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Enrico e la sua follia: unica via di fuga dalla realtà
Scritta nel 1921, la commedia fu rappresentata per la prima volta il 24 febbraio 1922 al teatro Manzoni di Milano, e costituisce (insieme a "Sei personaggi in cerca d'autore") una delle opere più apprezzate dal pubblico.
L' "Enrico IV" è la recita di una recita. Finzione di una finzione, forse per questo appare così autentica. Enrico, il personaggio della tragedia, mette in scena sul palco il perpetuarsi di una situazione storica imbarazzante: l'umiliazione del ventiseienne imperatore di Baviera, costretto a un'estenuante attesa, nell'inverno del 1077, fuori dalle mura di Canossa, mentre Matilde di Toscana, nel ruolo inevitabilmente ambiguo del negoziatore, si adopera presso il Papa Gregorio VII, per ricucire lo strappo fra Chiesa e Impero. Questo dramma, che nella realtà storica si consumò in due giorni, nella tragedia pirandelliana dura vent'anni.
"Circa vent'anni addietro, alcuni giovani signori e signore dell'aristocrazia pensarono di fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una "cavalcata in costume" in una villa patrizia: ciascuno di quei signori s'era scelto un personaggio storico, re o principe, da figurare con la sua dama accanto, regina o principessa, sul cavallo bardato secondo i costumi dell'epoca. Uno di questi signori s'era scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile, s'era dato la pena e il tormento d'uno studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva per circa un mese ossessionato". Con queste parole Luigi Pirandello, in una lettera del 1921, presentava l'antefatto della nuova tragedia che stava scrivendo al grande Ruggero Ruggeri, l'interprete che desiderava, e che ottenne, nel ruolo principale.
Nel corso della cavalcata Enrico, che monta accanto alla bella ma frivola Matilde, di cui è innamorato, cade da cavallo, rimanendo intrappolato nel personaggio che sta impersonando. Rinchiuso in un esilio dorato dalla sorella, insieme a quattro servitori che si prestano al giuoco nel ruolo di consiglieri segreti, l'uomo porta avanti la bizzarra rappresentazione che, con il tempo, assume i tratti di una normale quotidianità. Passano vent'anni e la sorella di Enrico, che non si è mai capacitata della pazzia del fratello, sul letto di morte richiede che gli amici rappresentino ancora una volta la scena, per mettere il malato di fronte al tempo trascorso e strapparlo alla follia. Questo è il piano che i cinque personaggi hanno in mente quando si portano alla villa dove è rinchiuso Enrico: Matilde, ormai donna matura; sua figlia Frida, immagine vivente della Matilde di un tempo; Carlo Di Nolli, figlio della sorella di Enrico e fidanzato di Frida; Tito Belcredi, allora rivale di Enrico e oggi amante di Matilde e il medico che ha ordito il piano.
Nel primo atto, al cospetto di Enrico, Matilde, Belcredi e il medico, travestiti in abiti storici, subiscono la conversazione di Enrico che, pur confabulando di vicende riguardanti un ambito di 850 anni addietro, li confonde con l'attualità vaga delle sue affermazioni.
Una parte del secondo atto è passata così dal gruppo a interpretare e cercare contraddizioni e conferme nelle tranquille parole del malato. Egli ha chiarito che erroneamente solo la sua vita è considerata quella di un essere bloccato e mummificato nella storia: 'Vi sembra una burla anche questa, che seguitano a farla i morti la vita ? - Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è davanti a voi. Un'alba. Questo giorno che ci sta davanti - voi dite - lo faremo noi! Sì? Voi? E salutatemi tutte le tradizioni. Salutatemi tutti i costumi! Mettetevi a parlare! Ripeterete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei morti.'
Nel III atto Enrico IV rivela di non esser pazzo, di esserlo stato davvero e aver poi finto, per molto tempo. Perché? Perché un giorno, riacquistato il senno, 'm'accorsi che sarei arrivato con una fame da lupo a un banchetto già bell'e sparecchiato.'
Perciò egli può capovolgere il rapporto normalità/follia: 'Sono guarito signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; Il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla, la vostra pazzia.'
In questo dramma il protagonista utilizza tutte le difese possibili contro la realtà, considera gli altri soltanto come strumenti per dare un senso alla sua illusione. Ma questo schermo si rompe quando si innamora: non accetta più la solitudine, è costretto a mischiarsi con gli altri e diventa un "pover'uomo". La dialettica tra realtà e finzione si complica: la finzione è pazzia, e la realtà è finzione della pazzia.
Ciò che si intuisce dal racconto è che l' "Enrico IV" ha continuato a fingersi folle perché, dopo aver perso così tanti anni della sua vita (ventidue), ha capito che non si sarebbe mai potuto rimpossessare del suo posto nella società che nel frattempo era progredita, lasciandolo indietro. Il tema dominante è infatti uno solo: la scoperta dell'invecchiamento delle cose e di se stessi. È questa scoperta che convince Enrico, nel momento in cui rinsavisce, a non ritornare più alla sua vita autentica. Il dramma "storico" diventa il dramma della storia, del tempo che non si può recuperare, neppure con la fantasia. Non è un caso che il tema dominante sia la pazzia, malattia senza collocazione temporale. L'individuo è isolato completamente: se non può vivere nel presente, non riesce a ricostruire il passato né a proiettarsi nel futuro.
Nel rifiuto di Enrico IV a tornare alla normalità, c'è il rifiuto della vita con le sue assurdità, le sue ipocrisie, le sue buffonate, le sue passioni, le sue vanità, le sue menzogne.
Egli ha compreso l'esistenza della maschera di folle che la società gli aveva attribuito, e ha capito che quella era l'unica maschera che avrebbe mai potuto indossare: "Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare".
Ecco il privilegio dei pazzi: esser liberi di far essere ciò che non può essere (comunemente, nel così detto mondo normale), di creder vero ciò che non è vero e bearsi della loro libertà; dal momento che una verità non esiste e che noi, per poter vivere in una trama di rapporti sociali, dobbiamo fingerci che la verità sia una (la convenzione, il pregiudizio) i pazzi sono felici, perché schiavi di nessuna verità che non sia tutta loro. Sono liberi di inventare se stessi ogni giorno e privi del bisogno del certo, che assilla noi "non pazzi", costringendoci a fissarci in un ruolo e a sperimentare la tragedia del dover essere uno, mentre si vorrebbe essere tanti ovvero si vorrebbe essere uno in misura appagante.
Il personaggio di Enrico è stato visto per lo più come un personaggio positivo, che sceglie di auto-emarginarsi, piuttosto che integrarsi in una società conformista.
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