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Futurismo




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Futurismo



Se il Crepuscolarismo corrode e svuota dall'interno i significati e le forme della letteratura tradizionale, gli esponenti dell'avanguardia futurista le aggrediscono dall'esterno, frontalmente, fino a disintegrarle, distruggendo i fondamenti su cui poggiavano.

Nel Manifesto del Futurismo, pubblicato sul quotidiano parigino «Le Figaro» il 20 febbraio 1909, Filippo Tommaso Marinetti formula il suo programma di rivolta contro la cultura del passato e tutti gli istituti del sapere tradizionale («Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie»), proponendo un azzeramento su cui elevare una concezione della vita integralmente rinnovata.

La visione del mondo e dell'uomo

I valori su cui intende fondarsi la visione del mondo futurista sono quelli della velocità, del dinamismo, dello sfrenato attivismo, considerati come distintivi della moderna realtà industriale, che ha il suo emblema nel mito della macchina. Il culto dell'azione violenta ed esasperata respinge fin d'ora ogni forma esistente di organizzazione politico-sindacale (il parlamentarismo, il socialismo, il femminismo), nel nome di un individualismo assoluto e gratuito, in cui non è difficile notare una nuova incarnazione del mito del superuomo: «Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno». Di qui l'adesione all'ideologia nazionalista e militarista, che celebra la guerra come «sola igiene del mondo» (la definizione verrà ripresa da Marinetti in un intervento del 1915).

Anche l'uomo, il cui significato si risolve interamente nell'azione, finisce per ridursi a un essere meccanico e dinamico (L 'Uomo moltiplicato e il Regno della Macchina è il titolo di un manifesto del 1910); disinteressandosi del tutto della dimensione psicologica, i futuristi disprezzano i comuni atteggiamenti spirituali e sentimentali (nei confronti della donna e dell'amore, ad esempio, nel manifesto Contro l'amore e il parlamentarismo, che sposta poi il discorso sui piano politico). Di qui la polemica si estende alla sensibilità romantica e decadente, come risulta dal manifesti Uccidiamo il Chiaro di Luna! (1909) e Contro Venezia passatista (1910). A essere rifiutata, di conseguenza, è anche la letteratura che si basava su questi valori e che viene considerata come espressione di una civiltà oramai superata: dalla più antica tradizione critica, tramandata dall'insegnamento (si vedano i manifesti La «Divina commedia» è un verminaio di glossatori e Contro i professori, entrambi del 1910), fino alle tendenze più recenti, alle quali lo stesso Marinetti aveva in precedenza aderito (nello scritto Guerra Sola igiene del mondo, già ricordato, si legge: «Noi abbiamo sacrificato tutto al trionfo di questa concezione futurista della vita. Tanto che oggi odiamo, dopo averli immensamente amati, i nostri gloriosi padri intellettuali: i grandi geni simbolisti Edgar Poe, Baudelaire, Mallarmé e Verlaine»). Solo la velocità, come un nuovo dio, può contenere in sé tutti i valori, spirituali e morali, dell'uomo (in un manifesto del 1916, La nuova religione-morale della velocità).

Le soluzioni letterarie

Sul piano delle soluzioni letterarie, come risulta dal Mantfesto tecnico della letteratura futurista, scritto da Marinetti nel 1912, la contestazione si propone di colpire le strutture stesse della comunicazione ideologica, costituite dal linguaggio. La letteratura si era sempre basata su un impianto concettuale, al quale aveva affidato i suoi messaggi; il Futurismo respinge ogni forma consueta di causalità e di consequenzialità, sostituendo, all'impianto logico del pensiero, una forma più sintetica e abbreviata, quella dell'analogia. L'analogia accosta fra loro realtà diverse e lontane, non per un passaggio di giustificazioni logiche, ma attraverso un semplice accostamento, che suggerisce (e nello stesso tempo rende concretamente percepibile) un rapporto di somiglianza fantastica. Riprendendo e portando alle estreme conseguenze la lezione del Simbolismo, l'analogia costituisce la forma più essenziale e sintetica della similitudine e della metafora. Marinetti la definisce come "sostantivo-doppio", insistendo sul carattere imprevedibile e remoto dell'accostamento, capace di inglobare ambiti di realtà sempre più vasta: "Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia."

La parola

La parola perde la funzione, che le era attribuita dalla letteratura tradizlonale, di indicare concretamente l'oggetto al quale si riferisce; il suo significato diventa polisemico, allusivo, evocatore, permettendo di cogliere la vastità e lo spessore del reale, al di là di ogni sua rappresentazione in termini superficiali e puramente fenomenici. All'oggettività del naturalismo Marinetti intende sostituire un'oggettività dinamica e complessa, che "può abbracciare la vita della materla", attribuendo all'analogia un valore diverso da quello, indefinito e interiorizzato, proposto dal Simbolismo. In questo senso viene rifiutata ogni forma di soggettivismo sentimentale e romantico, per dare una voce indipendente alla relazione fra le cose. Con l'avanguardia finisce per affermarsi definitivamente il concetto della parola come segno autonomo e arbitrario rispetto al contenuti della realtà rappresentata.

Il Futurismo si proponeva così di distruggere la sintassi tradizionale, che riflette l'ordine logico di un pensiero rigorosamente concatenato, saldamente riportato al soggetto che scrive (anche quando, come nel romanzo naturalista, il narratore si proponeva di scomparire dalla scena del racconto) e alla concreta determinazione delle situazioni rappresentate. Vengono anche aboliti i tradizionali elementi di interpunzione, che scandivano i rapporti interni della frase (il legame fra la principale e le subordinate, gli incisi, ecc.), con lo scopo di suggerire il fluire ininterrotto delle sensazioni, la rapidità folgorante dei passaggi, il compenetrarsi "analogico' fra i diversi piani del reale. Per rafforzare questi effetti Marinetti propone l'uso del verbo all'infinito, che indica il senso della durata e della continuità, senza ulteriori riferimenti che circoscrivano l'azione. Alla distruzione della sintassi si sostituisce la teoria delle "parole in libertà". che consiste nel disporre "i sostantivi a caso, come nascono" (si può già intravedere. in queste affermazioni, un preannuncio della 'scrittura automatica', che caratterizzerà la poetica del Surrealismo). Notevole rilievo assume anche la forma grafica delle parole. La parola vale non solo per l'immagine mentale che può produrre, ma anche come segno concretamente visibile, destinato a sua volta a suggerire impressioni acustiche o tattili (di qui l'importanza della sinestesia).

La poetica futurista opera così una fusione o compenetrazione fra i diversi 'lnguaggi artistico-espressivi' che perdono le caratteristiche della loro separatezza (molti futuristi si cimentarono non a caso nelle più diverse esperienze). Evidente è il rapporto fra letteratura e pittura nelle 'tavole parolibere', che si basano su un libero (anche se calcolato) accostamento di lettere, parole, segni grafici e immagini. Un analogo processo di trasformazioni riguarda il rapporto con lo spettacolo, in quanto la parola tende a risolversi in suono, mimica, gesto (i testi di Marinetti e seguaci venivano spesso letti e recitati nelle serate futuriste).

I manifesti

Questa vicenda è fittamente scandita dal rapido susseguirsi dei manifesti e di altri interventi programmatici, che, aggiungendosi a quelli già indicati, riguardano più specificamente le diverse esperienze artistiche: il Manifesto dei pittori futuristi e La pittura futurista, firmati da Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini. il Manifesto dei musicisti futuristi e La musica futurista di Francesco Balilla Pratella, cui è da aggiungere L 'arte dei rumori di Russolo; La scultura futurista di Boccioni; il Teatro di Varietà, Il teatro futurista sintetico (redatto da Marinetti, Settimelli e Bruno Corra);L'architettura futurista di Antonio Sant'Elia; La cinematografia di Marinetti, Corra, Settimelli, Arnaldo Ginna, Balla e Remo Chiti. Occupandosi dei più diversi aspetti della realtà (ci furono anche manifesti sulla moda, sull'arredamento, sulla cucina, ecc.), il Futurismo si presentò come un programma di rifondazione totale, come risulta anche dal manifesto, scritto da Balla e da Fortunato Depero, Ricostruzione futurista dell'universo.

Il ruolo di Milano

Sorto a Milano, che non a caso era la città più industrialmente avanzata ed europea d'Italia, il Futurismo si diffuse rapidamente in tutta Italia , con numerosissime adesioni. Ricordiamo solo alcuni dei suoi principali esponenti, soprattutto per quanto riguarda il versante dell'attività letteraria: Paolo Buzzi (1874-1956), autore delle raccolte poetiche Aeroplani (1909), Versi liberi (1913), L'ellisse e la spirale (1915); Enrico Cavacchioli (1885-1954), autore de Le ranocchie turchine (1909), Cavalcando il sole (1914); Francesco Cangiullo (1888-1977), che scrisse Le cocottesche (1912), Piedigrotta (1916) e Caffèconcerto (1916), firmando poi con Marinetti il manifesto Il teatro della sorpresa (1921) e lasciando una vivace rievocazione narrativa nelle Serate futuriste (1930); Bruno Corra (pseudonimo di Bruno Ginanni Corradini, 1892-1976), di cui si ricorda soprattutto il romanzo Sam Dunn è morto (1915).

Al Futurismo aderirono anche scrittori provenienti dall'esperienza crepuscolare, come Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi, maggiore esponente del Futurismo letterario fiorentino, che si costituì attorno alla rivista "Lacerba", fondata nel 1918 da Giovanni Papinl e Ardengo Soffici.

Il mito della macchina

È stato Giovanni Getto ad affermare che, anche sul piano tematico, «la storia letteraria si chiarisce in diversi momenti con la storia economica», senza tuttavia, ovviamente, risolversi in essa, con la «grossolana conseguenza della trasposizione dei segni di valore, positivo o negativo, dal piano economico a quello letterario» (è evidente qui la polemica nei confronti delle riduzioni meccaniche e semplicistiche di certa critica sociologica). La letteratura italiana, anche per i ritardi dello sviluppo economico e sociale, è rimasta a lungo legata (da Manzoni a Verga, ma ancora in pieno Novecento) ad una realtà contadina, ignorando la dimensione della città, che rappresenta l'ambiente tipico creato dalla Rivoluzione industriale, con tutti i suoi problemi e le sue contraddizloni. Anche in un movimento per tanti aspetti innovatore come quello della Scapigliatura, le prime avvisagile dell'industrializzazione suscitano una reazione di sconcerto, conflittuale e negativa. Così Emilio Praga, nei versi di La sfradaferrata (1878), rimpiangeva la scomparsa del vecchio mondo:

Addio, pace de' campi pensosi, solitarie abitudini, addio; l'operaio sul verde pendiogià distende il ferrato cammin.

La macchina per Carducci

Diversamente Giosue Carducci, nell'Inno a Satana (1863), aveva celebrato l'avvento della locomotiva, come segno del trionfo della scienza e del libero pensiero: «Un bello e orribile I mostro si sferra, / corre gli oceani, I corre la terra». La consapevolezza della modernità, che si accompagna allo sviluppo economico, fa sì che anche in Italia cominci ad avvertirsi l'esigenza di una cultura industriale. Non a caso a farsene interprete sarà soprattutto D'Annunzio, che in Maia, ad esempio, innalza Un inno alla macchina, esaltando, più in generale, i moderni valori dell'attivismo, del dinamismo, della velocità.

Proprio la macchina, nella vasta gamma dei suoi significati, diventa un mito (anche mostruoso, come abbiamo visto in Carducci), nel quale si raccolgono le aspirazioni della modernità, del rinnovamento, delle trasformazioni sociali; nel passaggio dalla realtà economica alla letteratura, essa assume il valore di un simbolo, in grado di alimentare le fantasie dell'immaginario collettivo. Nel momento in cui riesce ad avere una diffusione di massa, questa mitologia si affianca alle ideologie del tempo, sostenendone la volontà di trasformazione e di espansione; di qui il rapporto molto stretto stabilito con le tendenze superomistiche, nazionalistiche, imperialistiche.

La macchina come religione

Da mito l'esaltazione della macchina si trasforma in una sorta di religione (o di 'modernolatria') con il Futurismo, per il quale la macchina diventa il mezzo e il fine della creatività artistica e della sensibilità estetica, permeando l'intero orizzonte dell'ideologia: dalla nuova forma dell'uomo meccanico al suo trionfo nella guerra. La macchina si trasforma in una metafora dell'esistenza, offrendo l'illusione di un fondamento concreto e oggettivo in una visione del mondo per molti aspetti astratta, delirante e irrazionale.

La macchina per D'Annunzio

Dopo il clamore futurista il motivo verrà ripreso dallo stesso D'Annunzio, il quale, nel romanzo Forse che sì forse che no (1918), ne fa l'espressione allegorica di una contraddizione psicologico-esistenziale: fra la macchina terrestre, l'automobile, che simboleggia le forze oscure e diaboliche, portatrici di morte, e la macchina celeste, l'aeroplano, come speranza di purezza e di liberazione.

La macchina per Pirandello

All'opposto del Futurismo si possono collocare i Quaderni di Serafino Gubbio operatore (prima edizione 1915), di Pirandello dove la macchina è quella da presa, che, trasformando il protagonista della narrazione in una sorta di essere meccanico, coglie solo la superficialità delle cose, sottolineando la finzione e l'apparenza delle convenzioni sociali. La macchina a questo punto non può dare sicurezza e certezze.

Definizione di 'avanguardia'

Il termine 'avanguardia', usato nell'Ottocento in senso politico, a indicare i gruppi che si ponevano a capo di movimenti rivoluzionari, nel Novecento si estende a designare anche gruppi letterari e artistici. Per la prima volta viene impiegato, ai primi del '900, a proposito di movimenti come Futurismo, Dadaismo, Surrealismo, oggi detti 'avanguardie storiche' per distinguerli dalle neoavanguardie più recenti.

L'elemento che principalmente distingue l'avanguardia è la rottura del canale di comunicazione col pubblico comune. Come ha osservato Edoardo Sanguineti, il massimo esponente della neo-avanguardia italiana, lo scrittore d'avanguardia mira a creare un'opera illeggibile da parte di questo pubblico. L'avanguardia è quindi il rifiuto radicale dei codici culturali correnti, del gusto dominante, dei linguaggi e dei mezzi espressivi abituali, che fanno sì che un'opera letteraria o artistica possa immediatamente essere capita, apprezzata e amata dai fruitori anche non specialisti.

Perché nel Novecento?

Ma perché questa rottura si manifesta in movimenti attivi proprio ai primi del Novecento? In questi anni raggiungono il loro punto estremo certe condizioni oggettive che si erano già delineate nel secondo Ottocento: l'instaurarsi del mercato culturate, la trasformazione del prodotto letterario e artistico in merce, in oggetto che si vende e si compra. Quando il pubblico era costituito da una ristretta élite, raffinata e coltissima, l'artista si sentiva in certo modo libero di creare e sperimentare, sapendo di poter essere comunque seguito dai suoi lettori. Ora il pubblico è sempre più vasto, anonimo, di mediocre cultura, e ciò fa sì che il prodotto, per incontrare i suoi gusti, divenga stereotipato, riproducibile in serie come un oggetto industriale, ripeta sempre gli stessi schemi strutturali, le stesse tematiche, gli stessi linguagi. E quanto avviene, ad esempio, col romanzo d'appendice, che è puro prodotto di consumo per il pubblico borghese. L'avanguardia si oppone proprio a questa mercificazione, a questa riduzione dell'arte a stereotipo, a ripetizione di una serie di schemi e di luoghi comuni sempre identici, svuotati di ogni autenticità e vitalità. È cioè un tentativo, da parte degli intellettuali, di ricuperare un ruolo autonomo, di respingere l'asservimento all'industria culturale che li degrada, li appiattisce, li rende non più 'artisti', 'creatori' di bellezza, cioè di un prodotto ineffabile e inestimabile, ma per così dire 'operai' che sfornano oggetti in serie. Per questo, quando la mercificazione e la standardizzazione dell'arte tocca il culmine, ai primi del Novecento, esplode la rivolta, e gli intellettuali si organizzano in gruppi per condurre la loro battaglia. Vi erano già stati, nel secondo Ottocento, fenomeni che avevano preannunciato questa esplosione: la poesia di Baudelaire, con la sua provocatoria irrisione della morale comune e dei gusti letterari borghesi, i simbolisti, in particolare il ribelle e dissacratore Rimbaud, e, in Italia. sull'onda di queste esperienze, gli scapigliati.

Sperimentalismo

L'effetto di questo rifiuto violento, estremistico dei codici culturali e dei linguaggi correnti è lo sperimentalismo: l'avanguardia sperimenta forme nuove, ardite e sconcertanti, linguaggi mai prima unti, che sconvolgono tutte le abitudini sino a risultare incomprensibili, urtanti, oltre i limiti della stravaganza o di una calcolata follia. L'intento è di provocare e scandalizzare, ma anche di distruggere gli stereotipi. Ad esempio, dopo le violente irrisioni dei futuristi, doveva divenire impossibile per i poeti cantare ancora il chiaro di luna (Uccidiamo il chiaro di Luna! è il titolo di un manifesto futurista). Per condurre questa battaglia, gli intellettuali di norma si coalizzano in gruppi. elaborano teorie e poetiche, pubblicano manifesti, cercano la massima pubblicità con chiassose esibizioni (sono rimaste famose le serate futuriste, che talora finivano in vere e proprie risse).

Per un pubblico futuro

Se rifiutano il pubblico attuale, gli artisti d'avanguardia scrivono per un futuro lettore che non c'è ancora e solo per il quale il testo diverrà leggibile. Anzi, l'avanguardia mira a creare questo futuro lettore, a prepararlo, a educarlo: ne consegue che è insito in quest'arte un forte atteggiamento didattico e pedagogico. Questa tensione verso ciò che non c'è ancora, che è potenziale, determina ancora una caratteristica comune delle avanguardie: l'opera tende ad esaurirsi nella sua poetica, cioè nella teoria, nel programma enunciato. La realizzazione concreta dell'opera in quanto tale diviene irrilevante. Spesso le opere letterarie o artistiche valgono non tanto in sé, quanto come enunciazioni di poetica, come esempi di applicabilità dei princìpi teorici.



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