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Movimento culturale e artistico, fondato da F. T. Marinetti nel 1909, per esaltare il progresso e il futuro rispetto al passato, aderendo, tramite forme espressive polemiche contro la società tradizionale, al dinamismo della vita moderna e confidando interamente nelle nuove invenzioni tecnologiche. I linguaggi espressivi tradizionali vennero accusati di soggettivismo, psicologismo e moralismo e di non essere più adeguati alle condizioni della società industriale. La frattura con il passato venne sottolineata da gesti di rottura, intesi a sorprendere il pubblico. Famose restano le campagne affondiamo Venezia e abbasso la luna (antiromanticismo) e contro la pastasciutta (antipopolarismo). Il primo manifesto futurista apparve sul Figaro il 20 febbraio del 1909; esso incitava alla distruzione della sintassi tramite la poesia e la prosa, utilizzando le parole in libertà. Il programma di rinnovamento della letteratura venne riassunto da F. T. Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912: 'Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono usare il verbo all'infinito abolire l'avverbio abolire anche la punteggiatura distruggere nella letteratura l''io' e sostituirlo finalmente con la materia'. Secondo i futuristi, la poesia doveva echeggiare il canto convulso della metropoli pulsante di vita, della civiltà della tecnica, delle macchine, l'esaltazione del mito della velocità. A queste tematiche ben presto subentrarono quelle della violenza, della guerra, considerata la sola igiene del mondo. Dal punto di vista ideologico, il futurismo italiano fu reazionario e militarista. Dopo la prima guerra mondiale il movimento si rivitalizzò (Manifesto dell'aeropittura, 1929). Il futurismo interessò la letteratura, la pittura, la scultura, l'architettura, la musica, il teatro, il cinema, la pubblicità e le arti visive applicate. Sul piano della tecnica artistica, il futurismo elabora il concetto di dinamismo plastico, che si concretizza nella rappresentazione della velocità e dei corpi in movimento e quello di simultaneità plastica, che consiste nel compenetrare nello stesso istante sensazioni diverse di tempo e di spazio (U. Boccioni). I massimi esponenti furono F. T. Marinetti, A. Palazzeschi e A. Soffici, per la letteratura, C. Carrà, G. Balla, L. Russolo, U. Boccioni (che ne fu il teorico) e G. Severini per le arti figurative. In architettura fu importante l'opera di A. Sant'Elia, nella scenografia la figura più rappresentativa fu E. Prampolini.
MARINETTI(Alessandria d'Egitto 1876-Bellagio 1944) Scrittore e fondatore del futurismo. Studiò nelle università di Alessandria d'Egitto, Parigi (dove si laureò in lettere nel 1891), Padova e Genova (dove conseguì la laurea in giurisprudenza nel 1899). Nel 1905 fondò a Milano, in collaborazione con Sem Benelli, la rivista internazionale Poesia. Visse a lungo a Parigi dove nel 1909 pubblicò sul quotidiano Le Figaro il manifesto del futurismo. Il Manifesto esaltava la velocità, l'energia, il coraggio e persino la guerra, rifiutando la tradizione e il conformismo, attaccando i musei e le università come simbolo di una cultura superata. Dopo la pubblicazione del Manifesto, Marinetti fu attivissimo organizzatore di serate e iniziative futuriste, elaboratore di programmi e manifesti. Le prime opere furono scritte in francese (I vecchi marinai, 1897; La conquista delle stelle, 1902; Distruzione, 1904). Politicamente orientato al nazionalismo e all'interventismo (con i testi di propaganda Guerra sola igiene del mondo), fu ferito e decorato nella prima guerra mondiale e fu tra i sostenitori più autorevoli del fascismo (a cui si iscrisse nel 1919). Seguì i fascisti anche nell'ultima avventura della Repubblica sociale. Le principali opere sono i romanzi Mafarka il futurista (1910), La battaglia di Tripoli (1912), i versi Zang Tumb Tumb (1914), Teatro sintetico futurista (1916), Poema africano (1937). La parte più significativa della sua produzione va individuata nei manifesti e nei vari testi programmatici, nei quali mostra tutta la sicurezza del suo piglio distruttivo, la sua passione per l'energia e la lotta. Marinetti ricorre a una continua accelerazione linguistica, che spesso diventa vuota retorica. La sua produzione creativa, ritenuta per lo più di scarso valore letterario, presenta varie contraddizioni rispetto ai programmi da lui stesso formulati.
Movimento
letterario italiano. 2 Carattere di un'opera artistica che si propone di
essere il più aderente possibile alla realtà.
. Movimento letterario e artistico che si sviluppò in Italia nella
seconda metà del XIX sec., caratterizzato dalla volontà di raffigurazione
obiettiva del vero e della natura. Corrente letteraria italiana della seconda
metà del XIX sec., influenzata dal naturalismo francese e legata alla diffusione
in Italia del positivismo. Le sue linee furono tracciate dal Verga in Nedda
(1874) e nella prefazione de I Malavoglia (1881). Il verismo ha come
caratteristiche principali la descrizione di ambienti e di personaggi umili e
delle problematiche regionaliste, la trattazione impersonale del racconto,
perseguita mediante l'uso del discorso indiretto, l'uso di uno stile che varia
a seconda dell'ambiente rappresentato e che utilizza anche il dialetto, la
descrizione della realtà come processo continuo e successione di eventi
dominati dai vincitori e subiti dai vinti. Il verismo fu teorizzato da L.
Capuana che spinse al massimo l'eliminazione di ogni soggettivismo in favore
della neutralità ideologica, dell'impersonalità, dell'indifferenza
sentimentale. Fu così sancita una presa di posizione fondamentalmente diversa
dal movimento francese (É. Zola) e dal suo impegno civile e politico. La scelta
di descrivere ambienti popolari non è una scelta politica, ma avviene solo per
il fatto che in questi ambienti i sentimenti, i conflitti e le passioni sono
genuini, trasparenti e non mascherati come succede negli ambienti della
borghesia. Il modello dello stile verista è costituito da G. Verga che con una
lingua arricchita di apporti dialettali riesce a dare la sensazione che siano i
personaggi stessi a raccontarsi. I critici hanno distinto due varianti di
verismo, il verismo settentrionale, nel quale prevalgono soggetti operai
e piccolo-borghesi, e verismo meridionale, nel quale ricorrono soggetti
rurali. I suoi massimi esponenti, dei quali si indica l'opera più
significativa, furono, a nord, E. De Marchi (1851-1901: Demetrio Pianelli,
1890), M. Pratesi (1842-1921: L'eredità, 1889), R. Fucini (1843-1921: Le
veglie di Neri, 1884) e R. Zena (1850-1917: La bocca del lupo,
1892); a sud, F. De Roberto (1861-1927: I Viceré, 1894), G. Deledda
(1871-1936: Elias Portolu, 1903), S. Di Giacomo (1860-1934: Assunta
Spina, 1909), G. Verga (1840-1922: Mastro don Gesualdo, 1889), L.
Capuana (1839-1915: Il marchese di Roccaverdina, 1901), M. Serao
(1856-1927: Il ventre di Napoli, 1884).
Sono anche da ricordare i risultati del verismo: nel teatro, con G. Giacosa, Come
le foglie, 1900),
nella musica, con P. Mascagni, Cavalleria rusticana, 1889), nella
pittura, con i macchiaioli (G. Fattori, T. Signorini, S. Lega, A. Cecioni, G.
Abbati) e con un gruppo di altri pittori, tra i quali si citano A. Pusterla
(1862-1941: Alle cucine economiche di Porta Nuova, 1887), F.
Zandomeneghi (1841-1917: Gli spazzini di campo San Rocco, 1869), F. P.
Michetti (1851-1929: Voto, 1883).
La sua vita è stata caratterizzata dal desiderio di un'esistenza inimitabile, sempre sopra le righe, mai banale, volta all'affermazione della sua personalità.
Egli non accetta di essere una persona qualunque, il poeta vuole essere qualcuno, vuole lasciare un'indelebile traccia della sua esistenza : ciò richiama le tesi fondamentali del mito del superuomo , apprese da D'Annunzio in maniera semplice e indiretta attraverso la mediazione degli spettacoli di Wagner.
Molteplici sono i generi presenti nell'opera dannunziana: poesia lirica, poesia epica, romanzo, novelle, teatro, scritti di critica, cronaca giornalistica, prosa d'arte.
Ciò potrebbe dare un'impressione di dispersione nella sua produzione ; in realtà percepiamo grande apertura mentale, verso i più svariati campi.
Egli sa, infatti, combinare modelli antichi e moderni rielaborandoli secondo le proprie strategie.
Una costante di tutta l'opera dannunziana è la sua aderenza all'estetismo decadente, nei suoi due aspetti prevalenti.
Per lui, l'estetismo è aspirazione ad un'esistenza di eccezione, al vivere inimitabile, a fare della propria vita un'opera d'arte, infatti, egli aspirava ad una fusione tra vita e scrittura: la sua vita assume pose estetizzanti, la sua arte ricalca di continuo esperienze esistenziali.
Estetismo è anche culto delle sensazioni, culto del corporeo e dell'istintivo, in senso irrazionalistico.
Il "culto" (ne era talmente convinto D'Annunzio che questa è la giusta connotazione) della sensazione tende a collocare la vita dell'uomo dentro la vita della natura assimilando l'una e l'altra; inoltre porta a frantumare la realtà , scomponendola e ricomponendola a suo piacere in oggetti senza più ordine né gerarchia.
Dall'estetismo dannunziano deriva il programma del poeta inteso come 'supremo artefice' ovvero come colui che produce gli oggetti dell'arte sottoponendoli a una lunga elaborazione tecnica.
L'arte è per D'Annunzio il prodotto di una mente superiore.
Egli stesso si definiva il 'magnifico', creatore di immagini, attraverso suoni e parole ricercatissimi.
Egli giunge ad un'idea eterna della poesia, come sottratta al tempo: per questo preferisce i termini arcaici e sottolinea i rapporti con le etimologie greche o latine delle parole che usa.
Se l'idea del poeta-artefice sembra avvicinare D'Annunzio alla tradizione classica, egli però, se ne distacca per l'indifferenza che mostra rispetto ai messaggi e ai contenuti, cui la poesia classicistica mirava : l'unico messaggio, è proprio l'assenza di messaggi, in quanto il fine dell'opera d'arte è d'imporre la propria bellezza, suscitando inebrianti sensazioni nei lettori.
La parola è tutto, sostituisce il mondo.
D'Annunzio si propone quindi come intellettuale di tipo nuovo e ciò diventa un fenomeno di costume.
Tutte queste riflessioni si riversano nelle sue opere.
Il primo romanzo dannunziano, "Il piacere " (1889), nasce nel clima della raffinata e mondana esperienza romana e segna la compiuta espressione del decadentismo italiano.
L'autore si autoritrae con ingenuo entusiasmo nel giovane Andrea Sperelli, che disprezza ogni forma di vita volgare.
Dominato dall'artificio e dalla finzione, Andrea instaura un rapporto ambiguo, ora passionale, ora distaccato, con gli oggetti e le persone che lo circondano.
L'autore orienta i lettori verso una sbalordita ammirazione per il bello di cui il romanzo offre molteplici immagini, dagli ozi del protagonista agli scorci monumentali di Roma e dell'ambiente circostante.
Il "Trionfo della morte" (1894) è narrato in terza persona con il solito stile fastoso e musicale.
Dominano i toni cupi e tutto è pervaso da un senso funereo di orrore.
Con questa opera D'Annunzio vuol creare la prosa moderna in cui si fondono scrittura d'arte e lirica, e in cui sono prevalenti i valori formali ed autobiografici.
Il capolavoro del D'Annunzio lirico è costituito dalle "Laudi".
Motivo unitario delle 'Laudi' è la cadenza musicale che esprime in forma di canto continuo l'istintiva felicità originata dalla funzione corporea con la natura.
Un esempio eloquente è la poesia "Temporale", dove D'annunzio si immerge completamente nella natura, applicando tutte le regole e le strutture prima spiegate.
L' "Alcyone", terzo libro delle 'Laudi', è giudicato il capolavoro della produzione poetica dannunziana: in una serie di ottantotto componimenti di metro e lunghezza varia, lo scrittore celebre la grande estate, da giugno a settembre 1902, e canta soprattutto la parabola discendente della stagione estiva, il suo prossimo esaurirsi nell'autunno e il progressivo venir meno dell'energia vitale e dell'ottimismo.
Il poeta si immerge nella natura e si dissolve in essa: ne interpreta le voci segrete, interroga le misteriose presenze femminili che essa evoca, modula la propria voce all'unisono con l'infinita varietà dei toni e delle voci della pioggia, del mare, del vento.
In Alcyone le cose sfumano per lasciare il posto alla musica dei suoni.
La vita di D'Annunzio può essere quindi considerata una delle sue opere più interessanti: secondo i principi dell'estetismo, bisognava fare della vita un'opera d'arte e D'Annunzio fu costantemente teso alla ricerca di questo obiettivo.
Luigi Pirandello scrisse "Il fu Mattia Pascal" a Roma, vagliando la moglie colpita da paresi alle gambe, d'origine nervosa. Fu quello un periodo particolarmente brutto per l'autore in quanto arrivavano notizie preoccupanti da Girgenti sulla condizione economica della famiglia. Ed è proprio in questo clima, in cui Pirandello raggiunse momenti di disperazione, che nasce "Il fu Mattia Pascal". E' l'opera che rappresenta l'autore nella pienezza della sua dolorosa visione del mondo, in un momento in cui egli sente il bisogno di ribellarsi alla vita e alla società, e di iniziare un'esistenza diversa. Con questo romanzo si ha l'accentuazione del fondo pessimistico e doloroso dello scrittore, ma anche uno sviluppo delle sue qualità letterarie. Compaiono, infatti, numerose pagine bellissime in cui si ha la vera sensazione della scena che lo scrittore vuole descrivere. Non sono trascritti i fatti, ma i moti ed i flussi della coscienza, e i labirinti della psiche proprio perché della realtà si ha ora una visione frantumata e lacerata. Per quello che riguarda lo stile si nota nel romanzo un susseguirsi di dialoghi e monologhi nati dall'esigenza di "trovare una forma che sia mobile come mobile è la vita", inoltre Pirandello ricorre anche a costruzioni sintattiche ed a vocaboli propri del dialetto siciliano.
<< Una delle poche cose, anzi, forse la sola ch'io sapessi di certo, era questo: che mi chiamavo Mattia Pascal>>.
Con questa frase Pirandello comincia il romanzo, è certo di chiamarsi Mattia Pascal, ma non di esserlo. Potrebbe sembrare una piccola differenza, in realtà è il nucleo della filosofia pirandelliana, per la quale " noi siamo, nessuno, e centomila, tanti quanti sono coloro che ci conoscono" e non possiamo quindi dire di "essere" nel senso assoluto del termine. Il romanzo, quindi, verte tutto su quella profonda incapacità di coincidere con noi stessi in quanto non vi è una relazione stabile tra ciò che siamo in realtà e tra quelli che gli altri vogliono che siamo, cioè esiste una maschera attribuitaci da altri cui dobbiamo sottostare e che ci rende la vita difficile, ma se noi abbandoniamo questa maschera, vivere diviene impossibile. Questo dissidio interiore tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere è sempre presente nei personaggi pirandelliani e si manifesta con un difetto esteriore: l'occhio strabico di Mattia Pascal.
Mattia, prigioniero della sua maschera per una << sinistra partecipazione del caso>>, Intravede la possibilità di una vita nuova, di una nuova e insperata condizione di libertà esistenziale, la possibilità di uscire finalmente dalla prigione di sempre e divenire soggetto, l'artefice delle proprie scelte. Ma il nuovo Adriano Meis deve ben presto costatare l'ineluttabilità e l'irreversibilità delle convenzioni sociali, che via via stringono la fila intorno a lui. La nuova vita non è più autentica della prima, è anch'essa un esistenza fittizia, assurda, una trappola che non gli consente alcuna realizzazione, Adriano è un morto vivo. Egli allora decide di tornare ad indossare la maschera di Mattia Pascal, come tentativo ulteriore d'estrema affermazione d'identità. Purtroppo a Miragno si dissolvono le ultime illusioni, perché Mattia avverte concretamente di non essere nessuno per gli altri, di essere definitivamente morto da quando lo hanno riconosciuto, cadavere nella gora di Stia. Il suo sogno di rinnovamento è fallito, egli ha anzi subito una perdita irreparabile: "L'identità"
LA TRAMA
Mattia Pascal, impiegato nella biblioteca comunale di Miragno, in Liguria, conduce una vita modesta, tormentato dai continui litigi con la suocera e con la moglie Romilda. Un giorno, irritato per un nuovo contrasto, fugge da casa, deciso ad imbarcarsi a Marsiglia per l'America. Capitato però a Montecarlo, va a tentare la fortuna al casinò e insperabilmente vince una grossa somma. Poco dopo, legge su un giornale che al suo paese è stato trovato il cadavere di un uomo annegato e che la gente, compresa la moglie e la suocera, ha creduto di riconoscere in quel corpo proprio lui, Mattia Pascal. Dunque, per gli altri era morto e Mattia ha l'idea di assecondare questa credenza, facendosi un nuova vita diversa da quella finora vissuta. Perciò elimina la barbetta che aveva sempre portato, si fa ricrescere i capelli e si fa chiamare con un altro nome, Adriano Meis. Così, con i soldi guadagnati al gioco, intraprende una lunga serie di viaggi e l'ultimo dei quali lo porta a Roma, dove troverà alloggio in una pensione. Ma la vita serena e spensierata che aveva sempre desiderato, dura ben poco, proprio a causa della sua nuova identità.
Innamoratosi della figlia del proprietario della pensione, Adriana, non può sposarla, perché gli mancano i documenti intestati ad Adriano Meis; derubato, si trova nell'impossibilità di denunciare il ladro; schiaffeggiato, non può sfidare a duello chi lo ha offeso. L'esistenza gli si fa ogni giorno più problematica e difficile e l'equivoco delle due vite incomincia a divenire insopportabile. Decide allora di ridiventare Mattia Pascal, e l'unico modo per farlo è quello di simulare il suicidio di Adriano Melis. Così , si fa ricrescere la barbetta, e raccorciare i capelli. A questo puto torna al suo paese, ma qui trova che la moglie si è risposata con il suo migliore amico d'infanzia ed ha avuto anche una bambina. Perciò lì non c'è più posto per lui, è escluso dalla vita di tutti, agli occhi della società è un morto, per l'appunto il fu Mattia Pascal.
Dopo aver deposto dei fiori su quella che sarebbe dovuta essere la sua sepoltura, si ritira a vivere con una vecchia zia, scrivendo le sue memorie e sopportando da solo ed in silenzio la pena del vivere.
MASCHERE
Fondamentale nelle opere di Pirandello è il concetto delle maschere. Nelle sue opere la funzione e l'inganno della vita sociale diventano <<maschere>> con le quali ognuno si presenta agli occhi degli altri. Per Pirandello, infatti, la vita non è altro che << un'enorme pupazzata senza nessuna spiegazione>>. Il reale e l' IO umano non sono conoscibili dall'uomo in quanto la realtà è ineluttabilmente filtrata da chi tenta di percepirla. Non parla quindi di unicità del reale ma di molteplicità dello stesso. Per questo ogni uomo è insieme uno, nessuno e centomila. Dato che esistono tante realtà , devono necessariamente esistere tanti modi di "vedere" la stessa persona che non sarà, quindi, più uno ma centomila . Proprio per questa mancanza di unicità c'è l' annullamento della persona che diventa così nessuno. Tutto questo è evidente nel romanzo "uno, nessuno e centomila" dove il protagonista Vitangelo Moscarda (un uomo qualsiasi) si accorge di non essere per gli altri quello che aveva da sempre creduto d'essere o meglio quello che lui credeva di essere e che non poteva a sua volta scorgere il suo vero IO ma quello che lui si vedeva era una delle centomila maschere. Ogni uomo è quindi chiuso dentro delle maschere dategli dalla società, dagli altri o anche da se stesso.
La produzione narrativa di Pirandello nasce alla fine del Verismo ma si distacca da questo perché ha una visione amara e paradossale della vita e un'ironia corrosiva, tutti elementi alla base della sua letteratura. Pirandello è attento all'individuo, alla sua angoscia di uomo solo, umiliato e offeso dagli altri e dalla vita. I suoi personaggi sono piccoli borghesi che oppongono allo sfacelo della società un desiderio disperato di vivere e di essere qualcuno.Questo desiderio si esaspera in gesti bizzarri che portano alla follia. All'origine di questo atteggiamento c'è la consapevolezza d'una frattura storica e della disgregazione totale della civiltà romantica e borghese. Essa gli appare diretta a mascherare il crollo dei propri ideali che rivelano il vuoto e la falsità di un mondo fondato sull'apparire e non sull'essere. L'abbandono alle correnti irrazionalistiche e ai falsi miti dell'eroismo superumano aveva infranto il senso della continuità della storia che si fonda sulla conquista dei valori spirituali comuni e sulla possibilità di avere una comunicazione fra più individui.e' nata l'incomunicabilità o alienazione dell'uomo moderno che è solo in un mondo con parvenze assurde ed effimere, negato non solo al colloquio con Dio e con gli uomini ma anche con se stesso. L'arte di Pirandello mette in evidenza quest'angosciosa crisi non indagando , però, sulle cause sociali e morali della solitudine ma sul disperato dibattersi dell' IO che tenta di rendersi vivo ma si ritrova travolto dal caos della vita.
Nell'universo e nella società tutto appare relativo, anche la nostra persona, che presenta una molteplicità di atti e di gesti che cambiano facilmente. Ciascuno di noi è uno e centomila quindi nessuno.Invano cerchiamo di dare una forma, una personalità ed una coscienza che serve a noi e agli altri per definirci.poiché questi schemi vengono travolti quando il dolore, la morte e il destino distruggono le nostre illusioni mettendo a nudo la vera sostanza della nostra vita. La scoperta del vuoto è sempre presente nell'opera pirandelliana. .Il teatro fu per Pirandello il simbolo della nostra vita, scena irreale, dove noi recitiamo centomila parti simili a personaggi effimeri. Questa corrispondenza è molto presente in "6 personaggi in cerca d'autore", dove i personaggi chiedono con angoscia che qualcuno completi l'opera lasciata in tronco e li faccia ,quindi, vivere realmente con una propria personalità e non come figure appena abbozzate quali esse sono.Aspettano una mente che dia loro una forma e li salvi dalla dispersione nel relativo e di conseguenza dal dolore di non avere una forma.Questi personaggi sono come l'uomo. Anch'esso è infatti creato da un autore che lo ha abbandonato nel relativo, costringendolo a recitare senza fine.
L'arte di Pirandello è caratterizzata, spesso esageratamente, dalla presenza del paradosso. I suoi personaggi si agitano in una continua disputa con se e con gli altri denunciando l'artificiosità di tutte le nostre costruzioni spirituali, la vanità delle certezze. La tragedia dell'uomo pirandelliano è il suo essere per il nulla, il destino paradossale e doloroso di chi ha in se una scintilla divina, un'ansia di vanità e di eternità che però vede disfarsi in un mondo futile di apparenze. Il suo dramma consiste nel non riuscire a placarsi nell'insensibilità delle cose ed è in questa insensibilità che scopre la vera dignità dell'uomo che lo spinge a inchinarsi sulla sua pensa con dolente pietà. L'importanza dell'opera di Pirandello consiste nella problematica spirituale che viene poi approfondita dalla filosofia dell'Esistenzialismo che si diffonde fra le 2 grandi guerre.
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