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La parola ermetismo sta a
indicare il carattere chiuso (ermetico, appunto), arduo e riservato a pochi
delle opere che si possono ricondurre all'interno di questo movimento.
I poeti ermetici vivono intensamente l'esperienza della solitudine, dell'incertezza,
del male di vivere e puntano per comunicarla, sull'essenzialità,
della parola e sul gioco delle analogie.
La poesia ermetica è concentrata, spesso difficile, ignora i normali nessi
logici e sintattici e vuole esprimere l'inesprimibile.
I principali poeti ermetici sono Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo e
Eugenio Montale.
Eugenio Montale nasce a
Genova nel 1896, ultimo di sei fratelli di una famiglia di commercianti. Per
motivi di salute è costretto a interrompere gli studi regolari e consegue il
diploma di ragioniere da autodidatta. Nel 1917 partecipa come ufficiale alla
prima guerra mondiale combattendo in Trentino. Trasferitosi a Firenze nel 1928,
è nominato direttore di un prestigioso istituto, il Gabinetto
scientifico-letterario Vieusseux, che è costretto a lasciare dieci anni dopo
per non aver voluto aderire al fascismo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si
trasferisce a Milano, dove lavora come redattore del Corrire della Sera fino al
1973. Nel '75 riceve il premio Nobel per la letteratura.
Tra le sue principali opere poetiche ricordiamo: Ossi di seppia (1925), Le
occasioni (1939), La bufera e altro (1956). Muore a Milano nel 1981.
Secondo Montale nè la poesia nè il poeta devono esprimere la ricercatezza,
l'eccezzionalità, l'effetto speciale (come, ad esempio, abbiamo visto nella
poesia futurista o in alcune liriche di D'Annunzio); 'la poesia,'
dice Montale, 'è una delle tante possibili positività della vita. Non
credo che un poeta stia più in alto di un altro uomo che esista, che sia
qualcuno'.
Dunque il poeta è una persona comune che ha un rapporto con le cose concrete e
con il mondo e che del mondo percepisce il dolore o l'assurdità; non ha
soluzioni da proporre o messagi da comunicare, il poeta è solo un testimone che
esiste. Scrive ancora Montale: 'La poesia non è fatta per nessuno / non
per altri e nemmeno per chi la scrive. / Perchè nasce? Non nasce affatto e
dunque / non è mai nata. Sta come una pietra / e un granellino di sabbia.
Finirà / con tutto il resto'.
Con queste parole il poeta ci dice dunque che la poesia esiste, allo stesso
modo di una pietra o di un granellino di sabbia, da quando esiste il mondo.
Nessuno l'ha creata o la crea.
Molti esaltano l'era contemporanea, spesso identificando le scoperte della scienza e l'invenzione di nuove, efficientissime tecnologie col progresso civile, culturale e sociale dell'umanità. In Elogio del nostro tempo Montale, fingendo di associarsi al coro dei lodatori, sottolinea invece due aspetti veri quanto drammatici del mondo attuale: la fredda violenza e la rapidità con cui tutto viene consumato. Poi, con ironia bruciante, torna alle lodi di questo modo sempre più gonfio di sè, ricordando però, come un presagio, la favola della rana e del bue.
Non si può esagerare
abbastanza
l'importanza del mondo
(del nostro, intendo)
probabilmente il solo
in cui si possa uccidere
con arte e anche creare
opere d'arte destinate a vivere
lo spazio di un mattino sia pur fatto
di millenni e anche più. No, non si può
magnificarlo a sufficienza. Solo
ci si deve affettare perché potrebbe
non essere lontana
l'ora in cui troppo si sarà gonfiata
secondo un noto apologo la rana.
Ne La solitudine La 'famiglia' del poeta è costituita da una 'corporazione' di piccioni che beccano le briciole su un divano, contendendole a un merlo. C'è incece chi, di famiglie - di vere famiglie - ne ha una o due intere: un vero spreco, in confronto alla solitudine del poeta!
Se mi allontano due
giorni
i piccioni che beccano
sul davanzale
entrano in agitazione
secondo i loro obblighi corporativi!
Al mio ritorno l'ordine si rifà
con supplemento di briciole
e disappunto del merlo che fa la spola
tra il venerato dirimpettaio e me.
A così poco è ridotta la mia famiglia.
E c'è chi n'ha una o due, che spreco ahimè!
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