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Emilio praga - fiabe e leggende - olimpio, i due poeti, i tre amanti di bella, paesaggi




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EMILIO PRAGA




FIABE E LEGGENDE







OLIMPIO

A GIOVANNI CAMERANA










Un giorno che piovea dirottamente,

(era il pallido ottobre), e i valligiani

del mondo si perdean dentro la mota,

un giovinetto, amico mio, bizzarro

gobbo, dagli occhi stranamente neri,

questi versi cantò sotto l'ombrello:


- O padre eterno, se hai tempo da perdere

e se non dormi nei placidi cieli,

tu che ogni giorno alla turba ti sveli,

padre, una volta, una sola, a me svèlati!

Deh mi esaudisci e mi dona, o Signore,

un po' di lusso, di calma e di amore!


Voglio un giardino ove i cedri coi salici

fingan le valli dell'Etna, e del Rosa;

dove il colibrì, tra i fior di mimosa,

canti in famiglia col gufo e la rondine;

dove, coperto di un'ellera eterna,

mi sembri un chiosco la casa materna.


Voglio una donna cui tutte somiglino

le cento donne a vent'anni sognate;

voglio una donna di tempre infocate,

che sia la santa, che sia la Proserpina,

e vinca in arte di teneri ludi

quante hai lassù schiere d'angioli nudi!


Dammi la calma, la calma degli angeli

quando han cenato e che in cerchio fumando,

dentro le piume dell'ali soffiando

globi di ambrosia da pipe di zucchero,

dicon fra lor : ' Siamo un capolavoro!'.

Deh fa' che tale io mi creda con loro!


Oh schiudi, schiudi il celeste deposito

dei puri olezzi, dei raggi serbati

ai fiori e agli astri che ancor non son nati!

Sol io non valgo una viola, una lucciola?

Via! mi esaudisci e mi dona, o Signore,

un po' di lusso, di calma e di amore! -


Così cantava Olimpio, il gobbo strano.

E la pioggia cadea, colla beata

quiete degli immortali, in un monotono

metro rimando sulle fronde e i ciottoli

l'Iliade delle gocciole.


L'ombrello

di Olimpio segna sulle bianche nubi

un semicerchio che sembra la porta

di una lontana galleria nel cielo,

buia come un mister. Sono allagate

le vecchie casse dei poveri morti,

sono allagati i giovinetti nidi

degli usignuoli; un passeggier non scorgi,

per quanto è vasta la pianura.


I carri

dei contadini sotto i porticati

se ne stan colle braccia in su rivolte

come turchi preganti; i focolari

prestano un lume intermittente e pallido

alle finestre, e il genia campagnuolo

sembra da quelle osservar tristemente

la rovina dei fiori.


E Olimpio canta:

- I miei giorni in un sogno dileguano;

son già lungi, ben lungi i più belli!

Come un volo - di uccelli - che emigrano

e che solo - precipita in mar.


Li ricorda? sa forse l'Oceano

se le piume avean d'oro lucenti,

se eran belli - i concenti - di lagrime

degli uccelli - che ha visti annegar?


I miei giorni in un sogno dileguano!..

Presto un gobbo di meno avrà il mondo;

e in un buco - profondo - ma piccolo

qualche bruco - la terra di più!


O natura, se nascono i salici

dalle salme dei gobbi, ah perdio!

così torci - tu il mio - che mi veggano

rane e sorci - guardando all'insù


Mi ameranno: il tranquillo rigagnolo

spargerò d'ombre tremule e fresche;

degli amici - alle tresche - di foglie

cantatrici - un idillio farò.


Chi sa! forse l'amore oltre il tumulo

ai mutati viventi non falla:

qualche errante - farfalla - può nascere

qualche amante - che il gobbo sognò! -


Così cantava Olimpio il gobbo strano:


E intanto i ceruli

monti lontani

scotean la nebbia

dai dorsi immani,

e un rezzo tiepido

giunto - in quel punto

sapendo niente - dall'Orïente,

dalle piramidi,

dai templi eccelsi,

scotea fra i gelsi,

modestamente,

l'ultime gocciole

che, lente lente,

cadean sui prati,

simili a lagrime

d'occhi - malati.

Fiocchi - di lana

parean le nuvole,

e una campana

lontana - al dubbio

del viatore

dicea: tre ore


' Veh, un gobbetto! Oh il bel gobbetto

Dal più folto di un boschetto

questo grido a un tratto uscì.

E il gobbetto, il bel gobbetto,

cessò il canto e impallidì.

' Oh per Bacco! dentro il sacco

porti un putto, porti un pacco,

o una tromba da suonar?

Oh per Bacco! giù quel sacco,

lo vogliamo esaminar '.


Ed ecco dal folto compare un bel volto,

e un altro lo segue, da un'iride avvolto

di lunghi capelli che sembrano d'or:

son due giovinette che usciron dal folto,

soffuse le guance di vago rossor.


Han fior sulla vesta, han fior sulla testa,

li han forse cosparsi per irne a una festa?

Van forse a un altare per farsi adorar?

Han fior sulla testa, han fior sulla vesta,

e il povero Olimpio sta muto a guardar.


' Belle dame - dice poi -

i tesor del sacco mio

se volete esaminar,

le padrone siete voi;

ma lasciate ch'io v'osservi

che son ossa e che son nervi

che vi occorre di slacciar.


Con quegli occhi celestiali,

con quel labbro, con quel crine,

con quel seno ammaliator,

so che molti e molti mali

si pon fare, e esperte siete,

ché già punto entrambe avete

questo povero mio cor.


Ma però se occulte piaghe,

se dolorò senza lamenti

non vi basta di crear;

né il pensier vi rende paghe

che ridendo assassinate,

e che sempre, ove passate,

resta un'anima a pregar;


che, di notte, a voi pensando,

chi vi ha viste alla mattina

ha l'inferno al capezzal;

e, alla coltrice parlando,

può giocarsi il posto in cielo,

e infelice e bieco e anelo,

come l'angelo del mal,


risvegliarsi il giorno dopo

pien di affanno e di memorie

qual chi riede da lontan;

se non bastano allo scopo

per cui Dio vi ha poste in terra

queste vittime di guerra

già cadute o che cadran;


se il piacer già in voi ne langue,

e vi punge il desiderio

di più pratici martir;

ecco il cuore ed ecco il sangue

di un gobbetto innamorato

Il mio sacco è preparato,

non vi resta che a ferir! '.


Le giovinette risero,

e dissero fra lor:

'Questo gobbetto è lepido

in parola d'onor! '.

E volte a lui: ' Sei piccolo,

però ne sai di belle;

a raccontar storielle

dinne, chi t'insegnò? '.


' Nessun, mie donne amabili:

ho imparato da me;

oh il sacco delle bubbole

por ve lo posso ai piè '.


' Deh, se ne sai, raccontane! '.

' come vi garberà '.

' Vieni in giardin: la vecchia

addormentata è già '.


Splendea la luna e al raggio

umido di rugiada,

per la fiorita strada

la comitiva entrò.


Ombrìe bizzarre Olimpio

spargea col suo gobbetto,

e le due donne stretto

se lo tenean fra lor.


Al vago lume un timido

gnomo il poeta par. . .

' Delle storielle il titolo

prima di caminciar? '.


E il gobbetto inchinandosi:

' Corbellerie stupende!

Saran Fiabe e Leggende

di spiriti e d'amor! '.


I DUE POETI










Per un sentiero a margini

di gigli e di roveti,

un lungo stuol precedono

due giovani poeti;

non hanno al crin l'olimpico

raggio del greco Apollo,

non l'arpa ad armacollo,

perché lo stuoli li seguita

fra i gigli e fra i roveti?

Lo stuol lo ignora e mormora:

quei due, son due poeti!


E meste donne, e vergini

dagli occhi innamorati,

e giovinetti pallidi

di larve innebriati,

e vecchi malinconici

pieni di antiche storie,

belli di antiche glorie,

risa mescendo e lagrime,

fra i gigli e fra i roveti,

col plauso e la bestemmia

seguono i due poeti.


L'un canta: - I dì declinano,

la creazione è stanca;

un immenso sbadiglio

il vecchio Adamo abbranca;

la vetustà dei secoli

piange nell'universo,

e, in alta noia immerso,

fra i dormienti arcangeli,

Dio nell'azzurro io scerno

che raccapriccia all'orrida

idea d'essere eterno.


Desolazione e tenebra,

ecco il nuovo retaggio!

Si fan di gelo i crateri,

muor sulle fronti il raggio;

onta all'amplesso, o vergini!

Maledetti i neonati!

Perano i fior sui prati,

e, coperta di cenere,

l'umanità languente

si dissolva nei torbidi

vapor dell'occidente! -


E l'altro canta: - Vivere

è uno scoppio di riso;

il mondo è un manicomio

che inneggia al paradiso!

Vedete i fior? Oh lagrime

della occulta allegrezza,

e la terra si spezza

perché ci dican gli alberi

che giù nel tenebrore

non si cessa di ridere,

e si fa ancor l'amore!


Vecchi pensosi, e vecchie

dimesse, usciamo al sole;

scordiamo i dì che furono

per intrecciar carole;

e intorno a voi si accoppiino

le giovinette razze;

proli beate e pazze

escan dai fianchi indomiti

dei forti e delle belle;

e presto andrem nell'aria

a dischiodar le stelle! -


E il primo ancora: - Oh l'Ellade,

la Venere di Milo!

Splendor, melodi, effluvii

dall'Ellesponto al Nilo!

O Memfi, o Babilonia!

Gioite ancor dal nulla;

giganti della culla,

ecco i pigmei del feretro!

Questa che si dissolve

ripiomberà, caligine,

sopra la vostra polve! -


E l'altro ancora: - Un brindisi,

fanciulli, all'avvenire!

E prepariamo un tumulo

ai dubbi, ai pianti, all'ire!

Siam gli eredi dei secoli

che ha fatto economia;

a noi la legge pia,

la libertà dell'anima,

il lavoro ferace,

a noi l'amore, il genio,

l'innocenza e la pace! -


Tal pel sentiero a margini

di gigli e di roveti

un lungo stuol precedono

i giovani poeti.

Però la folla attonita

va ripetendo intorno:

se l'un sorride al giorno,

se l'altro è nelle tenebre,

fra i gigli e fra i roveti,

perché la terra viaggiano

insieme i due poeti?


E meste donne, e vergini

dagli occhi innamorati,

e giovinetti pallidi

di larve inebriati,

e vecchi malinconici

pieni di antiche storie,

belli di antiche glorie,

dicon: son risa o lagrime,

son gigli o son roveti

che cogliean sul mistico

sentier dei due poeti?


Allora un vecchio incognito

apparve d'improvviso :

pareva un dell'Iliade,

tanto era grande in viso;

certo avea visto l'epoche

dei palesati arcani.

Stette, ed alzò le mani;

i due si inginocchiarono,

e quell'immenso stuolo

fu tutto muto e immobile

in un momento solo.


- Dalle regioni eteree,

dai sempiterni campi

dove i Ver sono oceani,

dove le Idee son lampi,

piova su te, miserrima,

cieca turba, la luce:

è Amor che ti conduce!

É il divino carnefice

che han questi due nel core!

- Amor che guida al tumulo,

sia gioia o sia dolore! -


Disse: e, il manto sciogliendone,

scoperse a lor due piaghe,

che nell'ombra grondavano

su quelle forme vaghe;

lo stuol seguìta avevala,

la bella coppia esangue,

fra due rivi di sangue;

e quei due rivi uscivano

a flutti, e niun li vide,

uno dal cor che lagrima,

l'altro dal cor che ride.



I TRE AMANTI DI BELLA







I


La stanzuccia di Steno stava accosciata in alto

di un palazzo affittato da un ebreo di Rialto;

palazzo in cui da secoli i topi son signori,

e che allora un patrizio, roso dai creditori,

avea, dopo molto esitare, esitato,

dicendo: va la casa, ma mi resta il casato.


Però il dì della vendita l'aule antiche degli avi

cigolando gemettero dalle tarlate travi:

gemettero d'angoscia, giacché una legge arcana

affratella le cose alla famiglia umana.

Si ricordano, e serbano l'orror della mitraglia,

nel desolato aspetto, i campi di battaglia;

certi monti han profili beffardi e minaccianti

perché memori ancora del passo dei giganti;

sospira al re lontano il velluto dei troni,

e alle nonne defunte pensano i seggioloni;

sicché il vecchio palazzo di cui vi parlo adesso

sul torbido canale pianse il passato anch'esso.

E le quattro cariatidi curve sotto il balcone,

e i putti che coll'ali sostengono il blasone,

bassorilievi e fregi lombardi e bisantini,

d'antiche gesta memori e di antichi quattrini,

presero l'aria cupa di un popolo di sasso

che più non sappia illudersi su questo mondo basso;

e il Dio delle leggende, nella facciata nera,

profeta malinconico, piantò la sua bandiera.


Oh le feste di un tempo! Conviti e serenate

e variopinte gondole alla soglia affollate!

Quando dame e patrizi, fanciulle e cavalieri,

giungevano al palazzo con paggi e trombettieri,

a esilararsi l'animo dalle cure di Stato

tra mantellini serici e gonne di broccato;

a sfoggiar la ginnastica delle battaglie mute,

degli sguardi fatali, delle parole argute;

ad affrettar l'arrivo della gioconda bara,

tra una botte di Cipro e una sembianza cara!

Dove, più di una volta, il vecchio senatore,

per il giurato premio di una notte d'amore,

vendette alla bellezza il suo voto in Consiglio;

dove il capro e la volpe, la tigre ed il coniglio,

piume al cappello e spada al fianco, in giubba o in manto,

in toga o in armatura, riso celando o pianto,

le labbra tormentavansi e si rompean le mani

in proteste di affetto svanito all'indomani;

dove, bersaglio agli occhi, ai motti ed agli inchini,

era passato, bello di gloria, il Morosini;

dove intorno al damasco dei tavoli seduti

delle nuove d'allora cianciavano i canuti:

narravano Cromvello pensoso e turbolento,

e il papa Rospigliosi pacifico e contento;

come, amando una patria, cadeva il re Sobieschi,

e amando una regina, periva il Monaldeschi;

questo ed altro narravano, mentre in crocchi geniali

le matrone alla moda leggean le Provinciali.



II


Era il buon tempo. Il Fauno, guardia del porticato,

fu la più mesta vittima dello splendor passato;

egli che nel marmoreo malinconico cuore

una notte ricorda di gioia e di dolore,

in cui, fra il lieto stuolo per la soglia accorrente,

una vaga fanciulla, pallida, sorridente,

dal padre inosservata staccossi, che volgea

parlando a un Mocenigo, su per l'ampia scalea,

e accanto al piedestallo fermossi, curïosa

e tranquilla, a osservare la sua faccia rugosa.

I begli occhi profondi, le nudità seguendo,

di uno scultor di Rodi artifizio stupendo,

avean finito a spingere una mano affilata

a palpargli le vertebre della schiena curvata

Mai, dopo i colpi arcani del divino scalpello,

gli avea concesso il mondo un istante più bello

L'angelo sparve. All'alba ripassò, ma un piumato

cinquantenne patrizio le camminava al lato,

e, assorta nel colloquio, dimenticò la schiena

tutta per lei di elettriche scintille ancor ripiena.

Povero Fauno! e in estasi, già da due lustri, aspetta

che ripassi per l'atrio la bella giovinetta;

ed ogni notte, quando batte a San Marco l'ora

che la conobbe, ei freme sull'ampia base ancora,

dalle piante caprine fino all'irsuto mento,

come uno stel di mammola che si dimena al vento;

e intanto donna Bella, la fanciulla curiosa,

di messer Diego Alvaro già da due lustri è sposa.



III


Quando entrò nel palazzo l'Ebreo conquistatore

tutto mutò sembianza, tutto mutò colore,

e all'amante di sasso crebber le noie e il danno.

Tra le colonne, intorno al piedestallo, or stanno

casse di sego, mucchi di corde e chiodi usati,

arazzi e vecchi mobili ghermiti o sequestrati,

bottiglie senza tappo, vecchi stocchi sguarniti,

pelli e corna di buffalo e ermellini ammuffiti,

libri venduti all'alba da un notaio balzano,

e la sera mutati in vetri di Murano;

qui, ammonticchiati al prezzo di un bacio o di un ducato,

la gonna della vedova, l'assisa del soldato;

qui un po' di tutto e un tutto di niente, a sbalzi, a caso

arraffato dall'ugna della miseria, e al naso

della beffarda Usura, fior della fame, offerto!


Quanto agli appartamenti per molti giorni incerto

fu il novello padrone circa modum tenendi:

eran tappezzerie, candelabri stupendi,

tele piene del genio di seppelliti artisti,

dei poveri antenati ambizïosi acquisti

Rividero il sereno venduti al forastiero;

e quel giorno gli scheletri piansero in cimitero,

gli scheletri obliati dei divini pittori,

cui certo un dì non s'erano pagati che i colori,

mentre l'ebreo, felice dell'oro conquistato,

d'esserne debitore ai morti avea scordato,

né un pensier, né una lagrima, né un fiorellin soltanto

avea, passando a caso, gettato in camposanto.

Fatto il vuoto, divise l'aule immense e i saloni,

come se li allestisse per nidi di piccioni,

in camerette anguste, in stanzuccie pigmee;

lamentandosi molto che Bacchi e Citeree

e Silfidi ed Amori, sulle volte dipinti,

non si potesser vendere perché alla calce avvinti.

Si vendicò tagliandoli coi muri a centellini,

e dandone una parte a tutti gli inquilini.

E qui vedi una Venere che ha la bella sembianza,

le braccia e il seno eburneo nella vicina stanza;

qui il piè di una baccante e là sbuca una cetra,

poi del fanciul terribile un piede e la faretra,

poi Giunone che al laccio della parete appresa

ha l'ala azzurra e piangere ti sembra dell'offesa.

Un tal del primo piano cui toccò in sorte parte

di un'imagine nuda che non vo' porre in carte,

lagnossi al proprietario e voleva andar via;

l'ebreo gli rispondeva: ' Questa è un'allegoria,

l'ha pinta il Tintoretto, è un egregio disegno '

e l'altro a replicargli: ' Fu un pittoraccio indegno! '.

Più di una vecchia cabale astruse avea cavate

numerando le membra sul capo suo librate,

e quando un mendicante che stava al quinto piano

vi fu trovato morto col suo rosario in mano,

' Io bene, io ben sapevalo - ronzava una donnetta -

quella nicchia portava la cifra maledetta,

tra braccia e gambe e piedi e dita bianche e scure,

le ho ben contate un giorno, son tredici pitture! '.

E più il povero Ebreo non l'avrebbe affittata,

se Steno, il giovinetto dall'aria sventurata,

dal crin lungo le spalle cadente in brune anella,

non l'avesse, bizzarro caso, trovata bella,

quando seppe che dentro v'era stato il becchino.

Steno vi prese alloggio quello stesso mattino.



IV


Puri amor che crescete nell'ombra e nel silenzio,

terrene ambrosie fatte di cicuta e di assenzio,

genuflessioni d'anime dall'idolo ignorate,

voti, carezze, amplessi, lagrime prodigate

all'idea d'una donna, amor senza speranze

eppure amor capaci di profonde esultanze;

che non chiedete l'obolo a Lei pur di un sorriso,

di uno sguardo che certo sarebbe il paradiso,

e taciti, rodendo il cor che vi contiene,

valicate con esso alle spiaggie serene;

puri amor che in silenzio e nell'ombra vivete,

oh non cosa mondana, amor d'angeli siete!

E certo in ciel si compie una giustizia: Iddio

premia le spente vittime del lutto e dell'oblio,

e ripara e punisce le cecità mortali,

e i rossor non veduti e i disprezzi fatali,

accoppiando le belle ignare ispiratrici

agli amanti che in terra fur timidi e infelici!

I castighi, là in cielo, son castighi d'amore.



V


Bella dama che uscite dal tempio del Signore,

cui sta ancor forse un'ave sulle labbra vagante,

bella dama, col viso pallido e l'occhio errante,

senza saperlo, adesso l'elemosina fate:

quell'occhio vagabondo due pupille ha scontrate,

quel pallor senza nome le innondava di cielo.

Oh non troppo correte, non abbassate il velo!

L'uomo ignoto che segue, come un povero cane,

i passi onde intrecciate le vostre corse strane,

che per baciar la terra dove l'orme ponete

salirebbe una croce e vi morrìa di sete,

che toglierebbe il serto di fronte alla doghessa

per deporvelo ai piedi quando siete alla messa,

è un timido poeta, né vuol né chiede nulla.

La Musa e la Sventura che l'han raccolto in culla

gli fur madri operose : giovane ancor, vent'anni!

Gli eran compagni i dubbii, le noie e i disinganni

Oh i suoi canti! caligini cosparse di faville,

raggi erranti nel buio come fatue scintille

Se voi li conosceste!

Bella, pura, felice

gli appariste una sera, inconscia amaliatrice,

e rinnegò dolori e disinganni e noie,

e la vita gli apparve tutta piena di gioie!

Oh come attese il sole quella notte, vegliando!

Come accolse il suo primo raggio soave e blando!

O sol! punta spietata fitta alle nostre reni,

se chi è stanco di passi a risospinger vieni,

a gridargli: sei vivo, su la croce, cammina!..

Quando porti a un felice la candida mattina

apparenza di Dio verissima! Da un anno,

bella dama, i pensieri del giovinetto stanno

intorno a voi, dì e notte : la sua delizia è questa :

possedervi sarebbe, lo so, più allegra festa;

a lui basta vedervi qualche poco: la sposa

siete di un vecchio illustre e l'amica pietosa,

tale vi crede il mondo, e tal, nell'ombra, ei v'ama.

Ma lontana dal tempio è già la bella dama.



VI


- Di chi è quella casa? Dimmelo, vecchio.


- Quella ?

- Dove è entrata una donna. . .

- Affé, la è una storiella

che mi chiedete, o Steno, pericolosa alquanto;

ma se voi mi giurate. . .

- Parla per il tuo santo!

- Vi si è allogato un ricco cavalier di Ferrara,

e vi tien da più giorni gran tripudio e bambara,

fuorché nell'ore in cui quella dama

- O Signore!

- Lo viene a visitare è una storia d'amore.-



VII


Lettor, che bella notte! La luna è argento fino,

le nuvolette invece son zaffiro e rubino;

come tiepida è l'aura, come tutto riposa!

Oh l'antica repubblica come dorme! La sposa

dell'Oceano stanotte si rifiuta all'amplesso,

e il mar, senza rampogne, s'è addormentato anch'esso.

Però veglian gli amanti ; odi la serenata ?

Già sospirato ha il fiauto, la ghitarra è intonata,

e la gondola, nido d'affetto e di armonia,

lungo il buio canale lentamente s'avvia.

Senti il dolce motivo e le dolci parole:


' Io son come la zànzera

intorno al candelabro:

mi struggo a un vago raggio

di neve e di cinabro! '.


' Sporgi al veron la candida

faccia che m'innamora,

quelle due labbra rosee

fa' ch'io le vegga ancora! '.


' Io son come la nuvola

che assorbe il sol d'estate:

dileguerò guardandoti,

e morirò di occhiate'


Luna, vedi due lagrime cader silenti e sole?

Tu le illumini in cima di quel palazzo tetro,

e forse le supponi il scintillar di un vetro


' Sporgi al veron le piccole

mani, una sola almeno,

e sembrerà un miracolo

di più nel ciel sereno'.


' E vincerà, bell'idolo,

le stelle del Signore

se mi farai, schiudendola,

la carità di un fiore! '


' Io son come il famelico

che muor sotto la reggia '.


L'una, mentre la musica, sull'acqua che nereggia,

lenta lenta svanisce, il tuo raggio balzano

ha illuminato un fauno di sasso in modo strano;

forse è il vento che move dall'azzurro ove siedi

si dirìa che la statua trema dal capo ai piedi.



VIII


- Chi scelse a battezzarti questo nome divìno,

mia piccola Contessa, fu un vate o un indovino?

- Il mio nome di Bella! furon due tristi cose,

il tempo e l'abitudine


- O viole, o gigli, o rose,

o piume di colibrì, raggi di sole e note

che i serafini cantano sul carro di Boote,

voi che, il dì delle Palme o il dì della Madonna,

vi congiungeste in cielo per crear questa donna,

perché stillar lasciaste sulle sue guancie altere

tanto pianto di notti, tanto rossor di sere ?. . .

Oh sorridimi e serba questo volto allibito

per le ineresciose veglie del tuo vecchio marito:

ridi, canta, folleggia, perdio! l'amante io sono,

e voglio il lieto amore, la celia e l'abbandono!

- L'abbandono! dicesti un'orrenda parola!

- Orrenda ?


- Dopo i nostri deliri, quando sola

resto, o Lionello, e ancora t'ho col pensiero accanto,

né ancor giunto è il rimorso, né ho ancor pregato e pianto,

lo sai tu che mi avvenga? A lungo in queste braccia

bacio e ribacio e ammiro la tua superba faccia

- Angeli del Signore!


- Ma è breve il dolce inganno:

le tue forme sciogliendo lentamente si vanno

Pensa, questo palazzo è così buio e tetro!

Tu Lionello allora, tu diventi uno spetro,

uno spetro che fugge, che mi fugge lontano,

ed io tento seguirti e ti richiamoinvano;

lo spetro è innamorato di un'altra donna!


- Effetto

di queste cupe stanze: da spetro a cataletto

il passo è breve! Il conte che qui ti ha seppellita

di questi vani incolpa terror della tua vita;

oh foss'egli uno spetro davver!

- Taci!



- Sul mare

conosco un'isoletta,e te la vo' narrare:

è un giardino,vi cresce il banano e la palma,

la vita vi è delizia, lusso, sorriso e calma,

e non vi son mariti né consiglio dei Dieci;

L'amor libero e santo, e Iddio ne fan le veci

Spira vento propizio, fidato ho il gondoliere,

qui le notti son buie, ed io son cavaliere

Bella! -

E tacque. La dama guardava il giovinetto,

fissamente, e dai fregi del serico corsetto

la sua candida mano da un tremito agitata,

traeva una medaglia di gemme tempestata.

V'era pinta una veneta faccia, seria, canuta

che due grandi occhi apriva fra una carne sparuta,

e, in quel piccolo avello fatto d'oro e d'argento,

pareva dir: son morta, ma veggo ancora e sento.

- É mia madre-


E la voce somigliava un sospiro,

e una lacrima cadde.

Oh anch'io piango,e vi ammiro,

povere creature, olocausti d'amore!

O lotte del pensiero, e vittorie del cuore!

Misterïosi lutti nell'anima celati,

mentre carezze e baci son dati e ricambiati,

mentre il delirio canta le magiche canzoni,

mentre il corpo tripudia nelle immense oblivioni!


Donna Bella a che pensa ? Oh le forme divine!

E la è degna cornice quel suo profondo crine!

L'occhio è azzurro di cielo, il labbro è rosa viva

Oh come in un baleno tutto il volto si avviva!

- Lionello, Lionello!


E allor fu un'epopea.

Come se fosse d'angeli quella coppia splendea;

e Dio certo, vedendola dall'alto, perdonava

Ma in terra era caduto il ritratto dell'ava.



IX


L'uscio tarlato e nero chiuse a doppia chiave,

e al chiodo che pendeva da una sconnessa trave

sorrise come al volto di una donna amorosa,

o alle socchiuse foglie di un bottoncin di rosa.

Poi da un angolo trasse una corda sottile,

milionesima parte d'una che in campanile

dimagrò stiracchiata da un monaco scortese,

ora saran tre secoli morto di mal francese.

L'attortigliò, la strinse, montò, l'avvinse al chiodo,

e poi la smunta faccia, muto, cacciò nel nodo

Ma in quellistante il sole ruppe una nube in alto,

e un raggio immenso il mondo scese a baciar d'un salto.

Fu il cader di una maschera, cieca, stonata, abbietta,

che discopra una pura faccia di giovinetta;

tale il mondo sorrise e le faccie mortali,

chine ai libri o alla mota, confitte ai capezzali,

dal pianto affaticate, o róse dalla noia,

guardaron tutte in cielo e risero di gioia.

L'uomo che si appiccava gettò la corda e, come

chi, mentre altrove è assorto, sente chiamarsi a nome,

alla finestra corse, cacciò la testa fuori,

tra due piccoli vasi di sitibondi fiori,

e immobile restovvi.


Di nubi accavallate

scorrean cime e voragini, a trotto, a volo, a ondate,

e un passero, tranquillo sotto l'orrenda scena,

lieto osservava i piccoli figli seduti a cena

nel niduccio ravvolto alla vicina gronda;

e, se avesse cantato il caso di Ildegonda,

di più soavi trilli non avrebbe guaito,

tra i fumanti comignoli, la molle eco del sito.



X


Il ciel rasserenavasi: bella, superba e sola

la faccia del pianeta splendea da Chioggia a Pola;

una striscia d'argento che dal canale uscìa

e dritta, aguzza, immobile,in alto mar svanìa,

pareva una gran spada brandita da Cagliostro

contro l'ascoso ventre di qualche immenso mostro;

San Marco circondavano i voli dei colombi,

qualche gufo, fiutando, roteava sui Piombi,

e in aria si incontravano comandi di nocchieri,

urli di ciurme e strofe di allegri gondolieri,

canzoni della pesca e nenie del bucato:

tuttociò, lungamente rifuso e trasformato

a furia di sbadigli e di malinconie

dai poveri impiegati delle Procuratie,

arrivava sull'alta finestra al giovinetto

da quel sole improvviso rapito al cataletto.

Egli era sempre immobile fra i due vasi languenti,

non so se contemplando l'aspetto dei viventi,

come re Carlo Quinto dalla socchiusa bara,

o bevendo il viatico di una memoria cara.

Certo aveva la febbre, ché non udì la porta

cader sotto un gran calcio, e la sembianza smorta

non rivolse che all'urto di un cavalier piumato

che, chiamandolo a nome, gli sorrideva allato.



XI


- Tu, Lionello ?

- Steno!

- A Venezia, Lionello?

- Abbracciami, collega

- Dammi un bacio, fratello!

- Ma chi ti disse

- Il tetto dove attaccasti il nido?

Me l'ha insegnato un vecchio che tien bottega al lido;

fu caso: fra i suoi libri presi un Catullo in mano,

tu sai quant'io l'adoro quel peccator romano!

Lo tengo sempre meco; ma un ultimo esemplare

che avea comprato a Siena, lo diedi al mio compare;

or contrattando questo, perché oltremodo usato,

(Il libro è come il fiasco, mi piace impolverato)

v'è che vi leggo un nome

- Il mio

- Siam sempre al verde ?

- La vita

- É un giocherello!

- Chi guadagna e chi perde!

- Via, ma vendere un libro che non costa un ducato

- Erano quattro giorni ch'io non avea pranzato!

- Eppur Catullo in ghetto per desinar non vale;

o che gli hai dato a braccio Virgilio o Giovenale?

- Erano usciti prima,usciti in processione,

un dopo l'altro, tutti

- Il tuo bel Cicerone ?

- Eccolo -

E si toccava la giubba di velluto.

- Davver non lo ravviso,  gli nego il saluto.

E le sante Pandette?

- Eccole -

E gli mostrava

due guanti in un cantuccio.E l'altro sghignazzava:

- Così calzano meglio

- E quel tuo Quintiliano

legato a ghirigori ?

- É adesso il mio pastrano

- Tu hai tutta quanta l'aurea latinità sul dosso!

Ma, dimmi,è anch'esso un classico questo bel nastro rosso ?

- Ah! l'avevo scordato!


E, toltolo dal collo,

dall'aperta finestra mestamente lanciollo.

- Povero mio, m'accorgo che tu sei sempre quello!..

- Ti mutasti tu forse? -



XII


Era un gaio cervello

già di togate zucche nella dotta Bologna,

e di dottori in fieri la gioia e la vergogna;

gran rompitor di ciotole, gran maestro d'imbrogli,

Satana dei mariti e Messia delle mogli,

gettando nell'azzurro degli inconsci trent'anni

la fortuna di Rolla e il cor di Don Giovanni,

vivea la vita come può viverla un uccello,

in aria, a caso, a voli dal fiore all'arboscello,

immemore del prima, del dopo indifferente,

pigro, annoiato, strano, volubile e innocente.

Solea dir d'esser nato alla vita mondana

dall'abbraccio di un diavolo con una Dea pagana;

però a far certo il prossimo d'essere un grande infame,

lo credereste? a volte patito avea la fame

per dar l'ultimo scudo  a un cieco o a un saltimbanco

Vivaddio! colle piume in testa e il ferro al fianco,

in quel tempo di balde e facili avventure,

di follie malinconiche e di allegre paure,

vi giuro, o mie fanciulle, che, con vostro permesso,

diverso come or sono, stato sarei  lo stesso!

Ora tutto è svanito! e ( perché nol direi? )

i nostri dì son tetri senz'essere men rei;

nel lenzuolo del Solito sepolta è l'avventura;

il bardo e il cavaliero davanti alla Questura

in ginocchio han deposto il  brando e il colascione;

il motto erra sul lastrico del popolo padrone;

tolto è all'oro il tripudio delle superbe offese,

tolta al vulgo la gloria delle balzane imprese;

della Corte d'Assise Baiardo è un latitante,

e Fanfulla è un evaso dal medico curante;

si è sicuri e difesi, si è posati e dabbene,

parliam di colti allori e d'infrante catene,

ma interrogate il cuore di tutti, ad uno ad uno,

e troverete un viscere d'aria e d'amor digiuno!



XIII


I due colleghi a braccio camminavano; Steno

come un uom strascinato, l'altro franco e sereno.

- Dunque c'entra un rivale?- diceva il Ferrarese,-

firmagli il passaporto per un altro paese,

ammazzalo! la bella s'anco diggià non t'ama,

ti adorerà pel colpo della tua nota lama.

Le son fatte così; vesti un abito strano,

accoppa un galantuomo e, se sei bello e sano,

gli è più che basta, tutte ti apriran cuore e alcova!

Credi a me

- Il tuo consiglio al caso mio non giova.

Fosse domani sola, libera e innamorata,

più non saprei svelarle la mia fiamma ignorata.

- Ti conoscea poeta, non ti credevo un pazzo

- Io la donna sognai non creta e non sollazzo!

quella, il cui nome al labbro non mi verrà giammai,

era il simbolo puro dell'idea che sognai;

tu dubiti che m'ami? forse ch'io mai le dissi

uno solo dei cieli, uno sol degli abissi

in cui per lei travota è la mia vita?


- E come

se di te non conosce che la faccia ed il nome

- Veder la sua da lungi e lei nomar da solo,

perché i santi entusiasmi desse a' miei versi e il volo,

ciò mi bastava! adesso i miei versi morranno!

- No, perdio! finché io vivo vivranno e ben vivranno!

Senti, Steno, ho molto oro, noi siam vecchi all'usanza

di mettere in comune penuria ed abbondanza;

ci rifarem la cara gioventù di Bologna

Tu ti sei rovinato, non averne vergogna,

sì, rovinato fino all'inedia, o poeta,

per seguir di cotesta tua fatua cometa

il corso fra le stelle che le girano  intorno;

la cometa si è scelto un astro in Capricorno

Disperarci per questo? Eh son tante le stelle,

che per una è da ciuco il perderci la pelle

Ma, a proposito, diavolo! una or io ne scordava-

Steno senza far motto l'amico seguitava.

- Volgiamo a manca.

- Dove mi conduci?

- A un negozio

cui ti potrai rivolgere ne' tuoi momenti d'ozio-



XIV


L'occidente era in fiamme e Venezia imbruniva.

Qua e là per le finestre qualche face appariva,

errante, come in mezzo a una carta abbruciata,

dai pargoli ridenti sul focolar gettata,

quelle ultime, vaghe, fantastiche scintille

che sembrano una ridda di monachine brille.

L'acque oscure parevano assetate di foco,

e fiaccole e lanterne, accese a poco a poco,

vi prendevan la forma delle cose succhiate.

Le galere di Cipro e di Morea, poggiate

sull'ancore, dormivano sonno cupo e solenne;

e pei fitti cordami delle vetuste antenne,

qual per entro ai capelli di sognanti titani,

certo correan fantasmi di naufraghi ottomani,

col petto ancor squarciato dalla punta dei rostri.

Era l'ora che i bimbi han paura dei mostri,

e, a non vederli, il capo caccian sotto le coltri.



XV


- Che orrendo androne è questo per cui vuoi che m'inoltri?

- Seguimi.-

Proseguirono per l'aer pesante e buio.

Steno sentia qualcosa d'arcano intorno; il buio

gli impedìa di vedere. Ma cogli occhi dell'alma

vedeva. In quella tragica, misteriosa calma,

giacean creature umane al suolo; o addormentate

o speranti nel sonno; certo stanche e affamate.

si udivano respiri affannosi; talvolta

lo scoccare di un bacio ( qualche donna travolta

dalla miseria in mezzo a quello stuol di oppressi,

per mercarne le brame, o per morir con essi );

E forse tra le immonde capigliature, oh cosa

triste! stavano avvolte pur le guancie di rosa

di qualche bambinello, nato a far dolce il nido

della povera madre, e che doman sul lido

stenderà le manine alla folla ciarliera,

e comporrà le labbra alla prima preghiera

per cercar l'elemosina!


- È ben cotesto l'uscio;

ma, a quel che sembra, l'ostrica s'è già chiusa nel guscio.

Berenice! eh, la vecchia! È il cavalier Lionello

che vi chiede l'onore di entrar nel vostro ostello!

Vedrai, Steno, una reggia ehi la grama vecchiaccia!

Non son uso ad attendere per veder la tua faccia;

apri o getto la porta! -

Pur nessuna risposta

Come al vento d'autunno una tarlata imposta,

sbadatamente chiusa da un mandriano in viaggio,

tal quella porta offerse a un urto sol passaggio.

Entrar, ma tosto colti da ribrezzo improvviso,

retrocessero. E Steno: - Santi del paradiso!

È una tomba cotesta che scoperchiasti!..

- Taci;

questa lanterna cieca val candelabri e faci,

ma non qui fuor. Rientriamo e chiudi ben la porta .

‑ Impossibile.. questo è odor di cosa morta

- Avanti, avanti -

L'altro lo seguì nello scuro.

‑ Una mano alle nari, tienti coll'altra al muro,

e non temere; è rnorto certo il gatto di casa.­



XVI


Ed apre la lanterna. La luce che n'è evasa

saltellando si posa su quattro basse mura,

dove leggonsi cifre di magica scrittura,

e pendon croci e teschi e cappelli di preti;

pur nessun che respiri fra le strane pareti.

Ma Lionello ha nell'angolo scoperto un seggiolone:

- È là che dorme; andiamola a svegliar colle buone;

tien tu il lume. -

E accostatisi, la man del cavaliere

piano piano la testa scosse che, in bende nere

stretta, e china su un mazzo sparpagliato di carte,

parea sognar. Toccata, cadde dall'altra parte,

lugubramente. E un soffio esalò dalla salma.

La carogna turbata par che riacquisti un'alma;

il fetore che l'abita vuol la quiete profonda:

se lo  tocchi, s'ingrossa, come il verme, e t'innonda.

‑ Deponi la lanterna e aiutami; la vesta

mi convien perquisirle

- Ma chi è dessa?

‑ Cotesta

tu già un'allegra e vaga cortigiana spagnuola

esperta all'Ars amandi più di Ovidio; ora, sola

e vecchia, gironzava per le strade e le piazze

e stendeva la mano alle belle ragazze.

Queste per elemosina vi lasciavan cadere

un foglietto di carta pel damo o il cavaliere,

e talor pel sicario. Questa vecchia, mio caro,

rinchiude più segreti che messer Diego Alvaro

Consigliere dei Dieci, te lo dice Lionello,

e fe' più matrimoni che il Patriarca,

quello che li fa là in San Marco. Tienle un po' il braccio alzato

Ecco già un bigliettino senti s'è profumato! ­-


Un mite odor di viola si diffuse.


‑ Leggiamo. ­-

' Se tu o vedi gli dirai che l'amo,

che l'amo ancora come ai primi dì;

che nei languidi sogni ancor lo chiamo,

lo chiamo ancor come se fosse qui.

' E gli dirai che colla fé tradita

tutto il gaudio d'allor non mi rapì;

e gli dirai che basta alla mia vita

l'ultimo bacio che l'addio finì!


' Nessun lo toglie dalla bocca mia

l'ultimo bacio che l'addio finì!

Ma se vuoi dargli un altro in compagnia

digli che l'amo e che l'aspetto qui '. -

‑ Questa donna ti giuro che per me non farebbe:

la dev'essere un ninnolo di miele e di giulebbe;

amo le forti, e tu? Ecco un altro messaggio:


' Doman, Lenuccia mia, gli è dì di festa,

e il mio padrone è ammalato a palazzo.'

Nella sua gondola

vuoi che usciam bellamente in Canalazzo?


' Mi adatterò la sua parrucca in testa,

ne porterò la spada e il giustacuore,

le piume, i ciondoli,

e l'amante parrai di un senatore!


' L'anima ho piena di versi rimati,

e porterò con me la mia mandòla:

parole e musica ti alletteran come una cosa sola!

. . . . . . '.


Leggiam quest'altro ‑

' Il bimbo

viaggia in fondo al mare

e l'alma sua nel limbo '.


‑ Infamia!


‑ Oh Lionello, usciam da questo orrore!

Ho la testa che bolle, e mi si spezza il cuore;

certo un malor ci aspetta

‑ Un malore! t'inganni.

Qui un biglietto  mi attende per cui darei vent'anni

di sonno e di bagordi eccolo! affediddio,

viva la Berenice! è ben cotesto il mio!

Grazie, povera morta; che il ciel vi ricompensi,

né ai vostri peccatucci il buon Iddio ripensi. .

‑ Bada, un'ombra è passata sul muro alcun ci spia.

‑ Oh fosse un sì che scrive la contessina mia!

‑ Bada, l'ombra si appressa. ­

E la lanterna cieca

drizzò alla porta. Videro corne una forma bieca

di cui gli occhi soltanto apparivan.

Lionello ha sguainata la spada.

‑ Spegni il lume, fratello -

Ma la strana figura s'era già dileguata.

Allor dall'atra stanza, di fogli seminata,

chetamente sortirono; ripassar per l'androne

in cui parea vagasse come un'alta visione

di mister, di delitti, di stanchezza e d'amore,

e rividero il cielo tutto calma e splendore.



XVII


Genti pie che pregate prima di porvi a letto,

non pregate pei morti che stan nel cataletto

non pregate per gli ospiti del tenebrore eterno,

che dal mondo partendo sono usciti d'inferno.

Stesi placidamente e colle braccia in croce,

della sacra Natura ascoltano la voce:

senton la vita immensa che si prepara al sole,

han nei capegli l'umide radici delle viole,

han nei pugni gli steli che diverranno abeti;

i morti nella terra son tranquilli e lieti.

Genti pie che pregate quando la notte cade,

non pregate pei morti che bevon le rugiade,

che si mutano in foglie, che si mutano in fiori;

non pregate pei giunti, pregate pei viatori,

per i vivi pregate quando cade la notte.

E allor che i Mali intorno scaraventansi a frotte,

e par che Iddio dimentichi le misere creature,

come s'Ei pur dormisse nelle sue regge oscure.

Pregate per le madri che aspettano; pregate

per le livide teste nel gioco ottenebrate;

per la donna che stende le braccia all'uomo ignoto,

pel povero poeta, altro prigion del loto,

che assalta il ciel coll'anima che lagrima e fa sangue;

pregate per la turba negli ospitali esangue,

sovra cui, col crepuscolo, peggior dell'agonia,

la memoria s'abbatte e la malinconia;

per gli amanti pregate, scongiurate il Signore,

che creò la Sventura quando creò l'Amore!



XVIII


Benché adorna di pelo molto canuto e raro

era bella la testa di messer Diego Alvaro;

quando uscia dal Consiglio nell'ampia toga bruna,

pareva in lui vivente la veneta fortuna.

Camminava securo, parlava ad alta voce,

era come il leone benevolo e feroce;

l'amor della repubblica, l'amor della sua Bella,

non aveva altre gioie, non aveva altra stella.

Or s'è mutato : attoniti se ne accorsero i servi ;

un tremito convulso, cupo, gli agita i nervi;

non parla più, ma sembra interrogar cogli occhi

chi gli sta intorno; a volte, come se un serpe il tocchi,

balza repente, e corre per le stanze, e si affaccia

agli specchi, e si scruta nella pallida faccia.

Ier prendendo commiato dalla sposa, la mano

così torvo le strinse, e un mormorìo sì strano

lasciò uscir dalle labbra che donna Bella pianse.

Staman, quasi ruggendo, l'anel di nozze infranse.



XIX


- É un sì! - gridò Lionello, e fu un grido sì forte

che rintronò per tutte le taciturne porte

del palazzo affittato dall'ebreo di Rialto.

Certo il Fauno guardava il cavalier dall'alto:

l'eco di quella voce, fra le sue forme desto,

errò nel peristilio, a lungo, oscuro e mesto.

Ma il cavalier, beato come un chierco in vacanza,

gli saltava d'intorno in forsennata danza.

- Stanotte! Ella acconsente mi seguirà stanotte!

Ah messer Diego Alvaro! le Fondamenta Rotte

vedran sciogliere un legno a insaputa dei Dieci!

Ben n'era certo! e tutto a predispor ben feci:

a quest'ora Consalvo già appresta; donna Bella

finge di coricarsi e rimanda l'ancella

Grazie! cortese lampada che a legger m'aiutasti.

Scriveremo un poema per narrare i tuoi fasti!

Insiem lo scriveremo, mio dolce Steno, insieme!

Perché a te pur l'amore, perché a te pur la speme

dee ricantar la bella canzon dei dì passati:

va', raccogli i tuoi versi, saluta i tuoi penati,

e qui mi attendi; un fischio ti avviserà; d'un salto

nella gondola sei, e domattina in alto

mar, sulla mia galera che fugge in Orïente,

al suon della mandola, in faccia al dì nascente,

alla più vaga donna ti inchinerai del mondo!

Solo il vederne gli occhi ti rifarà giocondo;

e poi, giunti al paese là delle eterne rose,

ti sceglierai fra quelle giovanette amorose,

per viaggiar nei piaceri, qualche pietosa stella

La mia, sappilo, è il sole é la contessa Bella!-

Tutto ciò in un minuto fu detto, e senza pure

guardar l'altro nel viso, via per le strade oscure

Il cavalier disparve.



XX


Tutti abbiam nella vita

L'ora fatal che resta, come un negro stilita,

sul nostro capo, immobile, finché andiam sottoterra;

l'ora in cui l'uom s'accorge che la pugnata guerra,

le lagrime versate, le sciagure sofferte,

l'ostie fatte coi lembi del cuor, sull'are offerte

del suo triste cammino per questa scabra valle,

eran peso leggero alle sue scarne spalle,

eran foglie di rosa. Da quell'ora (deh! amici

di me non vi burlate perché siete felici!

Essa vi attende al varco, è il fato universale,

il lotto irrevocabile del sempiterno Male)

da quell'ora il suo sguardo è confitto alla mota,

e la tomba è vicina.

Dimmi, pupilla immota,

qual fu per te? Fu l'ora che conoscesti l'Eva,

e ti impietrì una vipera che un angelo pareva.

E qual per te, fanciulla languente come un'ava?

Fu l'ora in cui la povera tua madre agoninava.

Qual per te, vecchio curvo come un tronco abbattuto?

L'ora che solo, attonito, coi mendichi caduto,

come in sogno fra i passi dei cittadini errante,

il primo obol sentisti nella mano tremante.

E per te, è questa, o Steno!



XXI


Egli è là steso al suolo.

il manto ha già le pieghe del funebre lenzuolo,

la faccia ha già composta, quasi, alla pace eterna;

e negli occhi che immobili affisan la lucerna,

palpitante di fievoli raggi e morente anch'essa,

sembra la arcana calma dell'infinito impressa.

Oh quel raggio di sole, perché giunse in quel punto ?

A quest'ora ei sarebbe un pallido defunto,

obliante e obliato; sarebbe all'ombre sceso

da men feroce strale in meno all'alma offeso!

Veder l'astro cadere dal suo cielo pudico,

perder l'idolo, e perderlo per la man di un amico

che lo strappa all'altare per gettarlo all'alcova!

Oh fu ignobile il gioco, fu d'inferno la prova,

raggio dal ciel caduto quand'ei forse presago,

già avea l'impronte al collo dell'imprecato spago!

E or l'orribile morte pur gli è presso, e nol vuole.

Come ad ebro sospinto in rapide carole,

tutto che ingombra il sordido peristilio traballa

intorno a Steno, orribile famíglia macra e gialla.

Son gli stocchi che guizzano come in mano a ribelli,

son gli arazzi che sembrano ali di pipistrelli;

son le gonne vendute dalle Circi del ghetto

che gli danzano in giro e gli sfiorano il petto;

son le coltri, lasciate dalle tremule vecchie,

che passano, gettandogli vaghe preci all'orecchie;

e in la cupa vertigine, fra le larve e il fetore

delle casse di sego, allo scoccar dell'ore,

oh meraviglia! è il marmo che si muove, è il macigno

da cui sembra svanito il cinico sogghigno,

è il Fauno che si abbassa sulla testa di Steno,

e par dica : - Per piangere, ora ho un compagno almeno!



XXII


Dio che misura il vento all'agnello tosato

perché all'uom non misura, quando il verno è arrivato

de' suoi dì tempestosi, le bufere del cuore?

Perché, se su lo sterpo inaridisce il fiore,

l'amor non appassisce sotto i capelli bianchi?


Ah, piuttosto una serpe mi si configga ai fianchi

che alloggiarvi il bell'angelo dei celestiali affanni,

quando dal mio battesimo conterò sessant'anni!

Cavalier di ventura cerca castel fatato;

ed è triste ospitare in tugurio gelato

chi fu avvezzo alle fiamme dell'ampio focolare.

Sei vecchio, e chiedi amore, e ti ostini ad amare?

Sei vecchio, e dentro il pugno pur stringi il frutto sacro?

Vuoi che il prete ti trovi, all'ultimo lavacro,

dell'odor della donna tutto olezzante ancora:

Più misero del gufo quando spunta l'aurora!

É il crin biondo del giovane che te al buio rincaccia,

è la sua balda gioia che ti offusca la faccia.

Tu spronalo, dimentica, chiudi gli occhi, ti abbranca

alla maga illusione! vestal sommessa e stanca,

vegli una figlia d'Eva l'imbiancata ara tua

E doman, dietro quella, tu scoprirai la sua!



XXIII


Povero conte Alvaro! ecco ci pensa la sera

(era già ben lontana da lui la primavera

e la volubil ridda delle ore serene)

in cui scoprì la blanda fanciulla, e nelle vene

gli rifluì l'antico nobil sangue, e gli parve

rivedersi d'intorno dell'infanzia le larve,

E che fosse il baleno di un attimo passato

dai lontani, beati dì che già aveva amato

Ei passò fra i garzoni della fanciulla al fianco,

poscia sentì il profumo del suo bel seno bianco,

poscia baciò la cara paradisiaca faccia,

poi l'ideal creatura si sentì nelle braccia;

ma sempre, e nelle feste quando un altro venia

a invitarla alla danza e insieme a lei sparia;

o alla messa, se alzava dal sacro libro il volto,

e nell'aurata alcova quando, tra il crin disciolto,

vedea nel sonno immergersi la sua pupilla brana,

al chiaror di una lampada mite come la luna;

sempre, ovunque, all'orgoglio, alla dolcezza vaga

del possesso invidiato e della voglia paga,

nell'anima del vecchio mescevansi i pensieri

surti come fantasmi, il primo dì, fra i ceri

della chiesa auspicante alle sue nozze, quando,

dopo i motti latini, il prete venerando

avea detto al bell'angelo : ' Voi beata tre volte,

o fanciulla, cui Dio, in un sol uomo accolte

le virtù riserbava di un padre e di uno sposo!'

Padre! Padre! il più augusto dei nomi al vanitoso

vecchio suonò bestemmia e vituperio, e in cori

gli accoppiò, nodo orribile, lo spavento all'amore!

Or quel prete è sepolto sotto le zolle mute,

e il conte Alvaro, a prezzo dell'eterna salute,

vede, ancor più beffarda, la sua disciolta creta,

e vorrebbe coll'ossa dell'infausto profeta

farsi una clava e correre per il mondo con quella,

inzuppata nel sangue della contessa Bella.



XXIV


Dimmi, santa memoria del mio più dolce amore,

dimmi come a Lionello battea frattanto il core!

Solo colla sua gondola, tacito, palpitante,

attendeva nell'ombra la sospirata amante

O minuti divini di speranza e dubbiezza,

non vi valgono quelli della secura ebbrezza,

come non vince il sole del meriggio possente

il mite oro onde l'alba inghirlanda l'oriente!

Attendeva nell'ombra, presso la riva, a pochi

passi dal gran palazzo di Don Dïego. I fochi

n'erano spenti; solo da una rossa cortina

un barlume che andava e venìa, peregrina

facella, certamente in mano alla contessa.

S'apre una porticina alcun ne scende, è dessa.

Un baleno, ed ei l'ebbe nelle braccia.

- Se t'amo!

- Angiol mio! come fredda

- Non è nulla, fuggiamo!

- Perché tremi ?

- Scoperti ah! è già tardi!-

E svenuta

rotolò dentro il felze.

Or Lionello, t'aiuta!

Tre gondolier stemmati guidano alla vendetta

l'uom tradito t'ingolfa dove l'acqua è più stretta,

vola, devia, ti perdi nei laberinti oscuri,

cerca aiuto alle mille convessità dei muri,

alle volte dei ponti, ai trabaccoli vuoti;

che il nemico non senta ove il remo percoti,

e, ora a destra, ora a manca, come guizzo di lampo,

lo abbarbaglia!

Sventura! non più speme di scampo!



XXV


Un grido acuto, lungo, angoscioso, la oscura

squarciò calma notturna. Di livida paura

ansimante, l'Ebreo, signor di quel palazzo

da cui la mia leggenda prese il suo folle andazzo,

si gettò dalle coltri e lanciossi al verone.

In quel punto una gondola costeggiava il portone.

E il grido non finiva : - Steno! Steno! fratello!-

Ritti in fronte i capegli, allor l'Ebreo, zimbello

spesso dei sogni, vide uscir sulla scalea

uno spetro.

La luna sul suo viso splendea

e splendea sulla gondola.

Il remator gli porse

la man; la sua lo spetro atterrito ritorse.

(- Se lo spetro ha paura, gli è che l'altro è Satàno-

pensò l'Ebreo).

Quand'ecco sull'acqua e non lontano

una face, e un sommesso vociar di gondolieri.

I due sotto il verone, fantasmi cupi e neri,

s'eran stretti a colloquio.

A un tratto, quello uscito

dal palazzo, come abbia terribil cosa udito,

si slancia nella immobile gondola, afferra il remo

e, col ringhio di un veltro cui tocchi il colpo estremo,

la sospinge

È sparita.



XXVI


Lionello è solo. Il conte

l'ode, rivolta all'atrio del palazzo la fronte,

dir con voce secura e gentil: - Donna Bella,

volger piacciavi a manca; salite, e la mia cella

troverete dischiusa. Io vi raggiungo tosto.

Non finì : che Don Diego, con uno sbalzo, accosto

gli si era piantato. L'altro ha snudato il ferro,

e sta innanzi alla porta come un tronco di cerro.

Orribile minuto!

Quel vecchio dalle braccia

conserte al petto, immobile e taciturno, in faccia

non ha pinta la rabbia, non ha pinto il terrore,

ma un alto, inenarrabile, sterminato dolore.

Non trema, ma i suoi labri dalla febbre riarsi

somigliano a due belve che anelino a sbranarsi.

Ha stretti i pugni e stillano sangue. Oh pietà! Gli spunta

dalle ciglia una lagrima, e sul giovin le appunta.

- Dio del ciel! Come bello, come è giovane e bello!-

Ciò non disse, pensò ; poi proruppe :

- Lionello,

per la tua madre morta, per l'orror dell'inferno,

per l'angelo custode che ti amica l'Eterno,

giurami che fu un filtro che te la diè in balìa,

che un maleficio ha vinto la creatura mia,

ch'ella è innocente

- Conte, rispose il giovinetto,

non conobbi mia madre, l'inferno ho in gran dispetto,

né posseggo, ch'io sappia, amici in paradiso.

Da onesto cavaliere la contessa ho conquiso,

e or vi prego osservare che m'ho un ferro snudato,

che il mio custode è questo, e che al rezzo gelato

potrebbe irruginire. Ciò mi dorrìa da senno.-

I gondolier stemmati partono a un muto cenno,

e già nell'aria tacita sfavilla un altro brando.



XXVII


Or tutto da quei petti, fuorché il furore, è in bando.

- Ferro e inferno! cotesta, e quest'altra ripara!

- Dalla man di un vegliardo tu a darle meglio impara!-


E non son più due spade, son due lampi che guizzano;

or volano, or s'abbassano, or rotano, or si drizzano,

or si arrestan di un tratto

Allor potevi udire

i fiati ansanti, e credere che a sceglier chi colpire

l'invisibile Fato fosse in mezzo, indeciso.

- Tu fai sangue

- Tu menti!

- Già la morte hai sul viso!

- Vecchio, son gioia e amore, e a te sembran la morte ? -

Non avesse proferta l'ingiuria!

Come sorte

il boato che annuncia la rabbia del vulcano,

dalle fauci del conte, un urlo uscì

Di mano

sfugge il ferro a Lionello che china il capo e cade.

Pur, mentre il sonno eterno freddamente lo invade,

non lo lascia la balda fierezza indifferente.

- Fu un bellissimo colpo, messer - dice il morente -,

se non fossi obbligato a partir, giuro a Dio!

che darei mille scudi per impararlo anch'io.-

Poi con voce più fioca, riprese:

- Alla malora!

Facciamo un po' di bene, almen nell'ultima ora

Don Diego non cercate madonna in questa casa

quando mi raggiungeste ella era già evasa

Buona notte alcun soffia davver sull'alma mia


Non temete per Bella è in buona compagnia. -

Così morì Lionello, cavalier ferrarese.



XXVIII



Quelle estreme parole non le ha don Diego intese?

O credere non vuole che Dio possa far tanto

per strappar dalle viscere di un uom l'ultimo pianto?

Perché nell'atrio oscuro s'inòltra, e brancicando

per l'ingombro cammino colla punta del brando,

al livido barlume dell'imminente aurora,

attonito, atterrito, l'aula squallida esplora?

Un'arcana potenza lo strascina; il suo passo

l'eco fievole sembra invitar: fra l'ammasso

lutulento s'innalzano, come in sogno, figure

che gli fan cenno, e sfumano. Egli vacilla, eppure

retroceder non vuole : non può, forse!

Repente

gli appare il Fauno.

Orrore!

Gli si schiara la mente,

riconosce il palazzo dove Bella ha incontrato

e chiesta al padre.

È questo il portico incantato

per cui passò, premendo il suo braccio di neve,

braccio di fata, ahi lasso! di una piuma men greve

Scorser due lustri appena, ed era l'ora istessa!

Come splendean le faci! Con che fronte dimessa

qual per pudore inconscio, accanto alla sfacciata

nudità di quel Fauno era colei passata!

Quel Fauno!. .

Ah! fuggi, fuggi, misero conte Alvaro!

A sollevar le nubi del tuo passato amaro

non sei solo qui dentro fuggi un mister qui regna

di tremuli vapori l'aria fosca si impregna

par profumi l'ambrosia!

Miracolo!

Che avvenne?



La leggenda s'arresta a un segreto solenne:

come cadder dall'alto di San Marco sei ore,

il palazzo fu scosso da un immenso fragore.



XXIX


La marina rifulge simile a terso argento;

non un fiocco di nube, non un filo di vento;

l'alcïon che coll'ali sferza l'acque tranquille

le increspa e, alzando il volo, vi fa cader scintille.

Libellule e farfalle i fiori hanno lasciati

e, attratte dalla calma, i deboli meati

cimentan per vedere negli azzurri cammini

rotear gaiamente la danza dei delfini

Empie un alto riposo l'Universo ferace,

tutto il ciel dice : Amore! tutto il mar dice : Pace!



XXX



Poiché il lido è scomparso, poiché nulla ne appare

Steno lascia alla forcola il remo.

Il cielo e il mare

e il fatale amor suo!

Tutto il resto è caduto.

Bella è là dentro, ignara dello scambio avvenuto;

tanto terror la prese che ancor non mosse accento.

Il giovinetto trema come una foglia al vento,

e, offrendo in olocausto l'anima al suo buon santo,

rattenendo il respiro e rattenendo il pianto,

quasi aprisse la porta di una chiesa, la porta

del felze schiude.

Immobile, bianca come una morta,

Bella a lungo lo fisa, poi guarda intorno sola!

Indietreggia, fa un cenno, ma al labro la parola

le si gela, e qual vinta da un affanno deliro,

si copre il viso e cade.

Non han pure un sospiro

i malor sterminati.

In ginocchio, con voce

che sembra uscir da un tumulo, e colle mani in croce,

così favella il misero:

- Madonna non temete

se a voi davanti un povero sconosciuto vedete

Fu Lionel, per salvarvi, che mi affidò quel remo

O, forse, Iddio! -

La dama, con uno sforzo estremo,

solleva il capo e volge gli occhi sullo straniero

che segue:

- Perdonatemi fui troppo ardito, è vero,

ma era grande il pericolo e poi benché la morte

già mi fosse vicina, sentìa che il braccio forte

abbastanza per trarvi in salvamento avrei

I più felici istanti vissi dei giorni miei;

or Lïonello certo non tarderà a venire

col legno e partirete ora posso morire


No, non è inganno: a Steno già già sfugge la vita,

e la contessa Bella, trepida, impietosita,

come attratta da un fascino dolce e misterïoso

gli solleva il bel crine che quasi ha il volto ascoso,

e,

- Vi conosco! - esclama - giovinetto, quel nastro

ch'io perdetti alla messa, l'anno scorso-

Se un astro

fosse disceso sotto le pupille di Steno

dippiù non brillerebbero; ma l'ansia del suo seno

or si è fatta terribile.

- Fu raccolto da voi,

e da lontano sempre mi seguiste dippoi

Perché ? -

Due grosse lagrime fur la risposta.



XXXI


Ignoro

ciò che farebbe quella ch'io senza speme adoro,

ove per l'amor suo me trapassar vedesse.

Non avrei meraviglia s'ella fra sé ridesse!

Molte ridere ho viste, mentre, in fondo all'oblio,

v'eran anime umane maledicenti Iddio,

e pugni che cercavano la pistola o il pugnale

Ma digredisco ancora, e in questo punto è male.



XXXII


Che vide allor l'ascoso occhio dell'Infinito?

Piansero i cherubini, su in ciel, mostrando a dito

quella barca perduta sul lontano emisfero,

picciola tanto eppure contenente un mistero

più di una culla dolce, più buio di un avello ?

Solo forse nell'aria qualche migrante augello

tentò un trillo di gioia, quando quelle due teste,

in così immensa calma gravide di tempeste,

mirò l'una ver l'altra chinarsi, e l'occhio ardente

cercar l'occhio di affanno e di languor fulgente;

e già stese le braccia, ed avida una bocca

del contatto supremo da cui l'amor trabocca,

pender da un'altra attratta dallo stesso desio!

Miserere! al poeta non concesso è l'oblio

Come offusca lo specchio di un bambolo il respiro,

come sfoglia la rosa un placido zeffìro,

così l'ora, il minuto, l'attimo sciagurato

può nel cor che pel Bello e per il Giusto è nato

avvelenar la santa semenza del futuro!

Quanti corron baleni dalla luce allo scuro?

Povero Steno! è dessa, la blanda incantatrice,

quella che segui estatico da un anno, ed è infelice

come lo fosti, e è tua!

Vedi se la Sventura,

questa provvida Erinne che per il ciel ci appura,

non affratella; vedi se non è premio il fine

di chi lieto sul cranio si conficcò le spine;

vedi, sol due parole, sol due lagrime, e tutto

che di smanie ti pesa sull'anima e di lutto

si svelò nel fatidico animo femminile!

É ben dessa, la donna sopra tutte gentile,

è ben dessa, o poeta

Ma quel vecchio ti disse

come occulta ai convegni di uno stranier venisse;

è la contessa Alvaro, ma sotto al suo balcone,

hai sentito alitare la tenera canzone;

è l'idol tuo, ma ruggono ancor nel tuo cervello

le sonore risate del povero Lionello!



XXXIII


Oh sì beati i morti che bevon le rugiade

Chi saprà dir se in mare ei si getta o vi cade?



XXXIV


Il mare è generoso come ogni cosa grande:

ama tanto la terra che gonfio in lei si espande;

della rondin che porta dall'uno all'altro lido

le querule speranze e la pietà del nido

l'ali cogli infallibili aliti suoi distende;

ciò che cade disprezza il mar che all'alto tende:

quando l'albero è infranto e sommersa è la stiva,

li rifiuta e, sdegnoso, li rimanda alla riva;

e vi getta le perle e le conchiglie, e, chino

come sul formidabile specchio del suo destino,

l'uom su quel glauco abisso, non sa, triste ed anelo,

s'esso mai non racchiuda più misteri che il cielo.

E il mar conosce l'uomo più che l'uom nol conosca;

ond'è che dal profondo della sua valle fosca

è risospinto il naufrago alla luce del sole.



XXXV


- Troppo tardi! -

Di Steno fur l'ultime parole.

E sparì. Mie signore dalla cera stravolta

perché, mai non avendo che un amante alla volta,

già m'aspettate al varco per gridar: ' L'eroina

fino a qui perdonabile or del tutto rovina,

ché fra Steno e Lionello si appiglia all'uno e all'altro '.

V'ingannate, signore: la Dio mercé son scaltro,

né saprete che avvenne nel cor di Bella Alvaro.

Sol vi dirò che quando il freddo corpo ignaro

a fior d'acqua riapparve, sulla faccia spetrale

del morente poeta cadde un bacio



XXXVI


Fatale

notte! notte di incanti e meraviglie!

Un grido

sommesso, dai canali più spopolati al lido,

corre di bocca in bocca nella folla atterrita.

Fu trovato Don Diego disteso e senza vita

sotto un Fauno di marmo dalla base travolto!

I pescator di Chioggia, collo stupor sul volto,

han portato un cadavere che gettò la marea,

e mirabile a dirsi! quel morto sorridea!

E sulla spiaggia è un premersi di mozzi e di nocchieri,

dai berretti turchini e dai capucci neri,

che non san per qual strana avventura di mare

una gondola errante sull'orizzonte appare.

E così ben si aggruppano le sussurranti tornie

e v'è tanta dovizia di colori e di forme,

da innebriar di gioia l'anima di un artista.

A mezzodì la gondola si perdette di vista.




PAESAGGI

A CARLO MANCINI






I


Era un parco antico e squallido

da molt'anni abbandonato;

desolato

come un campo di battaglia,

pien di nidi, e rami e zolle,

come un colle - orïental.


Querce ed olmi e abeti e frassini,

in ferace abbracciamento,

sotto il vento,

si movean come un sol albero;

e alle nubi, augusta e folta,

l'ampia volta - era guancial.


E, disotto, eran rigagnoli

zampillanti in vaghi suoni

pei burroni ;

e, con gesti da cadaveri,

tronchi fracidi riversi,

e cospersi - d'alghe e fior.


Eran templi d'erba e d'ellera,

gallerie di clematidi,

foschi siti ;

trasparenze glauche ed umide,

d'ombre tremule rabeschi,

toni freschi - e toni d'or.


Compagnie di strani Fauni,

su marmorei piedistalli,

scabri e gialli,

i sentier ne sorvegliavano,

e specchiavansi agli stagni;

mentre i ragni - erranti ordir,


fra quei menti aguzzi e lepidi,

si vedean le argentee reti;

e, faceti,

gli augelletti si posavano

su quei pugni irsuti ed alti,

a far salti - ed a garrir.


Ai meriggi, alto silenzio

incumbea sulla riviera;

se non era

il cader di un frutto fracido

che facea, nell'acqua immota,

una nota - e nulla più.


I tramonti vi eran tragici;

ombre orrende, incendii immani!

Draghi o nani

somigliavano gli arbuscoli,

e i grandi alberi giganti

inneggianti - a Belzebù.


Il viator che, a notte, rapido

presso il parco transitava,

palpitava ;

si sentìa sul viso battere

come scosse l'aure dense

da ali immense - di sparvier.


Né fanciul di nidi in caccia,

né pastor, né mendicante,

né brigante,

né giammai di amanti coppia

(tanti spetri vi eran corsi!)

osò porsi - in quei sentier.



II


L'uom se ne va senza indagar l'arcano:

giunto alla meta, al teunine abborrito,

al dì che tutto strugge,

si accorge di aver stretto nella mano

un po' d'aria che sfugge.


Egli, o s'illuda alle apparenze incerte,

o preghi, ignaro del Nume, o allibito

sghignazzi in faccia al cielo,

o del Real dorma sul seno inerte,

vive e muore in un velo.


I suoi piacer sanno di tosco, i mali

gli aizzan l'alma ai giubili vietati

che presente e non trova:

è dalla culla all'avel (due guanciali!)

ciò che sempre s'innova.


Carlo, ne san più assai gli immensi boschi

sovra cui sono i secoli passati;

dove, immobile e chino,

al suon dei rami palpitanti e foschi,

meditava il bramino.


Di certezze più ricca è la brughiera

che, a dispetto dei geli, eterna il fiore

del luppolo e del timo;

sa dove porta la regal riviera

le sue pietre e il suo limo.


Pane immortale, fra le biade, irride,

coi suoi cori di Fauni, al mietitore;

lo stagno, a cento a cento,

cader dal fiero campanil rivide

le crocette d'argento.


E la montagna che si specchia al lago

vince in gloria la Vénere di Milo:

prima che il greco artista

sfidasse il sol colla divina imago,

di quel masso alla vista,


che stendea lungo il limpido orizzonte,

sotto il raggio lunar, l'ermo profilo,

qualche pastor poeta

fermò la greggia e, colla gioia in fronte,

disse : 'È costì la meta!'.


Sì, ciò che l'uom calpesta e per cui passa

senza tender l'orecchio e alzar le ciglia,

ciò con cui io favello

pel tramite dei versi, e in te trapassa

pel veggente pennello,


Carlo, è un tesoro che ci ha dato Iddìo

come ci diè gli amici e la famiglia!

Oh! dimmi, quante volte

ha le tue fedi un blando nuvolìo

nelle sue spire avvolte!


Dimmi che cosa sa narrar la terra

dissepellita dall'aratro appena,

quanti avvisi divini

la primavera dal suo sen disserra

Dimmi i cenni marini!


Spesso io mi curvo al tripode profondo,

atomo qual mi sono: e l'alma scena

m'agita e mi sublima;

e mi inabisso nei mister del mondo

per risalirne in cima!


Un dì (lontano come i dì felici)

per una landa erravo ove tu avresti

una tela eternata;

e pensavo a mia madre ed agli amici,

e alla patria lasciata.


Trovai quel parco. In mezzo era un castello:

di fulgori splendean biechi e funesti,

pel tramonto, i suoi vetri.

Là stetti e appresi ciò che fosse quello

ch'altri chiamava: spetri.



III


Lungo il viale,

per i viottoli,

nelle sale,

in mezzo ai portici,


dalla freccia

delle aguglie

fino all'ultima

corteccia,

dove intreccia

la sua feccia

il ramingo

scarafaggio,

perché un raggio

dell'albor

vi dipinga

perle ed or;


nelle ogive

che si abbracciano

più lascive

delle Naiadi ;

nelle grotte

che somigliano,

quando è squallida

la notte,

a una botte

dove, a frotte,

istrioni

con megere

vanno a bere;

sul manier,

nel vallone

torvo e ner;


per le vaghe

latitudini,

per le plaghe

che si incurvano,

trasparenti,

sulle cerule

zone roride

fuggenti,

dove i venti,

caldi e lenti,

van dicendo

alla rugiada

(ché non cada

pria del dì),

la leggenda

delle Urì ;


dappertutto,

in terra e in aria,

l'alto lutto

ed il silenzio,

le movenze

spaventevoli

e le magiche

apparenze,

son parvenze,

son coscienze,

son memorie

palpitanti,

favellanti

in amistà

della storia

d'altre età!



IV


Vedi la selva delle quercie estatiche

drizzar nel buio le braccia ritorte,

funebre asilo di civette e d'upupe

in vago sonno assorte?


Le diresti Titani, a cui l'olimpica

ira inchiodava i piè possenti al suolo,

da mill'anni seguenti delle nuvole

e invidianti il volo.


Sai perché sì lontano i rami allungano

dal poderoso tronco? Un dì, la plebe

che le giovani piante errar vedevano

per le feraci glebe,


intenta ai riti della bionda Cerere,

balzò alla picca, alla corazza, al brando,

e si accalcò dinnanzi a un frate pallido

che proclamava un bando.


Poi, fu un urlo terribile: e partirono.

Le alte cime mirar nel polverìo

quei mille e mille all'oriente perdersi,

cantando preci a Dio.


Non più brillar di falci in mezzo all'alighe

né vociar di bifolchi, e comitive

tornanti a sera con a spalle i pargoli;

non più donne giulive,


inghirlandate di spiche e di mammole!

Sol qualche vecchio errante, all'imbrunire,

sovra cui la tristezza, colle tenebre,

lenta, parea salire.


Muto il castello, deserto il tugurio!

Si sentìa che la vita in altra terra

battea, che tutte avea rapite l'anime

quella lontana guerra.


E fu allor che alle quercie malinconica

si fe' la balda gioventù ferace:

però pensar che, dopo qualche secolo,

dovea tornar la pace;


che popolata rivedrian di mandrie

la valle, e che il meriggio alla frescura

ricondurrebbe delle ombrìe balsamiche

una gente futura.


Ed assorte in pensier di spaventevoli

colpi di scimitarre e catapulte,

in mezzo all'alta noia ed al misterio

delle camgagne inculte,


intrecciarono i rami, e avvilupparono

fronde a fronde, in feroci atteggiamenti;

e, contesti di vòlte e d'archi, eressero

mistici monumenti ;


onde il venturo mandrian, destandosi

là sotto: ' Ecco - dicesse alle sue donne -

che fér le quercie mentre i miei bisavoli

pugnavann a Sïonne '.



V


I salici piangenti hanno attitudini

di prefiche commosse:

sembran sudarii per raccoglier lagrime

le sottoposte fosse.


E, come vive, le cime si cullano

sotto il molle zeffìro;

né sai se il suono che nell'aria espandono

sia rantolo o sospiro.


Ondeggiamenti di blande Nereidi,

gesti da cortigiane,

incliini di Elfi, o di chi al suol prosternasi

per un tozzo di pane.


Neghi a quei rami un sentimento, un'anima,

chi non nacque poeta!

Quegli non oda il sovrumano eloquio ,

della natura queta;


sia sordo alla eloquenza inenarrabile

del grande Essere ignoto;

non scorga il filo arcano, incomprensibile,

che lega l'aria al loto!


Quegli, al tramonto, quando il cielo è incendio,

e van le avemarie,

da campanile a campanil, dicendosi:

' Siam dell'alme le spie! '


quando la valle si ingombra di nebbia

e di vaghi colori

ed una mesta voluttà ineffabile

assalta i nostri cuori;


e ti senti immortal, pensando al celere

riapparire del sole;

e, se pur fosti coll'amica, inutili

ti sarian le parole;


quando dall'Universo assorto è l'atomo,

quegli sbadigli, o vada

davanti a sé, segugio inconsapevole,

per una ignota strada!


Oh! pel ciel che splendea colle miriadi

delle vaganti stelle;

pei campi a cui davan bagliori e screzii

lucciole e coccinelle;


giuro che a me quei cesolati salici

dipinsero l'istoria!

Così putessi la vision terribile

cassar dalla memoria!


Erano, in mezzo al tenebror diafano,

spalle in catene attorte,

e lunghe braccia che parean difendersi

fra la vita e la morte.


Contorcimenti di dannati, impavide

pose da gladiatore

Quei tozzi tronchi di rabbia fremevano,

e fremevan d'amore.


Nodosità, curve, punte, sembravano

cercar vendetta a Dio;

mentre, al raggio lunar, le bianche foglie

bisbigliavano : oblìo!


La Musa mi fe' mago. Allor dai salici

uscì questa parola,

ch'era lamento e che parea bestemmia:

' Ci ha piantati Loyola! '.



VI


Più in su della nebbia,

più in su della torre,

nei campi che l'aquila

superba trascorre,

ergeva il fantastico

suo ciuffo un abete,

possibile pania

di incerte comete.


Immobile, olimpico,

nell'aria gelata,

diceva agli arbuscoli

dell'ima vallata,

specchiando il pinocchio

nel placido stagno:

' Per questi viottoli

passò Carlo Magno '.



VII


Il castello, immobil macchia,

cosa informe e minacciosa,

trafiggea co' suoi pinacoli

l'ampia bruma nebulosa;

dalle gotiche - compagini

piante esotiche - a cui garba

por sui muri un po' di barba,

scomponean lo stil corretto

di un pregievole architetto.


E lontan, lontano, all'ultimo

fil di cielo, un guizzo strano

segnalava, incerto e rapido,

qualche nomade uragano.

Le finestre illuminavansi,

argentavansi - le mura;

poi, nell'aria opaca e oscura,

riappariva ancor più tetro

il castel, come uno spetro.


Da sospir, da supplichevoli

gridi invasi erano i campi;

forse arcane metamorfosi

accadean sotto quei lampi

Larve pallide - sfuggevoli

per le squallide - vallée

parean Strigi, o parean Dee;

al mio piè, filando bava,

una biscia strisciava.


Le ninfe si arrovesciavano

come vergini tentate;

un ronzìo d'ali invisibili

le avea certo ridestate.

Di languore, di bisbiglio,

di scompiglio - ebro, pagano,

si coprìa l'immenso piano

Era un coro a voci uguali,

e cantavano ' Sponsali '.



VIII


I fior che nascon tardi e a cui par che la luna

l'acre olezzo regali, già per l'aiuola bruna

cominciano a brillare, come un altro corteggio

di stelle. E, in mezzo ad essi, venirsene a passeggio

ecco la castellana col suo vago paggetto.

Tutto è d'oro lo strascico, è d'argento il corsetto;

è neve il dolce viso che il fanciul signoreggia.

Certo è un sogno d'amore ch'ella fra sé vagheggia,

carezzando, lasciva, que' suoi capelli biondi!

Egli, con un ceruleo sguardo, par che la innondi

di dolcezza infinita

Così, mentre il barone

russa, pensando ai fasti di qualche vecchio arcione,

l'ideal coppia passa.

L'allodola la mira,

e, dal ramo ospitale, di voluttà sospira.



IX


L'aurora! E già i frassini,

comari verbose,

l'albor commentavano

con stridule chiose;

poi, punto d'invidia,

scrosciava il querciuolo

già tutta, in un solo

superbo monologo,

la selva stormì!


Gli augelli si destano

cantando alleluia,

le vette si indorano,

la valle è men buia,

lontani comignoli

la nebbia disvela,

comincia a far vela,

nel tremulo spazio,

la nave del dì!



X


Carlo, e mentre si aprian tarlate imposte

di cascinali, ed apparian d'un tratto

camicie bianche alle finestre nere,

e, nella brina, per sentieri ignoti,

già cigolava qualche vigil carro

da cui, forse dicendo una preghiera,

guardava il parco leggendario un pio

beneditor di solchi, uscì da un cespo

di tuberosi, interprete io suppongo

di quel verde mister che mi invaghiva,

questo motto gentil:

' Tu ci hai compresi! '.


- FINE -


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