiarazione ufficiale per certi aspetti clamorosa, subito dopo l'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Forse egli vide nel fascismo una garanzia di ordine politico e sociale, o l'affermazione di una genuina energia vitale capace di spazzare via le forme meschine e soffocanti della vita sociale italiana.
Tuttavia l'autore dovette ben presto rendersi conto del carattere esteriore e retorico del regime, che, d'altronde, difficilmente poteva essere risparmiato dalla critica, propria della visione pirandelliana, della falsità del meccanismo sociale e delle maschere da esso imposte.
Marinetti scelse un prestigioso giornale parigino, <<Le Figaro>>, per lanciare nel 1909 il Manifesto del Futurismo, nel quale espose, sinteticamente, i princìpi ispiratori del movimento. Questi erano basati su un rifiuto radicale del passato e sulla volontà di costruire una cultura totalmente rinnovata:
<<1. Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo. un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
(.) 8. Noi siamo sul promontorio estremo del secoli!. Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.
9. Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.>> [dal Manifesto del Futurismo]
Questa ideologia attivistica, individualistica, antidemocratica, non poté non condizionare le scelte politiche di Marinetti, acceso interventista sia in occasione della guerra di Libia, sia allo scoppio della prima guerra mondiale; a quest'ultima tra l'altro prese parte dando prove di grande valore (ammirate persino da D'Annunzio).
Aderì al fascismo, in cui vide - o credette di vedere - realizzate le sue idee rivoluzionarie. Ma, nonostante la sua fede nazionalistica, il rapporto stabilito con il fascismo fu profondamente contraddittorio, proprio per l'inconciliabilità di fondo fra l'ordine politico imposto da Mussolini e il disordine programmatico su cui si basava invece il Futurismo. Dopo aver affermato con tanta veemenza di voler distruggere <<le accademie d'ogni specie>>, Marinetti entrò nel 1929 nell'Accademia d'Italia, trasformandosi in un intellettuale di regime e divenendo dunque un rappresentante di quell'ufficialità che tanto aveva disprezzato e combattuto. Furono così smentite clamorosamente le premesse da cui era partita la sua operazione culturale; e l'intenzione, da lui dichiarata, di voler trasformare in senso futurista le strutture e gli apparati del regime, non fornisce una spiegazione esauriente della sua adesione.
<<Moravia è stato definito ben presto e per molto tempo, per una abitudine mentale tuttora dura a morire, nel gran pubblico e nella critica, "l'autore de Gli indifferenti", anche se la antonomastica denominazione a lungo andare doveva finire per fargli tutt'altro che piacere, e non a torto. Perché forse nessuna opera prima è riuscita a legare a sé uno scrittore in maniera altrettanto captativa. D'altra parte è innegabile che il romanzo definisca come nessun altro la personalità del narratore, e riesca a mettere in evidenza con insuperabile nettezza di rilievo tutti i fili che, allo scoperto, o in maniera sotterranea e inafferrabile, muovono il suo mondo, da qualunque parte lo si riguardi, in qualunque chiave lo si voglia decifrare.>> [Ines Scaramucci in Letteratura Italiana, I contemporanei, II, Marzorati, Milano 1974, p.1462]
Ne Gli indifferenti, Moravia dipinge il suo ambiente, quello borghese, cogliendone lo sfacelo morale, l'ipocrisia, il cinismo propri di un'epoca di decadenza come quella fascista. Lo scrittore guarda a questo mondo con disprezzo, senza però riuscire, nel suo pessimismo, a scorgere alternative.
Il romanzo ebbe un successo notevolissimo, ma inevitabilmente sollevò aspre polemiche:
<<A parte un certo alone di scandalo che, per la scabrosità della materia, non fu estraneo, presso certe categorie di lettori, al successo del romanzo, va messo in luce che il vero scandalo consisteva nella demistificazione dell'oleografico moralismo fascista che Moravia aveva avuto il coraggio di operare. Di fronte alla "sanità morale" ed alla rispettabilità della borghesia (e quindi della classe dirigente), conclamata conquista dell'ordine fascista, Moravia metteva a nudo il lerciume e la carenza di ogni valore etico o civile che caratterizzavano questo strato della società italiana. Né il valore di opposizione del romanzo sfuggì alle gerarchie fasciste (attacchi violenti, ostacoli per le successive edizioni)>>. [Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, Principato Editore, Milano 1971, I, pp.57-58]
Il grande successo dell'opera deriva dunque principalmente da un motivo di natura scandalistica e tale da suscitare richiami meno nobili da un lato e severe proteste dall'altro, col risultato di polarizzare ugualmente sull'opera l'interesse del gran pubblico per moventi in gran parte extraletterari; di carattere ugualmente extraletterario si profilava l'affiorare di una polemica sociale, di mordente anticonformismo, che sembrava puntare direttamente sull'alta borghesia del primo dopoguerra, e che non mancò di provocare strascichi di natura politica, attraverso vicende che l'Autore stesso ricapitola in un frammento autobiografico inedito: <<Come ho detto, il romanzo era l'analisi di due giorni di vita di una famiglia romana. Io avevo inteso fare una specie di contaminazione poetica della tecnica del romanzo con quella del teatro; ma quasi senza volerlo avevo fatto nello stesso tempo una pittura molto cruda e molto sfavorevole di certa borghesia di Roma. Era l'anno 1929 e il fascismo era ancora assai liberale per quanto riguarda l'arte della letteratura. Ma lo scandalo suscitato dal romanzo in una società che non si conosceva né voleva conoscersi e non aveva la passione di analisi e di giudizio della società inglese e francese, allarmò il fascismo sempre molto sensibile a tutto ciò che aveva qualche attinenza col fatto sociale ed economico. Dopo alcuni attacchi della stampa più ortodossa, tra i quali uno assai violento del fratello di Mussolini, il romanzo alla quinta edizione fu proibito. O meglio, non proprio proibito, ma per via privata ne fu sconsigliata all'editore una sesta ristampa. Così, senza mia colpa (.) i miei rapporti col fascismo cominciarono subito male. Dovevano in seguito, progressivamente, peggiorare e negli ultimi anni diventare pessimi>>.
Elio Vittorini, figura centrale della letteratura italiana fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, era negli anni giovanili sulle posizioni del cosiddetto "fascismo di sinistra", che vedeva nel fascismo una forza rivoluzionaria eversiva nei confronti del conservatorismo borghese. Questo "equivoco rivoluzionario" è documentato dal Garofano rosso, un romanzo che può essere considerato come una testimonianza generazionale, sulle delusioni e aspirazioni dei giovani intellettuali, dove il fascismo è considerato una pura forma di ribellione antiborghese, sull'esempio di quella marxista che Rosa Luxemburg aveva tentato di realizzare in Germania.
La guerra di Spagna gli aprì gli occhi sulla vera natura del regime, determinando in lui una crisi ed una maturazione ideologica e spingendolo ad impegnarsi in un'attività clandestina di opposizione alla dittatura. Durante l'occupazione tedesca, entrato nel Partito Comunista, partecipò alla Resistenza; nel '51 si distaccò dal Partito rifiutando una totale subordinazione della cultura alla politica. Ciò non significò comunque la fine del suo impegno in campo culturale: Vittorini mantenne sempre viva la sua curiosità per i problemi più attuali e per la realtà industriale e tecnologica.
Dalla crisi determinata dalla guerra di Spagna nacque il suo capolavoro, Conversazione in Sicilia. E' la storia di un giovane che, negli anni del fascismo e della guerra di Spagna, ritorna nella natìa Sicilia a trovare la madre e, accompagnandola nel suo giro quotidiano per il paese a fare le iniezioni, scopre la realtà della miseria, della sofferenza e della morte. Il tema fondamentale è lo sdegno per l'offesa all'umanità che è prodotta dall'oppressione e dalla sofferenza. In forme simboliche, si esprime anche il rifiuto della guerra e dei miti aggressivi che ad essa si collegano. Nel romanzo Vittorini persegue evidentemente un fine ideologico:
<<Vittorini ha veramente scoperto per il melodramma di Conversazione, la razza dei perseguitati, l'arrotino, il soldato morto, il padre, riuscendo a cantarne "il gran sentimento generale", quella certa cosa "che solo a dirla come dice le cose la musica, e come le dice il melodramma, come le dice la poesia, si poteva arrischiare, nel regno fascista d'Italia, di dirla in faccia al pubblico, e in faccia al re, e in faccia al duce.">> [Renato Bertacchini in Letteratura Italiana, I contemporanei, II, Marzorati, Milano 1974, p.1516]
Tuttavia l'autore mira ad una rappresentazione che allarghi il dato contingente a significazione di una condizione universale: la narrazione, pur avendo al centro la miseria di una Sicilia arcaica, evita qualsiasi connotazione naturalistica e documentaria.
Con Uomini e no (1945), dedicato alla Resistenza a Milano, l'impegno ideologico di Vittorini fa riferimento ad un clima storico più determinato e quindi si ha, rispetto a Conversazione, una preponderanza di elementi descrittivi. Ma la storia diviene anche qui metastoria, contrapposizione assoluta di bene e di male (come indica il titolo), sempre in nome di un umanesimo universalizzante. Nello stesso momento in cui Vittorini prende ad oggetto di rappresentazione una precisa e ben determinata situazione, la tramuta in simbolo, in categoria astratta, fuori dalla storia.
Nell'episodio della fucilazione di alcuni innocenti al Largo Augusto, ad esempio, sul dato di cronaca realisticamente descritto l'autore innesta delle considerazioni dai toni lirici e meditativi, andando ben al di là del documento e della denuncia:
<<Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un'altra donna: questo era il modo migliore di colpir l'uomo. Colpirlo dove l'uomo era più debole, dove aveva l'infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov'era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all'uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo di colpire era il migliore che credesse di avere il lupo per fargli paura.>> [da Uomini e no, Mondadori 1945]
Gadda aderì al fascismo nascente, che gli si presentava come lo strumento per una rigenerazione della patria e per un ritorno all'ordine. Ma ben presto lo scrittore si rese conto di come il fascismo, anziché offrire un rimedio ai mali italiani, ne determinasse un aggravamento: la simpatia iniziale si rovesciò in un'avversione accanita, viscerale, che per il momento Gadda nascose, aderendo conformisticamente al regime (come testimoniano numerosi articoli di giornale da lui scritti negli anni Trenta), ma che esplose dopo il 1945, nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e nel violento libello Eros e Priapo.
Il Pasticciaccio, che si rifà al classico schema del giallo, è incentrato su un misterioso delitto che viene commesso in un palazzo di via Merulana a Roma e sul quale, malgrado la polizia batta tutte le piste, non si riesce a far luce: il romanzo resta "incompiuto" e l'assassino non viene scoperto, quasi a significare l'impossibilità di attingere ad una verità e ad un ordine. Il mondo caotico e turpe rappresentato nel romanzo assume la fisionomia storica della società italiana sotto il fascismo, su cui Gadda rovescia la sua feroce irrisione. Il motivo è sviluppato anche in Eros e Priapo (scritto probabilmente nell'immediato dopoguerra), un libello violentissimo, una satira furibonda contro il duce, che si propone l'obiettivo del saggio scientifico ispirato alla psicologia di massa, ma che esplode poi in una sequela incontenibile di vituperi.
Intellettuale di sinistra e aderente al movimento Giustizia e libertà, per le sue posizioni antifasciste fu confinato tra il '35 e il '39 in un paese della Lucania. Il resoconto di questa esperienza fu affidato a un libro, Cristo si è fermato a Eboli (1945), che ebbe nel dopoguerra vasta risonanza. Levi vi racconta la sua scoperta della realtà meridionale e vi traccia un ritratto di tagliente crudezza della locale borghesia, ma si concentra soprattutto sui contadini: un mondo remoto dalla realtà moderna, immerso in una dimensione ancestrale, magica e superstiziosa, non vede separazione tra il mondo umano e quello degli animali e dei mostri fantastici; un mondo ancora pagano. Donde il titolo (per chi viene dal Nord Eboli è l'ultima stazione della Campania prima di entrare in Lucania), che Levi ricavò proprio da un abituale modo di dire dei contadini lucani:
<<"Noi non siamo cristiani" essi dicono "Cristo si è fermato ad Eboli". Cristo si è davvero fermato ad Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia.>>
Il documento di Levi suscitò forte impressione nel clima del dopoguerra, perché segnava la scoperta dei problemi di un'Italia pressoché ignorata dalla cultura fra le due guerre. Il libro sembrava rispondere ai bisogni di una letteratura nuova, sostanziata di realtà vera e aperta ai problemi sociali più urgenti.
Bibliografia
"Letteratura Italiana - I contemporanei", vol. II, Marzorati, Milano 1974
G. Baldi - S. Giusso - M. Razetti - G. Zaccaria, "Dal testo alla storia, dalla storia al testo", vol. III, Paravia, Torino 1994
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