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Il contrasto illuministico tra ragione e sentimento, che per Foscolo si era risolto poeticamente nell'affermazione dei valori ideali della vita e nel mito delle illusioni, si traduce per Leopardi in un profondo disagio morale.
Egli accentua il senso doloroso della vita terrena, derivato dal Romanticismo, ma questo non gli impedisce di trovare al di fuori del pensiero raziocinante, accenti di pura poesia.
Postosi innanzi al problema della finalità e del significato della vita, Leopardi non riuscì, come Alfieri, a mitigare l'antitesi realtà esterna‑mondo interiore con la rappresentazione eroica del presente ed il vagheggiamento di un futuro lontano.
Mentre Manzoni dava una soluzione religiosa alla crisi dei valori spirituali originata dalla crisi degli ideali illuministici egli indagò, pessimisticamente, sul proprio dolore e sul dolore umano, fece di questi uno stimolo alla conoscenza della realtà terrena, e conferì alla sua riflessione filosofica e poetica una validità di ordine universale.
Il suo nome è solitamente accostato a quello dei cantori dell'infelicità umana, quali Byron, Lenau, De Vigny, De Musset, o dei filosofi pessimisti, come Schopenhauer; la sua poesia ebbe risonanza europea, fu l'unica a non tradirlo, e ad essa affidò il ricordo del suo dramma, interiore.
Giacomo Leopardi nacque a Recanati [Macerata] nel 1798, primogenito del conte Monaldo Leopardi e di Adelaide Antici, discendente di una famiglia di marchesi. Crebbe in un ambiente retrivo e ipercattolico. Ricevette la prima educazione dal padre, che aveva interessi letterari ed eruditi e aveva messo su una notevole biblioteca privata, e da precettori ecclesiastici.
Soprattutto studiò in proprio, servendosi della biblioteca paterna, perfezionandosi in latino, imparando da solo il greco, l'ebraico e alcune lingue contemporanee.
L'isolamento di quegli anni (da lui definiti "sette anni di studio matto e disperatissimo") acuì la sua sensibilità ma anche l'impreparazione rispetto alla vita, rendendogli più penoso il passaggio dall'adolescenza al mondo adulto. Inoltre gli causò una serie di problemi di sviluppo: deviazione della spina dorsale e indebolimento della vita.
La conseguente pausa forzata negli studi coincide con il periodo dal poeta stesso definito di passaggio "dall'erudizione al bello"; si tratta di una conversione letteraria che consiste nell'abbandono della filologia per dedicarsi alla poesia: Leopardi pertanto amplia i suoi interessi, non limitandosi più esclusivamente alla letteratura classica, ma accogliendo anche i capolavori letterari a lui contemporanei, da Alfieri a Foscolo, da Chateaubriand a Mme de Staël.
Risale al 1816-17 l'amicizia con Pietro Giordani (vedi purismo
linguistico, lezione "L'età napoleonica").
Inizia in quegli anni la stesura dello Zibaldone. Compie la sua
prima gita da solo nel 1818, a Macerata, in compagnia di Giordani. Si innamora
segretamente della cugina, Geltrude Cassi Lazzari, incontro vagheggiato poi ne Il primo amore.
In particolare l'incontro con Giordani è fondamentale: i due intrattennero una corrispondenza epistolare e quando, l'anno seguente, si incontrarono a Recanati il letterato piacentino lo incitò a seguire la propria vocazione letteraria e ad aderire alle nuove idee liberali. Nacquero così le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante.
Quest'ultima fu pubblicata a Roma ed ottenne un certo successo. Il primo accenno di gloria contribuì così a rendere più pesante la solitudine del giovane Giacomo e a fargli sentire l'oppressione degli angusti limiti del paese natio, tanto da progettare una fuga da Recanati.
Il tentativo fu sventato, in più una malattia agli occhi gli rese penoso lo studio.
Tutti questi avvenimenti lo gettarono nella più cupa depressione e lo allontanarono dalla fede religiosa. Arrivò al punto di meditare il suicidio. Paradossalmente è proprio di quegli anni L'infinito, apparso non a caso a molti critici come il più bel canto di prigioniero che sia mai stato composto.
Nel 1822 ebbe finalmente dalla famiglia il permesso di recarsi a Roma,
dove conobbe tra l'altro il famoso filologo B.G. Niebuhr.
La città lo deluse, e lui si sentì inetto ai rapporti mondani. La superficialità e la presunzione dei letterati lo infastidirono: solo la tomba di Tasso lo commosse fino alle lacrime, rivedendo nella vicenda personale del poeta il contrasto tra ideale e realtà sentito in quegli anni non a caso da molti romantici, per i quali Tasso infatti rappresentò una sorta di simbolo dell'infelicità.
Tornò a Recanati nel 1823, e riprese a scrivere e studiare, ma abbandonò la poesia ("silenzio poetico" di cinque anni, interrotto solo dall'epistola Al Conte Carlo Pepoli; solo nel 1828 ritornerà alla poesia con Il Risorgimento e A Silvia ).
Risalgono a quel periodo le Operette morali, in prosa, in cui troviamo un'evoluzione del suo pensiero (come vedremo in seguito) e del suo pessimismo.
Nel 1825 accettò la proposta dell'editore Stella di curare una edizione di
classici. Partì per Milano. Qui conobbe Monti e l'abate Cesari. Per il clima
dannoso alla sua salute, si trasferì poi a Bologna, dove conobbe il conte Carlo
Pepoli; si innamorò, non corrisposto, della contessa Teresa Carniani Malvezzi.
Dopo un terzo soggiorno a Recanati, si trasferì nel 1827 a Firenze dove fece
conoscenza con Viesseux, Niccolini, Colletta, Tommaseo, Manzoni.
Il gruppo di letterati che si riunivano attorno a Viesseux e alla rivista Antologia, nonostante fossero su posizioni filosofiche diverse, essendo essi cattolici di ispirazione liberale e Leopardi invece ateo e negatore di ogni progresso, lo accolsero con molto affetto e in più occasioni gli furono d'aiuto, come vedremo. Fu quindi a Pisa, poi di nuovo a Recanati (1828-1830).
Nel 1830 grazie soprattutto all'aiuto di Colletta e di altri amici toscani della rivista Antologia,
i quali gli fornirono aiuti materiali, Leopardi abbandonò definitivamente
quella che chiamo "l'orrenda notte" di Recanati e poté tornare a Firenze.
Qui si innamorò, non ricambiato, di Fanny Targioni Tozzetti. Pubblicò la prima edizione dei Canti, dedicata "agli amici suoi di Toscana".
Negli stessi anni strinse amicizia con Antonio Ranieri, un esule napoletano. Con lui nel 1833 si trasferì a Napoli dove visse gli ultimi dolorosi anni.
Nel giugno 1837 morì per l'aggravarsi dei mali (idropisia, asma) di cui da tempo soffriva, a causa di un collasso cardiaco. Essendovi a Napoli, in quell'anno, un'epidemia di colera, i suoi resti furono fatti seppellire di nascosto da Ranieri nella chiesa di San Vitale: furono poi trasportati nel 1938 a Mergellina, presso la tomba di Virgilio.
A Leopardi mancò una sistematica ed organica speculazione del vero: le meditazioni sparse frammentariamente nello Zibaldone e nei Pensieri corrispondono più a particolari stati d'animo, che a serrate conclusioni e deduzioni filosofiche; il pessimismo di cui si informano i Canti scaturisce in gran parte dalla rivolta del sentimento alla realtà oggettiva della vita, realtà che, dopo aver distrutto in sul nascere le speranze e le illusioni della giovinezza, contrastava amaramente con gli ideali perseguiti dalla mente, con le fantasticherie coltivate dalla immaginazione del poeta.
Egli pertanto non può essere definito propriamente un filosofo, anche se il suo pensiero ha, appunto, carattere filosofico.
L'adolescenza e la giovinezza del Leopardi sono caratterizzate da una intensa vita interiore, determinata dalle limitazioni imposte dalla severa disciplina familiare, dal facile turbamento dinanzi alla realtà dell'esistenza, dalla graduale attenuazione degli "ameni inganni" propri di tale età: si tratta di quella particolare condizione psicologica che induce il poeta a rifugiarsi negli studi ed a considerare il passato come l'unico periodo trascorso dall'uomo in completa serenità di spirito, periodo di gran lunga superiore al presente, immiserito dall'assenza di ogni volontà eroica, soffocato dal predominio della ragione, tormentato dalla conoscenza dell'umana miseria.
Siamo ancona sulle orme di Rousseau, ed in genere della filosofia sensista del Settecento:
la natura ha creato gli uomini felici perché, benefica, ha fatto loro dono della immaginazione e delle illusioni, grazie alle quali essi hanno potuto abbellire la loro esistenza con il fascino derivante dalla poesia e dagli entusiasmi eroici.
Ma la ragione, principio dell'infelicità umana, li invogliò presto ad uscire da questo stato di "innocenza istintiva e primordiale", li persuase a scrutare il mondo circostante, a scoprire il perché delle cose, a ricercare assiduamente la verità: scomparve l'ignoranza, ma con essa dileguarono i miti ed ebbe fine quella serenità di spirito che aveva permesso agli antichi di sognare ninfe e divinità terrestri.
Una volta scoperta la vera essenza del viver terreno (il vero), fu negata all'uomo la felicità: la storia del genere umano, continuamente proteso alla ricerca del vero, non è altro che la storia della sua progressiva infelicità (pessimismo storico
E', questo, un pessimismo relativo, o, per usare un termine comunemente accettato dalla critica,
"storico", vale a dire un pessimismo che identifica la storia dell'umano dolore in quella del conflitto tra natura e ragione
l'una sollecitatrice di vita, l'altra di morte, in quanto inaridisce la poesia, mette a nudo la falsità dei sogni, tarpa le ali all'entusiasmo.
Analogamente si svolge la vita del singolo individuo che dalla beata ignoranza dello stato giovanile passa alla cosciente tristezza dell'età matura: la vita diventa sofferenza allorché la ragione lacera il magico velo che ricopriva la nuda realtà delle cose pessimismo personale
Chiariamo meglio questo aspetto: nella sua prima fase, il pessimismo leopardiano è definito personale o storico. E' personale quando il poeta riflette sulla propria condizione come individuo, è storico se questa riflessione abbraccia la storia intera del genere umano, in cui il percorso personale ed individuale di ciascuno si riflette.
Possiamo riscontrare qualche analogia con Vico in tale parallelismo (ovviamente per Leopardi il percorso non è ciclico, l'innocenza perduta non si recupera, una volta subentrato il vero l'equilibrio uomo natura è spezzato per sempre): la società, storicamente, ha vissuto una fase di armonia e serenità con la natura, di ingenuità. Lo stesso accade per l'uomo, da bambino. Poi subentra la ragione, che distrugge le illusioni, mostrando il vero: questo accade nella storia del singolo come in quella della collettività.
Altro riferimento è da fare con i fratelli Schlegel, con quanto affermato nella rivista Athenaeum, nella distinzione tra poesia ingenua degli antichi e poesia sentimentale dei moderni (vedi lezione 5 sul Romanticismo).
Un ulteriore approfondimento di questi concetti porta Leopardi, assillato sempre più dalla malferma salute e deluso nella sua ansia di felicità dapprima ad un senso di sfiducia nel passato ed in quei libri e studi ‑ sono sue parole ‑ che si meraviglia "d'aver tanto amati", poi alla scoperta della ineluttabilità dell'umano dolore entro un mondo governato da leggi meccaniche ed in una vita senza scopo: questa gli si presenta ora come "un deserto senza oasi" in cui l'uomo, in balìa di un fato crudele, si dibatte tra l'incoercibile brama di godimento e l'assoluta impossibilità di conseguirlo, si dispera, e trova nella morte l'unica realtà consolatrice dei suoi mali.
Conseguentemente la natura si trasforma, da madre benigna e premurosa della felicità delle sue creature, in potenza impassibile di fronte alle sofferenze che infligge agli uomini, infine in perfida matrigna, che pone nel cuore dell'uomo il bisogno di felicità senza offrirgli la possibilità di conseguirla, che inizia a perseguitare, con inesorabili scadenze di ordine biologico e con sommovimenti ciclopici, tutti gli esseri viventi (uomini, animali e vegetali) dal momento stesso in cui li crea.
Così al, pessimismo "storico" subentra il pessimismo cosmico: la vita si riduce ad un valore assolutamente negativo, e nei pochi casi in cui non si presenta nel suo aspetto più grave di infelicità perenne, origina quell'assenza di sensazioni che il Leopardi definisce "noia" e che considera il più grave dei mali, peggiore ancora della stessa percezione del dolore, in quanto almeno dal dolore, quando cessa ogni tanto anche per un brevissimo tempo, si genera il piacere (teoria del piacere esposta ne La quiete dopo la tempesta )
NOTA BENE: il passaggio da una fase all'altra del pessimismo non è netto, si tratta di un'evoluzione graduale. Elementi inquadrati in una o in un'altra fase del pessimismo leopardiano spesso tornano in diversi periodi o sono perfino compresenti. La classificazione è pertanto puramente convenzionale.
Né è corretto dire che quando la natura è considerata dal poeta indifferente o matrigna siamo già nel pessimismo cosmico: questo infatti abbraccia tutto l'universo, e nella prima fase di mutamento del pensiero leopardiano, abbiamo invece una visione piuttosto "aristocratica".
Infatti egli afferma che la sensibilità ed il genio propri degli uomini migliori si trasformano in maggiori fonti di dolore. rispetto al volgo, incapace di scorgere il nulla che si cela sotto le apparenze ingannevoli della vita; inutile e temerario si manifesta il tentativo del genere umano di affissare lo sguardo e penetrare il mistero delle cose.
Solo nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia egli, dopo aver sostenuto che la noia appunto è il peggiore dei mali, pertanto è fortunato chi non se ne rende conto, come il gregge del pastore, conclude ponendosi il dubbio che tutti, animali inclusi, possano essere invece consapevoli del nonsenso dell'esistenza e : "Forse in qual forma, in quale/Stato che sia, dentro covile o cuna,/È funesto a chi nasce il dì natale
E' qui che il pessimismo leopardiano tocca il suo apice e può essere considerato davvero cosmico.
Solo toccato il fondo si può risalire, e la rabbia del poeta esplode in A se stesso (Ciclo di Aspasia):
[.] Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te [te stesso, riferito al suo cuore], la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera
E l'infinita vanità del tutto.
Pertanto, a fronte del comune dolore e dell'empia natura, non rimane agli uomini che la possibilità di confederarsi tra loro, non per eludere ma per attenuare la forza del cieco destino attraverso la solidarietà e la virile consapevolezza della loro in felicità: sarà questa la fase del pessimismo "eroico
Con ciò Leopardi giunge al capovolgimento della filosofia russoviana, che considerava la società corruzione della natura; delle dottrine illuministiche, che esaltavano la ragione umana; dell'ottimismo settecentesco, che tanta fiducia riponeva nelle "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità.
In effetti, accanto alle ragioni dell'intelletto, Leopardi sentì romanticamente le ragioni del cuore. Nella sua indagine sull'oscuro destino l'erudizione e la dottrina rappresentano l'elemento raziocinante; l'illusione unico mezzo per sottrarsi all'abisso della desolazione: per quanto infelice sia la vita, è dato all'uomo ritrovare un attimo di "felice inconsapevolezza" che gli permette di rivivere nostalgicamente i tempi "immaginosi" della lontana giovinezza; contro la certezza dell'umano dolore, il tedio della vita, il senso della nullità delle cose, insorge la vitale ed istintiva "aspettazione" di una felicità immaginaria, aspettazione di per se stessa illusoria, ma che nella sua illusorietà è pur l'unica forma di felicità concessa all'uomo.
In tal modo Leopardi accetta la ragione, che gli discopre la triste realtà della vita, ma sentimentalmente la odia perché gli annulla l'incanto delle illusioni, cui non né può rinunciare; nega valore all'esistenza, ma interiormente avverte l'indistruttibile necessità di ideali e di magnanime azioni; rifiuta il fattore religioso, ma il suo animo è assetato di infinito e di eterno, che di tale fattore sono gli attributi essenziali (si può infatti parlare di sentimento religioso della vita anche se tale religiosità non rientra in un credo).
I temi della speculazione leopardiana ritornano nei Canti, ma in contrasto,nella loro razionalità e negatività, con i moti affettivi del cuore, che sono l'unica realtà tradizionale, ma positiva, di cui la natura abbia fatto dono all'uomo: dal contrasto indissolubile intelletto‑sentimento nasce, per Leopardi, la poesia.
Nei tempi antichi predominava in essa la fantasia; dopo la scoperta e la conoscenza del "vero", è possibile soltanto una poesia che si nutra di ragione e sentimento (cfr. fratelli Schlegel) perché essa sola consente al poeta moderno di indagare ed analizzare la sua condizione di fronte alla natura ed alla società, e nel contempo di esprimere gli affetti ed i sentimenti che insorgono nel suo animo di fronte a tale indagine ed analisi.
Questa nuova concezione della poesia, che contiene implicitamente il rifiuto del "patetico" caldeggiato dai romantici, non impedisce a Leopardi di rimpiangere la caduta della poesia di immaginazione degli antichi, in quanto suscitatrice di quel mondo di illusioni che agli occhi deg1i uomini primitivi configurava una natura animata e partecipe della loro vita: imitarla (vedi il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, del 1818, ma pubblicato postumo) non significava riprenderne le forme, ma ricuperarne la condizione di freschezza spirituale ed il particolare e felice stato d'animo che la civiltà contemporanea ha soffocato favorendo il prevalere della ragione sul sentimento.
Tale stato d'animo sopravvive nell'età della fanciullezza, l'unica ancora dotata per natura di ingenuità e di fantasia, di illusioni, e conseguentemente di poesia:
il poeta che voglia essere veramente tale, deve rivivere questi atteggiamenti del fanciullo, che gli permettono di ristabilire l'antica armonia la natura, e respingere quella parte delle dottrine romantiche che pretende di rappresentare la realtà e di conferire alla rappresentazione di essa caratteri non intrinsecamente connessi alla essenza poetica, quali la popolarità, il patriottismo, la metafisicità.
Nella polemica tra classicisti e romantici pertanto Leopardi si schiera contro i Romantici. In realtà egli rifiuta del Romanticismo solo gli aspetti più esteriori (non ha, né può avere una visione obiettiva del movimento nel complesso). Ne rifiuta il patetico ed il vero, quindi il filone oggettivo, di cui fa parte Manzoni.
Non si rende conto, invece, di essere lui stesso romantico, inseribile in quel filone soggettivo che viene identificato al tempo con la poesia patetica appunto e sentimentale.
Per Leopardi, infatti, è necessario che il poeta sappia mediare la realtà attraverso il filtro degli affetti, grazie a quella sensibilità che egli ritiene fondamento della poesia. Contro la precisione della conoscenza razionale e scientifica, discende la tendenza della poesia al vago e all'indeterminato, la ricerca delle immagini che comportano un senso di lontananza di immensità.
Con siffatta pienezza di sentimento, la poesia diventa romanticamente personale ed autobiografica: rappresenta simbolicamente, nella propria, la voce dell'universale condizione umana; adombra classicamente la realtà con l'incanto delle illusioni e con un linguaggio a sua volta allusivo ed indeterminato, che esula dal "parlar prosaico e volgare" e che presuppone un continuo controllo ed una continua disciplina per mantenersi al tutto naturale ed aderente ai sentimenti espressi.
Egli per tali aspetti è propriamente romantico, per quanto invece non si ritenga tale. La sua difesa della poesia classica, infatti, non è coincidente a quella dei Neoclassici: Leopardi rifiuta l'imitazione.
Essendo subentrato il vero ormai la poesia ha perso la sua innocenza originaria: non serve imitare schemi classici quindi, ma occorre ricrearne lo spirito (ponendosi appunto nella condizione del fanciullo, perché storicamente, come visto, tale armonia uomo-natura è compromessa ed irrecuperabile, mentre nella vita di ogni individuo si ripete nell'età giovanile).
In conclusione, vediamo un altro aspetto importante relativo alla concezione della poesia per Leopardi. Poco più di un anno dopo aver scritto l'idillio L'Infinito egli affermava: "Il poeta nel colmo dell'entusiasmo, della passione non è poeta, cioè non è in grado di poetare. All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine dell'infinito, mentre le idee se gli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, né di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria né di pratica. L'infinito non si può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito".
In questa pagina il Leopardi ribadisce una sua considerazione estetica fonda mentale: che nell'arte l'effetto "dello stile prevale a quello de' pensieri (benché il lettore non se ne accorga, ne sappia distinguere le cose dalle parole, ed attribuisca a' soli pensieri l'effetto che prova, nel che in gran parte consiste l'arte dello stile)".
E difatti, per quanto al lettore possa sembrare scritto di getto, l'Infinito fu molteplici volte rivisto e corretto: la naturalezza con cui sono espresse e con cui il lettore percepisce le sensazioni di infinito ed eterno, sono frutto di stile e di grande maestria.
Al periodo di formazione (1808-1816) risalgono le sue versioni di Esiodus, degli 'Idilli' di Mosco, del primo libro dell''Odissea', della 'Batracomiomachia'.
Scrisse anche due tragedie, poemetti biblici, dissertazioni filosofiche. Opere erudite come la 'Storia dell'astronomia' (1813), e il 'Saggio sopra gli errori popolari degli antichi' (1815) curioso elenco di superstizioni.
Nel 1816 compose alcuni abili calchi della poesia antica, l'Inno a Nettuno e le Odae adespotae. Tali opere rivelano la sua educazione illuministica, e la passione profonda per le «favole antiche». Sono opere scolastiche, ma in cui sono presenti alcuni elementi (temi, atteggiamenti) che saranno del Leopardi maturo.
Del 1816 è la prima poesia originale, L'appressamento della morte, piena di reminiscenze dantesche e petrarchesche, ma con il tema già leopardiano del rimpianto per la giovinezza spenta
Intorno al 1816 si colloca la prima «conversione letteraria» del giovane Leopardi, con il «passaggio dall'erudizione al bello», cioè a un nuovo livello di apprezzamento dei valori poetici. Non secondario nel mutamento intellettuale di Leopardi è l'amicizia e gli incoraggiamenti avuti da Pietro Giordani. Nel periodo di invaghimento per la cugina Geltrude Cassi Lazzari, scrive la pateticissima lirica Il primo amore, e un Diario d'amore in cui fa un esame attento dei sentimenti che l'evento gli ha derivato interiormente.
Gli anni 1817-1818 sono intensi, Leopardi tenta varie strade. Si volge alla poesia patriottica, scrivendo con spiriti liberali le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante. Soprattutto soffre l'ambiente del paese come una prigione: lucido esame di coscienza della sua situazione è la lettera al padre con cui ri vela i motivi della (tentata) fuga.
Sono gli anni in cui elabora una concezione dolorosamente pessimistica del reale, che si farà sempre più realistica e cosciente, che Leopardi affidò soprattutto allo Zibaldone, una sorta di diario, ampia raccolta di ragionamenti e note filosofiche, psicologiche, letterarie, scritti nel 1817-1832, e soprattutto nel periodo 1820-1826.
Il manoscritto consta di oltre 4.500 pagine che ci offrono una guida preziosa per conoscere lo sviluppo della formazione culturale, spirituale, linguistica, letteraria dell'autore.
Dallo Zibaldone furono estratti i Pensieri in numero di 111, preparati dal poeta prima della sua morte e pubblicati da Ranieri nel 1845. Tratti appunto dallo Zibaldone furono tuttavia rielaborati per migliorarne la forma ed eliminare elementi autobiografici.
Hanno in prevalenza carattere morale e ribadiscono la posizione di Leopardi nei confronti della società e dell'uomo.
Leopardi contrappone l'innocente e sereno stato di natura alla civiltà, condizione che ha reso l'uomo raziocinante ma anche infelice.
Sul piano della poetica questo si traduce in un antiaccademico recupero del classicismo, mirante a attingere una remota antichità non ancora contaminata dal progresso e dal filosofeggiare del l'uomo. Intorno al 1820 Leopardi giungerà alla constatazione che è impossibile realizzare in tempi moderni una poesia basata sulla creazione di immagini («poesia immaginativa»), restando possibile solo una «poesia sentimentale» volta alla riflessione e all'analisi degli stati d'animo.
Rousseaunismo e alfierismo convergono in questa concezione, che Leopardi esemplificò in due articoli di polemica anti-romanticista che scrisse nel 1816-1818 e che rimasero inediti: 'Lettera ai Sigg. compilatori della 'Biblioteca italiana'', e 'Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica'. Intorno al 1824 è il 'Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani', pamphlet morale-civile su una nazione senza Stato, su un popolo che possiede «piuttosto usanze e abitudini che costumi».
A questa riflessione teorica corrispondono le realizzazioni poetiche di quegli anni (che vedremo di seguito).
Al periodo successivo al viaggio a Roma, e quindi al cosiddetto "silenzio poetico" (1822-28), risale la maggior parte delle Operette morali dialoghi e prose filosofiche. Leopardi attribuisce ancora in parte l'infelicità umana al distacco dalla natura. Ma, adottando posizioni sensistiche, la considera soprattutto conseguenza della costituzionale fugacità del piacere.
Il discorso è lento, distaccato, stilizzatissimo. Affronta con tono ironico-fantastico i miti del suo pensiero: la natura e la morte, il piacere e il dolore, la felicità e la noia ecc. Il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, il Dialogo di un folletto e di uno gnomo, il Dialogo della Natura e di un'anima, il Dialogo della Natura e di un islandese, il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un Passeggere, sono tra le cose migliori della prosa leopardiana: bizzarra come nella tradizione dei dialoghi morali, ma anche cadenzata con lirica intensità.
I personaggi non hanno pienezza di carattere: non sono loro che interessano all'autore ma lo sviluppo fantastico a cui danno luogo: le perenni illusioni e delusioni degli uomini, la contrapposizione del mondo antico al mondo moderno (Dialogo di Ercole e Atlante), l'estraneità dell'universo alla vita dell'uomo (Dialogo di un folletto e di uno gnomo); l'indifferenza della natura davanti al destino dell'uomo (Dialogo della Natura e di un islandese); l'illusorietà della felicità (Dialogo di un venditore di almanacchi e di un Passeggere); la morte come liberazione (Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie).
Parlando delle Operette morali lo stesso poeta ebbe a definire il mezzo espressivo "poesia in prosa". La tecnica della prosa è infatti elaboratissima, gli arcaismi donano al discorso efficacia espressiva; per opposto non sono infrequenti le metafore, le immagini scherzose e i paragoni di uso familiare.
L'opera rappresenta un passaggio dal pessimismo personale dei Piccoli Idilli a quello cosmico dei Grandi Idilli.
La prima edizione è dello stesso anno della prima edizione dei Promessi Sposi (1827); nella seconda, del 1834, furono aggiunti il Dialogo di un venditore di almanacchi e il Dialogo di Tristano e un amico.
I Canti raccolgono tutta l'opera poetica di Leopardi, che può essere così suddivisa:
Piccoli idilli e Canzoni civili e filosofiche
Grandi idilli
Ciclo di Aspasia
Ultimi canti
Nel 1819-1821 Leopardi compose i primi idilli: L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria.
E' un gruppo di liriche in cui gli oggetti e i paesaggi assumono una ampia risonanza sentimentale. Dominano i toni della evocazione e della memoria. Il dolore per il cadere delle dolci speranze e per l'inesorabile trascorrere del tempo si sublima nella composta contemplazione di una immensa natura onnicomprensiva.
Rispetto all'idillio classico era inteso come "piccola immagine" campestre e bucolica, l'idillio leopardiano non è un semplice quadretto, ma assume l'aspetto di una "visione", che tende appunto al vago e all'indefinito.
I piccoli idilli sono componimenti per lo più brevi; non tutti di elevato
livello artistico.
Tra essi spicca l'Infinito costituito da una duplice sensazione: visiva (siepe, mondi sterminati) e auditiva (vento che stormisce tra le piante). Sono questi i due limiti del reale tra cui spazia la fantasia dell'autore.
Altro capolavoro è Alla luna : primo di una lunga serie di colloqui tra il poeta e l'astro che si concluderà solo con Tramonto della luna, composto negli ultimi anni di vita.
Parallelamente, nel 1820-1822 sono alcune canzoni: Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Bruto minore, Alla primavera o delle favole antiche, Ultimo canto di Saffo. Nota saliente è un eroismo antagonistico, volto soprattutto contro la tirannia del destino, contro oppressive e disumane leggi universali.
Al ritorno da Roma scrisse, oltre a un gran numero di pagine dello 'Zibaldone', l'Inno ai patriarchi e la canzone Alla sua donna, in cui la figura femminile oggetto del canto appare come sogno evanescente, irraggiungibile ideale.
Per l'editore Stella, Leopardi cura una edizione commentata del 'Canzoniere' di Petrarca. Scrive l'epistola Al conte Carlo Pepoli. Soprattutto, nel periodo 1825-1827, approfondisce la sua concezione materialistica del mondo. Rovescia alcune delle premesse iniziali, identifica nella natura, intesa come materia in perenne inesorabile trasformazione che garantisce il perpetuarsi della specie solo attraverso il sacrificio dei singoli individui, la causa prima dell'infelicità dell'uomo.
Interrompendo il silenzio poetico, al periodo pisano appartengono i canti Il risorgimento e A Silvia (1828). Di quest'ultima scriverà a sua sorella: "Dopo due anni ho fatto de' versi questo aprile, ma versi veramente all'antica, con quel cuore di una volta".
La canzone è dedicata forse a Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta in giovane età. Il nome Silvia è quello della protagonista dell'Aminta di Tasso. Silvia è il simbolo della speranza, delle illusioni della giovane età, che cadono al subentrar del vero.
Il tema della perduta giovinezza, di un tempo felice che non ritorna, è ancora presente ne Le ricordanze
risalenti al periodo del ritorno recanatino insieme ai grandi idilli: Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia.
Il ritorno all'odiato e amato borgo comporta la ripresa dei miti giovanile e del tema della rimembranza
Inoltre è presente il tema del rimpianto, ma si badi bene: Leopardi non rimpiange una felicità passata, mai avuta, ma l'illusione di felicità, il desiderio di felicità nutrito in gioventù, quando si è ancora inconsapevoli del futuro.
Tali temi (già trattati nel Dialogo di un venditore di almanacchi), ritornano in A Silvia e nel Sabato del villaggio, in cui l'attesa della festa è sempre migliore della festa stessa (che indica la maturità).
Quindi la felicità esiste solo come illusione proiettata in un futuro che si ignora.
Questa visione si completa con la teoria del piacere in La quiete dopo la tempesta (non a caso composta insieme al Sabato del villaggio nel 1829.
Se in questo idillio il presente è rapportato al futuro, nell'altro è rapportato al passato: il piacere è solo una pausa momentanea del dolore, è l'unica concessione di una natura matrigna:
Come si vede non si può ancora propriamente parlare di pessimismo cosmico, dal momento che tutti gli uomini soltanto sono accomunati dal destino infelice e perseguitati dalla natura.
Aspetto importante è dato anche dalla struttura degli idilli: una prima parte, più descrittiva (pur sempre tendente al vago) riporta delle scene della vita del borgo; segue quindi la riflessione filosofica.
Questo non si riscontra invece ne L'Infinito, dove si può pertanto parlare di poesia pura (fatta solo di immagini e sensazioni, senza messaggi di altro genere).
Altra caratteristica è il sensismo, la capacità di suscitare affetti, sentimenti e sensazioni nel lettore, ma si tratta pur sempre di un sensismo che tende al vago e all'indefinito.
In queste liriche prevale il senso di un universale dolore e una pietà verso tutti i viventi, sia eroi che umili, tutti ugualmente illusi dalla Natura matrigna nei loro giovanili sogni di felicità, e da essa tutti egualmente ingannati e travolti.
In particolare nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia il pessimismo leopardiano raggiunge il suo apice e investe l'umanità intera ed il cosmo.
Nuova è la figura del pastore, un essere primitivo che nella sua ignoranza si chiede il perché delle cose, dell'esistenza dell'uomo, degli astri, in un lungo monologo. Si rivolge alla luna, depositaria forse di segreti preclusi all'uomo, che pertanto è incapace di conoscere il senso della sua stessa esistenza e del suo dolore.
L'amore fiorentino per Fanny Targioni Tozzetti (denominata appunto Aspasia) gli ispira intorno al 1830- 1833 cinque poesie: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia (scritta quando ormai era già a Napoli).
Egli comprende che il fascino tentatore fu un inganno e ancor più un errore, perché l'uomo innamorato si illude di amare una donna e in realtà ama solo "l'amorosa idea" suscitata in lui dalla bellezza femminile.
Abbandonate pertanto le illusioni (che si badi bene, le illusioni di Leopardi non sono, come per Foscolo, ideali ma sogni, quindi non hanno elementi di concretezza, materialistici) ed eleva la sua protesta contro il destino riservato ai viventi (A se stesso).
Da tale disperazione scaturirà la riflessione ultima del poeta: il recupero dei valori di solidarietà tra gli uomini e il superamento di ogni egoismo (La ginestra).
A tale periodo, detto del pessimismo eroico, che coincide con il soggiorno napoletano risalgono oltre al 'Dialogo di Tristano e di un amico', il poemetto eroicomico in ottave Paralipomeni della Batracomiomachia, e le ultime liriche: Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, Sopra il ritratto di una bella donna, Palinodia al marchese Gino Capponi, I nuovi credenti, e soprattutto La ginestra e Il tramonto della luna.
L'estrema produzione poetica di Leopardi alterna al motivo del rimpianto per le speranze troppo presto distrutte, quello della polemica ideologica contro il facile ottimismo dei liberali moderati legati a una idea semplicistica del progresso.
Egli sottolinea la necessità che tutti gli uomini ripudino ogni superficiale mito consolatorio, e si uniscano invece fraternamente e coraggiosamente per meglio fronteggiare il cieco dispotismo di Natura.
E La ginestra può essere considerata il suo testamento spirituale: nel mito- parabola della ginestra che piegherà il capo alla sorte ma che, meno folle dell'uomo, non ha creduto alla sua immortalità, è contenuto l'ultimo messaggio agli uomini: nonostante il dolore, la morte, il nulla, essi potranno trovare una ragione di vita nella fratellanza e nell'amore reciproco.
Leopardi si distacca progressivamente dalle forme metriche chiuse: ricorre all'endecasillabo sciolto o usa lo schema della canzone petrarchesca con grande libertà, fino a trasformarlo in un recitativo di endecasillabi e settenari che si alternano, ora rimati ora no, e riuniti in strofe di diversa lunghezza. Anche per il continuo mutare del rapporto tra unità sintattiche e unità metriche, ne deriva una scrittura poetica originalissima, fondata sulla modifica, violazione della tradizione, dall'interno.
Anche la lingua poetica di Leopardi poggia in buona parte su vocaboli logorati da un lungo impiego letterario, ma trasfigurati dalla specifica cadenza del canto o dalla contiguità di altre parole, più dimesse e quotidiane. In ogni caso sempre carichi di echi, di sensi non detti. Essendo soprattutto moto interiore e confessione, la lirica leopardiana degli idilli appare povera di particolari, si fonda su un vocabolario ristretto, evita ogni immagine troppo corposa e precisa che fisserebbe in modo icastico e quindi tradirebbe l'infinito e/o indefinibile errare dell'anima.
In alcune canzoni, e soprattutto nelle composizioni degli ultimi anni, la poesia si manifesta in forma anche diversa: attraverso uno stile teso e eloquente, energico e senza tenerezze, con aperture satiriche, esortatorie, 'profetiche' di notevole intensità.
Venditore. Almanacchi,
almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere. Almanacchi per l'anno nuovo?
Venditore. Si signore.
Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere. Come quest'anno passato?
Venditore. Più più assai.
Passeggere. Come quello di là?
Venditore. Più più, illustrissimo.
Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo
fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete
almanacchi?
Venditore. Saranno vent'anni, illustrissimo.
Passeggere. A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno
venturo?
Venditore. Io? non saprei.
Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi
paresse felice?
Venditore. No in verità, illustrissimo.
Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Venditore. Cotesto si sa.
Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto
il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né
meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Venditore. Cotesto non vorrei.
Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o
quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e
che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare
la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore. Lo credo cotesto.
Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non
potendo in altro modo?
Venditore. Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri
patti.
Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa
dell'anno nuovo?
Venditore. Appunto.
Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma
questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E
si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il
male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima,
con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita
ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si
conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso
incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita
felice. Non è vero?
Venditore. Speriamo.
Passeggere. Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete.
Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere. Ecco trenta soldi.
Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi
nuovi; lunari nuovi
Un Islandese,
che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime
terre; andando una volta per l'interiore dell'Affrica, e passando sotto la
linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un
caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di
Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si
fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove
acque (n.30).
Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere
di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni
prima, nell'isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma
smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il
gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile,
di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così
un buono spazio senza parlare, all'ultimo gli disse.
Natura. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era
incognita?
Islandese. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e
fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la
fuggo adesso per questa.
Natura. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli
cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
Islandese. La Natura?
Natura. Non altri.
Islandese. Me ne dispiace fino all'anima; e tengo per fermo che maggior
disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.
Natura. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste
parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che
era che ti moveva a fuggirmi?
Islandese. Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche
esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza
degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per
l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando
e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che
affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità,
quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio,
deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di
avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere
una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla
nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti.
Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle
fatiche corporali: che ben sai che differenza e dalla fatica al disagio, e dal
viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa
risoluzione, conobbi per prova come egli e vano a pensare, se tu vivi tra gli
uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti
offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni
cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo
non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente,
separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che
nell'isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo,
e vivendo senza quasi verun'immagine di piacere, io non poteva mantenermi però
senza patimento: perché la lunghezza del verno, l'intensità del freddo, e
l'ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano
di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte
del tempo, m'inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che,
né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né
anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale
principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli
di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto
degl'incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di
legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una
vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e
speranza, e quasi di ogni altra cura, che d'esser quieta; riescono di non poco
momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior
parte dell'animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle
avversità che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi
ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d'impedire che l'esser
mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che
le altre cose non m'inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e
climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non
essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso
anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere
umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli
altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori
dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e
miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando
eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per
le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta
esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non
dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare
la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici,
rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall'incostanza
dell'aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi
ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu
dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non
rei verso te di nessun'ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del
cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla
furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e
turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri
furori dell'aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel
gran carico della neve, tal altra, per l'abbondanza delle piogge la stessa
terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è
bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m'inseguivano, come fossi
colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non
provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti
avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl'insetti volanti non mi
abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre
imminenti all'uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico (n.31) non
trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che
ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io
fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del
corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi
infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale
la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa
imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi
di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più
calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla
durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e
totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e
diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte;
altre di perdere l'uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita
più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il
corpo e l'animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di
noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e
infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse
bastevolmente misera per l'ordinario); tu non hai dato all'uomo, per
compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia
cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne' paesi
coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene
ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall'aria, cose vitali,
anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo
ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre
disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l'uomo non
può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto
all'una o all'altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno
solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho
consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato
e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto
in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a
conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e
di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci
pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e
che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de'
tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto
rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di
perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di
occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci
opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero
e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo
tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de' viventi,
preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di
continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere
senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è
assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il
rimanente allo scadere, e agl'incomodi che ne seguono.
Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?
Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone
pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli
uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si
sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente,
se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi,
quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E
finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non
me ne avvedrei.
Islandese. Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua
villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse
dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo
pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia.
Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi
alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il
bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare,
schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se
querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho
fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia
gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di
farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai
fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma
poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di
fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza
travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il
mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e
ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di
pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua
voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non
poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai
collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in
questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che
l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere
umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.
Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è
un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di
maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione
del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe
parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui
cosa alcuna libera da patimento.
Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché
quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare
è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi
piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con
danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? Mentre stavano in questi
e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e
maceri dall'inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese; come
fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma
sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi
mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un
superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente,
e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato
nel museo di non so quale città di Europa.
Per altri dialoghi consultare: https://www.classicitaliani.it/index041.htm
Metro: Endecasillabi sciolti.
Poesia pura. Subito il Leopardi con le parole Sempre caro mi fu quest'ermo colle, permeate di una musica indefinita, porta l'immaginazione in una lontananza che sconfina con lo spazio interminato. Il primo incanto sta qui. I limiti stessi, che gli precludevano talora l'orizzonte, davano all'animo suo, allorché si abbandonava alla fantasia, l'illusione che di là potesse essere l'illimitato. "Allora in luogo della vista lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L'anima s'immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario".
Quest'illusione provava egli specialmente quando si soffermava su di un piccolo colle solitario, il monte Tabor, con alberi che stormivano al vento e una distesa di sterpi, che formavano all'occhio come una siepe. Da quella fantasia è nato nel 1819 il suo idillio L'infinito, dove due immagini segnano il limite, che "cade sotto i sensi": la siepe e lo stormire delle piante. Di là da quel limite, come una vastità "incircoscritta" fuor dei sensi, si stende l'infinito in un silenzio sovrumano; spazia l'immensità.
La concezione è arditissima e originale; ma diviene poesia soprattutto per l'incanto della forma. Il poeta giunse ad esso non solo per l'illusione fantastica, sempre rinnovantesi, di cui abbiamo fatto parola, ma in ispecial modo con una finissima ricerca stilistica, la quale mostra a fondo qual concezione egli avesse dell'arte.
Diceva poco più di un anno dopo aver scritto l'idillio: "Il poeta nel colmo dell'entusiasmo, della passione non è poeta, cioè non è in grado di poetare. All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine dell'infinito, mentre le idee se gli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, né di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria né di pratica. L'infinito non si può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito".
In questa pagina il Leopardi ribadisce una sua considerazione estetica fonda mentale: che nell'arte l'effetto "dello stile prevale a quello de' pensieri (benché il lettore non se ne accorga, ne sappia distinguere le cose dalle parole, ed attribuisca a' soli pensieri l'effetto che prova, nel che in gran parte consiste l'arte dello stile)".
Con quanta arte egli, per un argomento così arduo, come l'illusione dell'infinito, sia riuscito a "esser padrone delle cose", è rivelato dagli abbozzi in prosa e in versi, nei quali le immagini sono ancora slegate e vanno cercando il giusto punto stilistico che dia concretezza alla figurazione.
Quali sono nell'idillio le caratteristiche dello stile? La rapidità e la concisione, in cui il Leopardi poneva il sommo dell'arte, perché "presentano all'anima una folla d'idee simultanee, o così rapidamente succedentisi, che paiono sirnultanee, e fanno ondeggiar l'anima in una tale abbondanza di pensieri, o d'immagini e sensazioni, spirituali, ch'ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio e priva di sensazioni".
Questo è il motivo per cui la contemplazione leopardiana, che s'intitola L'infinito,come ogni lirica che sia veramente poesia, "lascia molto alla fantasia ed al cuore del lettore o spettatore".
Quando il lettore abbia sentimento e fantasia, incanto genera incanto.
C. CALCATERRA, Giacomo Leopardi. Canti, Torino SEI ristampa 1956, pp. 104‑105.
Metro: Canzone libera. È la prima in ordine
cronologico ed è composta da sei strofe, diverse
tra loro per numero di versi e schema.
Metro: Canzone libera di quattro strofe.
Nelle ultime due, l'ultimo verso è in rima
con uno dei versi precedenti.
Metro: Canzone libera di tre strofe. L'ultimo verso
di ciascuna strofa rima con uno dei versi precedenti.
Metro: Canzone libera di sei strofe, con rime frequenti.
La rima -ale è costante alla fine di ciascuna strofe ed è
ripresa all'inizio della strofe-congedo.
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera
E l'infinita vanità del tutto.
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