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La poesia di Leopardi non nasce solo da un senso di inadeguatezza alla realtà, di sproporzione fra reale e sovrannaturale, ma soprattutto da un dolore che è motore primario del fare poetico, dolore universale e insieme profondamente intimo e personale. Il tema del dolore appartiene sia al Leopardi dello Zibaldone che a quello dei Canti, ma ha diverse vesti: il dolore per la propria patria, l'Italia, divisa e preda di dominazioni straniere; il dolore per lo sfiorire rapido e inavvertito della giovinezza; il dolore per la morte e soprattutto per la morte intesa in senso materialistico, come termine ultimo della vita. Eppure da questo dolore traspare a volte come l'avvertimento di un senso del destino come realtà positiva, traspare a tratti, e l'Autore quasi se ne vergogna, ritornando sui suoi passi, nel cosiddetto pessimismo cosmico tratto fondamentale della sua poetica. Ma il pessimismo non cancella il bisogno, il desiderio (dal latino sidera, stelle) di infinito insito in ogni uomo, per cui anche il 'naufragar' può essere 'dolce in questo mare', che altro non è se non il mistero dell'Essere.
Non è possibile identificare nei Canti una poetica unitaria, ma piuttosto l'evolversi di linee diverse, spesso compresenti, e legate in modo non rigido ma dinamico all'evolversi del pensiero leopardiano. Non sarebbe utile né appropriato seguire schemi del tipo: pessimismo individuale/poetica idillica o pessimisno cosmico/poetica eroica.
Si può subito osservare come nei 'Canti pisano-recanatesi', composti negli anni 1828-31, quando è ormai nettissima e irreversibile la convinzione dell'universale e necessaria infelicità degli uomini, voluta dalla Natura, permangano ben saldi gli elementi costitutivi della poetica degli Idilli, ovvero il vago, l'indefinito, la rimembranza. Per questa ragione, fra l'altro, i Canti pisano-recanatesi sono stati a lungo indicati come 'Grandi idilli'.
Nei difficili anni che seguono il definitivo allontanarsi da Recanati, non cambia il nucleo concettuale della filosofia leopardiana, mentre emergono significativi mutamenti di poetica nei Canti del 'Ciclo di Aspasia' e nella Ginestra: non più linguaggio sfumato, evocazione degli anni giovanili, serene rappresentazioni di paesaggio, ma un linguaggio fermo, scabro, a volte ironico o sarcastico fino all'asprezza.
Caratteristico del poeta è l'essenzialità del linguaggio che,
con rapidissime immagini e sapienza ritmica e sintattica, crea brani di
straordinaria suggestione.
Nello 'Zibaldone' Leopardi annota una propria descrizione circa il
linguaggio adottato nella poesia: egli scrive di adoperare 'una lingua per
i morti', sottolineando l'uso di parole arcaiche, desuete, fuori dal loro
contesto. L'infinito è paradigmatico per potenza espressiva. L'idea
dell'immensità e dell'eternità sono rese con un limitatissimo impiego di mezzi lessicali,
che consente alle idee di giganteggiare nel deserto delle parole.
Anche per questo Leopardi è classico, anche se la sua ansia, il tedio della
vita, e la personalità esasperata ne fanno un romantico. In Leopardi, accanto
alla poetica dell'idillio che si esprime, romanticamente, nel dualismo
paesaggio - stato d'animo, si può trovare, parallelamente, una poetica non
idilliaca, dalle immagini incisive e dalla sintassi perentoria.
In Leopardi l'originario slancio sentimentale si evolve in una complessa
vicenda spirituale. Il poeta parte dal razionalismo illuministico giungendo a
negarlo ed a condannare la stessa ragione.
Inizialmente il pessimismo di Leopardi è personale (o
soggettivo), in seguito il poeta introduce il pessimismo storico,
pensiero secondo cui l'infelicità è sempre esistita. Tuttavia gli antichi non
se ne accorgevano o non se ne rendevano conto, perché distratti dalle illusioni
e, in virtù di ciò, meno consapevoli della presenza del Male.
Per Leopardi le epoche passate sono quindi migliori di quelle presenti. La
natura, in questa fase del pensiero leopardiano, è ancora considerata benigna,
perché, provando pietà per l'uomo, gli ha fornito l'immaginazione, ovvero le
illusioni, le quali producono nell'uomo una felicità che non è reale perché
mascherano la vera realtà che è fatta di sofferenza. Nel mondo dei moderni
queste illusioni sono però andate perdute perché la ragione ha smascherato il
mondo illusorio degli antichi e ridato vita alla realtà nuda e cruda dei
moderni.
Sviluppando ulteriormente la sua riflessione (come attestano numerose pagine dello 'Zibaldone'), Leopardi perviene al cosiddetto pessimismo cosmico, ovvero alla concezione della natura come maligna, cioè di una natura che non vuole più il Bene e la felicità per i suoi 'figli'. La natura è infatti la sola colpevole dei mali dell'uomo; essa è ora vista come un organismo che non si preoccupa più della sofferenza dei singoli, ma che svolge incessante e noncurante il suo compito di prosecuzione della specie e di conservazione del mondo, in quanto meccanismo indifferente e crudele che fa nascere l'uomo per destinarlo alla sofferenza. Leopardi sviluppa quindi una visione più meccanicistica e materialistica della natura, una natura che egli con disprezzo definisce 'matrigna' (cfr. 'La Ginestra').
L'uomo deve perciò rendersi conto di questa realtà di fatto e contemplarla in modo distaccato e rassegnato, come un saggio stoico che pratica l'atarassia e la lucida contemplazione del reale. Il destino dell'uomo, ovvero la sua malattia, è in fondo lo stesso per tutti. In questa fase non ci sono reazioni titaniche perché Leopardi ha capito che è inutile ribellarsi, ma che bisogna invece raggiungere la pace e l'equilibrio con se stessi, in modo da opporre un efficace rimedio al dolore. Ed è proprio la sofferenza che Leopardi reputa la condizione fondamentale dell'essere umano nel mondo, arrivando perfino a dire che "tutto è male". Significativo è, a questo proposito, un passo tratto dal Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (vv. 100-104), dal quale emerge tutta la poca fiducia verso la condizione umana nel mondo da parte del poeta, una condizione fatta di sofferenza e di diuturna infelicità.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell'essere mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.
Ne La ginestra, il penultimo testo scritto dal poeta, Leopardi propone come soluzione l'alleanza e la solidarietà fra gli uomini, che, alla pari dell'utopia umanitaristica di Pascoli, si configura come l'unica vera via d'uscita di fronte ai mali della modernità: essa rimane però, pur sempre, un'utopia.
La lunga riflessione di Leopardi sulla 'Natura' si apre nel 1818 in un modo apparentemente contradditorio e problematico -. Contraddizione che consiste nel fatto che nel giro di pochi mesi - fine del '17 fine del '18 - Leopardi scrive sulla 'Natura':
«La Natura, purissima, tal qual è, tal quale la vedevano gli antichi: () quell'albero, quell'uccello, qual canto, quell'edifizio, quella selva, quel monte, tutto da sé.» (Zibaldone pag. 15).
«. e in fatti la natura non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti.» (Discorso sopra la poesia romantica).
Di 'quale' natura sta parlando, Leopardi? Per rispondere, occorre fare riferimento a due enunciati che appartengono alla cultura greca, che si collocano cioè alle origini della riflessione occidentale sulla Natura; Aristotele scrive nella Fisica:
«Ridicolo, poi, sarebbe cercare di dimostrare che la natura è [.] [poiché] ogni volta che siamo di fronte a un ente di natura, è la natura stessa che ci appare.»
Ma prima di lui, Eraclito aveva scritto: «Natura (Physis) ama nascondersi».
Non può non colpire questa consonanza di Leopardi con le
origini del pensiero filosofico, ma soprattutto con la lingua greca.
All'età di dieci anni Leopardi comincia lo studio del greco, direttamente dai
classici e soprattutto da Omero. La filosofia naturalmente la
'scoprirà' più tardi. Domandiamoci quindi come appare la natura in
Omero. Essa, appunto, appare. Il primo e più famoso contesto è quello
delle similitudini.
«Così loro, i Troiani, facevano la guardia. E intanto gli Achei erano in preda a una folle smania di fuggire, quale si accompagna al gelo della paura. Tutti i più valorosi stavano là abbattuti, in una costernazione intollerabile. E come due venti sconvolgono il mare ricco di pesci, Borea ad esempio e Zefiro: essi soffiano dalla Tracia arrivando all'improvviso, ed ecco l'onda si accavalla nera e rovescia fuori molta alga lungo la spiaggia: agitato così era il cuore in petto agli Achei.» [Libro IX]
La similitudine fu la prima tecnica linguistica alla base del pensiero astratto o filosofico: essa consiste molto semplicemente nel mettere a contatto tra loro due piani del significato: uno evidente - quello della figura così come appare - l'altro non-evidente - quello dei sentimenti interiori. Ma così facendo, la poesia scoprì che 'l'evidente', l'effettivo, viene assieme, è l'espressione di qualcosa che è nascosto, che non si vede, lethe. L'immagine naturale è a-lethe, ciò che è svelato, che non-è-più-nascosto, che è 'uscito fuori'. I vocabolari traducono 'lethe' con 'oblio' e 'aletheia' con verità, condizionati da un greco filosofico posteriore, che già aveva dimenticato i significati originari delle parole. Per il greco omerico, per la poesia greca, il Lethe è sì oblio, ma in quanto non più presente, non più evidente. Per la mentalità greca, si dimentica (l'oblio per i defunti, per gli scomparsi) ciò che non è più visibile, ciò che è morto: lo scopo del poeta, della poesia, era infatti quello di mantenere viva l'immagine degli eroi, per non dimenticarli. La mancanza di una fede nell'al di là faceva della morte la fine di tutto; per non dissolversi nel nulla, l'unico sistema era la rappresentazione poetica, la parola che rendeva presente l'immagine viva, naturale , del defunto.
Dunque è una contraddizione solo apparente l'immagine di una 'Natura' che è 'l'evidenza immediata di ciò che ci circonda', e nello stesso tempo 'qualcosa di profondo, nascosto, celato ai sensi'. A partire dalla similitudine, la Natura per il greco è duplice nel senso dell'ambiguità: da un lato è ciò che appare, dall'altro è una forza (enérgheia) che agisce nel profondo di ciò che appare. Sarà proprio Aristotele a dare la sistemazione concettuale definitiva di questa concezione.
Torniamo a Leopardi. Egli è un bambino di dieci-dodici anni
quando legge Omero. Egli scopre la forza delle emozioni attraverso una viva
rappresentazione fabulatoria della realtà. Ma in più c'è la forza di un grande
poeta e di un grande classico. Assorbe emotivamente, attraverso una forte
esperienza estetica, l'uso di una parola fondamentale.
Poi scopre la letteratura del suo tempo, la letteratura romantica. Attenzione:
Leopardi non legge ancora i grandi romanzi romantici (ciò avverrà qualche anno
dopo). In quel periodo egli è immerso nella filologia, e quindi nelle riviste
letterarie; egli legge i dibattiti letterari, dove si discute di poetica, di
ciò che è poesia e che non è poesia: Di Breme, M.me De Stael ecc. E lì scopre
un'altra 'natura', che è solo più quella 'nascosta'. Ma
nascosta in che senso? Nel duplice senso cartesiano-kantiano delle 'leggi
di natura' - il meccanicismo razionalista sei-settecentesco (la
'natura' è 'legge nascosta', è un codice super-razionale
che va liberato dalle apparenze - la singolarità dell'individuo - per poter
essere esplicato nella sua evidenza puramente logico-quantitativa: la formula
che rende manipolabili i fenomeni. La 'Natura' è un oggetto di
laboratorio); l'altra è quella romantico-idealista di 'Natura' come
'Spirito alienato', come 'Anima del mondo' non consapevole
di sé. La 'Natura' non è 'nient'altro' che lo specchio
della psiche umana, è sentimento espresso in modo indiretto. In tutti i casi la
'Natura' non esiste più.
L'effetto che tutto ciò ha nella psiche di Leopardi è molto chiaro: per lui la 'Natura' è quella scoperta nella immediatezza estetica della conoscenza poetica, e ciò causa una ribellione nei confronti di un atteggiamento intellettualistico che egli identifica immediatamente come tradimento della poesia. La 'Natura' per lui non è riducibile né a 'Sentimento' né a 'Ragione'; la 'Natura' è 'Physis', è vita (in greco, il significato originario di Physis è 'nascimento', il venire alla luce).
Ben presto però il contrasto tra ideali e realtà, tra
aspirazioni e limiti imposti dalla vita, porta il poeta a concludere che
l'infelicità non è conseguenza del progresso, bensì stato naturale di ogni
essere vivente e che la natura è nemica dell'uomo. Leopardi afferma che si
insegna all'uomo che la morte prematura è un bene, ma egli la teme, la vita è
fragile cosa e più che dono è disgrazia, ma l'uomo teme la morte. La virtù
morale è più preziosa della bellezza, ma un'anima sublime in un corpo sgraziato
è derisa e misconosciuta (Ultimo canto di Saffo). L'uomo aspira a cose
infinite ed eterne, ma vivere è un continuo morire (Infinito).
L'uomo è destinato a non godere d'alcun bene, si dispera, è afflitto da un tedio
mortale che lo spinge al suicidio, dal quale lo trattengono la paura della
morte e la superstizione religiosa. L'aspirazione all'irraggiungibile verità è
il massimo tormento della vita ed è senza speranza, infatti l'uomo è destinato
a non sapere perché sia nato, viva, soffra, dove vada (Canto notturno di un
pastore errante nell'Asia) e tale forzata cecità uccide l'anima umana (L'infinito:
e il naufragar m'è dolce in questo mare), poiché questa è la legge
inesorabile dell'universo.
Il pensiero di Leopardi sul pessimismo si basa su due presupposti: il primo è quello per cui l'uomo non può conoscere la verità, e quindi sfocia nello scetticismo, il secondo invece si basa sulla convinzione che la realtà coincida con la Natura, senza idealità o provvidenzialità, ed è moto eterno e meccanico (materialismo, illuminismo)
Dapprima vi è il dolore personale che diviene per lui strumento di conoscenza. Il poeta pensa che la vita sia stata spietata con lui (esperienza personale/dolore personale), ma che altri possono essere felici. (Pessimismo personale o soggettivo)
Segue il dolore storico.Leopardi non interpreta più il dolore come personale ma come 'storico':non solo lui ma anche tutta l'umanità è destinata a soffrire a causa dell'evoluzione della coscienza e della ragione dell'uomo maturo che rende limitato e passeggero il piacere umano. La natura è ancora vista come benevola, ma è la ragione umana matrigna. Il dolore storico volgerà infine al grado 'cosmico'.
Nasce il dolore cosmico nel momento in cui Leopardi arriva ad
una conclusione assolutamente negativa: la condizione d'infelicità è propria
del genere umano in quanto tale, ed è da attribuirsi alla Natura stessa.
Infatti questa, mettendoci al mondo, ha fatto sì che in noi nascesse il
desiderio del piacere infinito, senza però darci i mezzi per raggiungerlo.
Questa concezione, che è alla base della maggior parte della produzione poetica
di Leopardi, emerge per la prima volta con assoluta chiarezza nel 'Dialogo
della Natura e di un Islandese', un'Operetta morale scritta nel
Nell''Operetta morale ' 'Dialogo di Plotino e Porfirio', la lunga discussione tra i due filosofi antichi sul suicidio si conclude con l'affermazione che la scelta di uccidersi dev'essere rifiutata in quanto questo gesto aggiungerebbe un'ulteriore motivo di sofferenza agli amici del suicida, i quali, come tutti gli uomini, devono già patire tanto dolore. Dunque, conclude Plotino, 'andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente, per compiere nel miglior modo questa fatica della vita'. In questo testo è possibile trovare la manifestazione di uno spirito di solidarietà e condivisione, che nasce dalla constatazione che non v'è altro modo per difendersi dalla potenza cieca della Natura e dall'alternativa dolore/noia entro la quale si svolge la vita dell'uomo.
Del resto Leopardi respinse sempre con forza l'accusa di misantropia, come si legge in un pensiero dello 'Zibaldone': 'La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi' (Recanati, 2 gennaio 1829).
Su queste basi, matura in seguito l'auspicio di una società rinnovata in senso solidale, non per astratti insegnamenti di morale o di religione, ma per la presa di coscienza che solo l'accettazione coraggiosa della verità ed il rifiuto di ogni inganno, illusione, autoinganno possono rendere gi uomini veramente uomini, e la vita un po' meno indegna di essere vissuta (cfr. 'La ginestra').
La lunga riflessione di Leopardi sulla 'Natura' si
apre nel 1818 in un modo assai strano e problematico - quasi come un segnale
della profonda 'stranezza' del pensiero leopardiano (nel senso di
apparente contraddittorietà e oscillazione continua), che altro motivo forse
non ha che l'essere esso un pensiero pensante, cioè vivo, in cammino, e non un
sistema combinatorio di luoghi comuni, come lo sono tutte le poetiche
'stabilite' e 'saggistiche' degli scrittori che non hanno
amato la filosofia.
La stranezza consiste in questo: nel giro di pochi mesi - fine del '17 fine del
'18 - Leopardi scrive sulla 'Natura': La Natura, purissima, tal
qual è, tal quale la vedevano gli antichi: [.] quell'albero, quell'uccello,
qual canto, quell'Edifizio, quella selva, quel monte, tutto da sé. (Zibaldone).
. e in fatti la natura non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con
mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e macchine scalzarla e
pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti. (Discorso
sopra la poesia romantica).
Di che natura sta parlando Leopardi? Per rispondere a questa domanda, partiremo
da due enunciati che appartengono alla cultura greca, che si collocano cioè
alle origini della riflessione occidentale sulla Natura; Aristotele scrive
nella Fisica: Ridicolo, poi, sarebbe cercare di dimostrare che la
natura è [.] [poiché] ogni volta che siamo di fronte a un ente di natura, è la
natura stessa che ci appare.
Ma prima di lui, Eraclito aveva scritto: La Natura [Physis] ama nascondersi. Non può non colpire questa consonanza di Leopardi con le origini del pensiero filosofico, ma soprattutto con la lingua greca. All'età di dieci anni Leopardi comincia lo studio del greco, direttamente dai classici e soprattutto da Omero.
Il primo e più famoso contesto in cui può essere indagata la
concezione della Natura in Omero è quello delle similitudini. Così loro, i
Troiani, facevano la guardia. E intanto gli Achei erano in preda a una folle
smania di fuggire, quale si accompagna al gelo della paura. Tutti i più
valorosi stavano là abbattuti, in una costernazione intollerabile. E come due
venti sconvolgono il mare ricco di pesci, Borea ad esempio e Zefiro: essi
soffiano dalla Tracia arrivando all'improvviso, ed ecco l'onda si accavalla
nera e rovescia fuori molta alga lungo la spiaggia: agitato così era il cuore
in petto agli Achei. (Iliade Libro IX) Come i cani fanno,
inquieti, la guardia intorno alle pecore, dentro il muro di cinta, al sentire
la belva dal cuore feroce che avanza per la boscaglia attraverso i monti; e un
grande frastuono si leva allora, di uomini e di cani, e il sonno gli va via:
così a loro là era sparito dalle palpebre il dolce sonno, nel vigilare in
quella brutta notte. (Iliade Libro X)
Ma Idomeneo non lo prese la paura come un ragazzino, e stava là ad
attenderli. Pareva un cinghiale sui monti, fiducioso nella sua forza, che
aspetta l'assalto rumoroso di molti uomini in un luogo solitario, con le setole
dritte sul dorso: gli occhi hanno lampi di fuoco, e intanto arrota le zanne,
deciso a difendersi da cani e cacciatori. Così Idomeneo attendeva, senza
tirarsi indietro, l'attacco di Enea che veniva alla riscossa. (Iliade
Libro XIII)
La similitudine fu la prima tecnica linguistica alla base del
pensiero astratto o filosofico: essa consiste molto semplicemente nel mettere a
contatto tra loro due piani del significato: uno evidente - quello della figura
così come appare - l'altro non-evidente - quello dei sentimenti interiori. Ma
così facendo, la poesia scoprì che 'l'evidente', l'effettivo, viene
assieme, è l'espressione di qualcosa che è nascosto, che non si vede, lethe.
L'immagine naturale è a-lethe, ciò che è svelato, che non-è-più-nascosto, che è
'uscito fuori'. I vocabolari traducono 'lethe' con
'oblio' e 'aletheia' con verità, condizionati da un greco
filosofico posteriore, che già aveva dimenticato i significati originari delle
parole. Per il greco omerico, per la poesia greca, il Lethe è sì oblio, ma in
quanto non più presente, non più evidente. Per la mentalità greca, si dimentica
(l'oblio per i defunti, per gli scomparsi) ciò che non è più visibile, ciò che
è morto: lo scopo del poeta, della poesia, era infatti quello di mantenere viva
l'immagine degli eroi, per non dimenticarli.
La mancanza di una fede nell'aldilà faceva della morte la fine di tutto; per
non dissolversi nel nulla, l'unico sistema era la rappresentazione poetica, la
parola che rendeva presente l'immagine viva, naturale, del defunto.
Dunque è una contraddizione solo apparente l'immagine di una 'Natura'
che è 'l'evidenza immediata di ciò che ci circonda', e nello stesso
tempo 'qualcosa di profondo, nascosto, celato ai sensi'.
A partire dalla similitudine, la Natura per il greco è duplice nel senso dell'ambiguità:
da un lato è ciò che appare, dall'altro è una forza (enérgheia) che
agisce nel profondo di ciò che appare. Sarà proprio Aristotele a dare la
sistemazione concettuale definitiva di questa concezione.
Leopardi, all'età di dieci-dodici anni, legge Omero e scopre
la forza delle emozioni attraverso una viva rappresentazione fabulatoria della
realtà. Ma in più c'è la forza di un grande poeta e di un grande classico.
Assorbe emotivamente, attraverso una forte esperienza estetica, l'uso di una
parola fondamentale. Poi scopre la letteratura del suo tempo, la letteratura
romantica.
Ma Leopardi non legge ancora i grandi romanzi romantici (ciò avverrà qualche
anno dopo). In quel periodo egli è immerso nella filologia, e quindi nelle
riviste letterarie; egli legge i dibattiti letterari, dove si discute di poetica,
di ciò che è poesia e che non è poesia: di Breme, Madame de Staël e lì scopre
un'altra 'natura', che è ormai solo quella 'nascosta' nel
duplice senso cartesiano-kantiano delle 'leggi di natura' - il
meccanicismo razionalista sei-settecentesco (la 'natura' è
'legge nascosta', è un codice super-razionale che va liberato dalle
apparenze - la singolarità dell'individuo - per poter essere esplicato nella
sua evidenza puramente logico-quantitativa: la formula che rende manipolabili i
fenomeni.
La 'Natura' è un oggetto di laboratorio); l'altra è quella
romantico-idealista di 'Natura' come 'Spirito alienato',
come 'Anima del mondo' non consapevole di sé. La 'Natura'
non è 'nient'altro' che lo specchio della psiche umana, è sentimento
espresso in modo indiretto. In tutti i casi la 'Natura' non esiste
più.
L'effetto che tutto ciò ha nella psiche di Leopardi è molto chiaro: per lui la
'Natura' è quella scoperta nella immediatezza estetica della
conoscenza poetica, e ciò causa una ribellione nei confronti di un
atteggiamento intellettualistico che egli identifica immediatamente come
tradimento della poesia. La 'Natura' per lui non è riducibile né a
'Sentimento' né a 'Ragione'; la 'Natura' è
'Physis', è vita (in greco, il significato originario di Physis è
'nascimento', il venire alla luce).
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