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GIOVANNI PASCOLI E LA SCELTA DELL'OBLIO: NEBBIA
La preferenza alla "Verità" non viene accordata da tutti gli uomini: alcuni preferiscono cullarsi nella condizione di torpore psichico fornito dall'oblio che "lene de la faticosa vita" (Carducci, "La Chiesa di Polenta"). Anzi taluni supplicano affinché una fitta nebbia venga e si frapponga tra loro e le "cose lontane", appartenenti al passato.
Un chiaro esempio di questo atteggiamento è evidente in Pascoli, in particolare nella poesia "Nebbia".
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch'ami e che vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
Composta nel 1899, la lirica è forse il capolavoro della raccolta "I Canti di Castelvecchio" (1903), definiti anche "Myricae" autunnali, poiché in raffronto alla raccolta "Myricae" del 1891, dimostrano la stessa attenzione del poeta verso le "piccole e semplici cose" dell'ambito naturale e famigliare e rappresentano gli stessi temi funebri. Il "di più" di questa raccolta si trova nell'andamento più disteso e piano delle poesie, come si nota infatti in "Nebbia" e nell'esasperato fonosimbolismo che perde qui la propria capacità evocativa, di alludere ad una realtà "altra".
La lirica è costituita di 5 strofe di 6 versi ciascuna di cui 4 sono novenari; 1 è ternario; 1 è senario. Il componimento è caratterizzato da rimandi fonici che conferiscono al testo un ritmo cantilenante: il primo verso di ogni strofa è infatti sempre lo stesso; i versi 2 e 3 formano una lieve anafora con la ripetizione del pronome "tu" seguito da due sostantivi quasi sinonimi; la formula "ch'io veda soltanto" è ripetuta più volte, con leggere varianti, ai vv. 9-15-16-21-27; infine al verso 26 vi è l'esempio di figura etimologica e insieme di allitterazione ("involale al volo del cuore").
Sul piano lessicale sono presenti nel testo esempi di linguaggio pre-grammaticale ( l'onomatopea "don don di campane" al v.24) e post-grammaticale (le "valeriane" al v.12 e tutti i nomi degli alberi) che denotano il plurilinguismo del poeta.
Le tematiche principali del componimento sono: la lontananza; la vicinanza; il nido.
La lontananza è piena di cose che vanno tenute nascoste (vv. 1,7,13,19 e 25), di cose morte (v.8), che fanno piangere (v.14), che vogliono che il poeta "ami e che vada" (v.20). Per il poeta quello che è lontano è dunque negativo, è qualcosa che deve essere represso, dimenticato, perché fa soffrire e perché costringe ad amare e ad "andare", ossia ad uscire dal nido e affrontare la vita vera. Come un bambino infatti, il poeta sente la necessità di rinchiudersi in un nido, un protettivo alvo costituito dalla propria famiglia di origine, dalle "piccole e semplici cose" vicine come una siepe (v.9); un muro (v.11); due peschi e due meli (v.15); una strada bianca (vv.21-22); un cipresso (v.27); un orto (v.29) e un cane (v.30). In questo frangente Pascoli assume chiaramente i tratti del poeta - fanciullo descritto nella sua prosa intitolata "Il fanciullino" (1897): quest'opera, oltre a contenere un esplicito discorso programmatico di Pascoli sul poeta e sulla poesia, dunque la sua personale poetica, introduce una nuova figura di poeta.
Il poeta coincide con il "fanciullino", ovvero con quella parte infantile dell'uomo che negli adulti tende ad essere soffocata e che invece nei poeti trova libera espressione. Esso è, per metafora, la capacità dell'uomo di emozionarsi: infatti, il poeta fanciullo esprime delle paure ataviche ma è anche capace di accenti di tripudio, come è espresso nei primi 20 versi del tratto di prosa "il fanciullino e il poeta" appartenente all'opera. Egli rappresenta inoltre la capacità umana di stupirsi,
poiché è in grado di cogliere il "nuovo" dal consueto, percependo le connessioni profonde (il "noumeno") di tutte le cose ponendosi di fronte ad esse in modo alogico. Egli infine è abile nell'esprimere e definire la realtà colta nel suo carattere misterioso descrivendola con immagini e parole precise e categoriche poiché è anche inventore del lessico poetico ossia "l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente". Ciononostante il poeta rimane "un piccolo fanciullo che piange" (Corazzini) dall'atteggiamento querulo e timoroso di fronte alla Verità della vita.
Proprio per questo motivo Pascoli chiede alla nebbia di allontanarlo dalle "dolorose cose lontane": essa infatti viene assunta come simbolo di difesa dall'esterno, perché nella nebbia si può vedere solo quello che è vicino e non quello che è lontano. Quando Pascoli chiede di essere annebbiato, di non cogliere più le cose lontane intende sia quelle lontane nel tempo, e quindi passate, sia quelle lontane spazialmente, cioè esterne al nido ricostruito.
Tutta la poesia è giocata sull'opposizione dentro/ fuori, dove il dentro, ossia la casa e il giardino, è sicurezza protezione, certezza; il fuori è minaccia, paura, dolore. Il limite tra dentro e fuori è segnato dalla siepe, dal muro su cui cresce la valeriana. Un limite che per l'appunto Pascoli non vuole valicare se non per il proprio funerale, per raggiungere il cimitero " tra stanco don don di campane" (vv. 23-24).
Una seconda opposizione è quella presente/ passato. Il presente, però, al contrario del "dentro", è positivo solo in quanto "non-passato". La primaria necessità, per Pascoli, è rimuovere quello che è stato, quello che è morto nella realtà ma che continua a vivere nella sua mente impedendogli di vivere serenamente. Il poeta lo dice chiaramente: "nascondimi le cose lontane/ nascondile, involale al volo del cuore!" (vv.26-27). E' un'esplicita richiesta di rimozione: il poeta chiede alla nebbia di nascondere le cose lontane soprattutto dai "voli del cuore", ossia dal ricordo e dall'immaginazione che spesso, contro la sua volontà, lo portano a soffermarsi proprio su quelle cose dolorose. In questo modo, la natura assume un ruolo funzionale alla protezione del poeta poiché tiene lontana la visione del pianto, del mondo esterno violento ed ostile. Così, la siepe, l'orto e i quattro alberi riempiono di dolcezza ("mieli" v.17) il "nero pane" del poeta, cioè la sua vita quotidiana. Così il cane fedele offre un immagine insieme di pace, affetto e protezione, poiché il suo riposo è simbolo dell'assenza di minacce incombenti. Così, infine, la nebbia, i "lampi notturni e i "crolli d'aeree frane" della prima strofa sono fenomeni positivi. Qui infatti i lampi non hanno il medesimo significato dell'omonima poesia "Il lampo": in quella il loro carattere fulmineo veniva assimilato alla rapidità con cui "s'apre si chiude" un occhio, rivelando per un momento la realtà; diviene insomma il simbolo della violenza che irrompe fugace nella vita dell'uomo, assumendo valore negativo. Qui i lampi, come le frane, sono colti unicamente per la visione suggestiva che offrono, nonostante le loro violente sembianze.
Infine, il poeta, oltre ad attribuire alla natura il ruolo di garante della sua sicurezza e fautrice dell'oblio delle "cose lontane", ricerca la dimenticanza anche nella morte stessa, percepita qui in termini tra loro contraddittori. Da un lato per lui quello che è morto va "celato" e "rimosso", perché "triste e doloroso" (vv.6-7 e 13-14): la morte è infatti causa del suo tristo passato, poiché a soli 12 anni perse il padre, assassinato da personaggi sconosciuti. Dall'altro egli si sente legato alla morte perché il poeta la percepisce come l'ultimo, inevitabile rifugio dell'uomo affranto, nella misura in cui gli offre un sonno, un riposo eterno. Ad accentuare questo aspetto positivo della morte come di un sonno eterno, oblio indolore vi è, nell'ultimo verso, la figura del cane che sonnecchia: l'idea della stanchezza, del sonno e della morte - oblio si trovano così ad essere intimamente legate.
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