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Elsa morante (1912-1985) - i personaggi




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ELSA MORANTE (1912-1985)

Cronologia delle opere:

1948- Menzogna e sortilegio;

1963- Racconti in ' Lo scialle Andaluso

1957- L'isola di Arturo

1974- La Storia;

1982- Aracoeli.


Due elementi convivono da sempre nella scrittura della Morante:

- il senso di una letteratura demistificatoria, totalmente responsabile in direzione educativa, d'ispirazione realistica, ottocentesca sulle strutture scrittorie;

- la tendenza al magico, al fantastico, al surreale


Ne 'La Storia' (1974) i due elementi si fondono compiutamente nella rappresentazione di un'umanità composita e tragicamente segnata dall'irrazionale crudeltà della Storia, dominata da uomini dagli allucinati progetti distruttivi, da vassalli che sognano imperi romani e subita, nella più assoluta impotenza, da chi fa i conti con le misere ragioni della sopravvivenza quotidiana. In questo 'scandalo che dura da diecimila anni ' si dispongono squarci di mondo incontaminato ed innocente, quello degli occhi stupiti di Useppe attraverso cui il mondo reale perde la sua effettiva crudeltà per assumere connotazioni gioiose e piacevoli, e quello più consapevole, ma puro, degli animali (Bliz e Bella) capaci di amare in modo totalizzante, di difendere e sorvegliare fino allo stremo chi è loro affidato.


Mentre l'indicazione degli eventi della Storia, che la Morante appone all'inizio di ogni capitolo dei suo romanzo, scandisce i momenti delle guerre, delle alleanze, dei grandi progetti degli uomini di potere, più significativamente il contesto storico viene dall'autrice ricostruito attraverso personaggi di piccolo affare che nella loro storia, fatta di quotidiana miseria e sofferenza, vivono le vicende determinate dai grandi, non tanto senza possibilità di comprenderne le ragioni, perché esse razionali non sono, quanto senza possibilità di dominare gli eventi perché nessun potere, né economico né culturale né politico, essi hanno.





I PERSONAGGI


Gunther


La figura di Gunther e di Nora Almagià dominano nelle prime pagine del romanzo.

Gunther era un soldato tedesco che, in contrasto con la sua andatura marziale, aveva uno sguardo disperato e immaturo; cresciuto in un villaggio in Baviera aveva conosciuto solo la città di Monaco, dove andava per qualche lavoro di elettricista e per incontrarsi saltuariamente con un'anziana prostituta. Era stato trasportato a Roma dal Führer nel gennaio 1941 per una tappa preparatoria, prima di compiere un lungo viaggio verso una destinazione segreta. La sua indole era caratterizzata da numerosi contrasti: da un lato impaziente di avventura, dall'altro triste e malinconico per aver lasciato la propria patria; da un lato desideroso di compiere azioni eroiche, per far onore al suo Fuhrer, dall'altro convinto che la guerra fosse "un algebra errata, dalla quale bisognava mantenersi lontani". Il soldato Gunther era piuttosto timido, inesperto, ma soprattutto solo. La voglia d'esser a casa, rannicchiato nel suo letto, nella casa in cui aleggiava l'odore freddo e paludoso della campagna e quello tiepido del cavolo che sua madre ribolliva in cucina, lo spingeva lungo le strade del quartiere di S. Lorenzo, verso uno stato di solitudine e di amarezza. Anch'egli come molti altri personaggi che appaiono nel romanzo è vittima: 'Soldato che capitato nel quartiere di S. Lorenzo senza nessuna scelta, come un imputato accerchiato dalle guardie che oramai, della sua ultima libertà irrisoria, non sapeva più che farsene'. Vittima di una Storia per lui incomprensibile, che sollecita come in Nino, il suo infantile desiderio di avventura, un'autentica avventura esotica, l'Africa'. Per uno appena cresciuto, che i suoi viaggi li faceva in bicicletta o sull'autobus che portava a Monaco, questo era un nome carico di misterioso significato. Se dal delirio guerrafondaio nazista Gunther derivava l'educazione alla brutalità, egli pure ha qualche tratto di tenerezza: "Rimaneva mammarolo' e 'si sentiva come un gatto dentro al sacco, portato di peso verso il continente nero', quello appunto che stava per raggiungere, se non l'avesse ingoiato il Mediterraneo tre giorni dopo l'incontro con Ida. Più vittima, insomma, che carnefice, Gunther ha gesti di gentilezza anche nei confronti di Ida che subisce la sua violenza. 'Sul punto di andarsene, gli venne l'idea di lasciarle un ricordo, secondo un'usanza tenuta in certi suoi addii con altre ragazze. Però, non sapendo che cosa darle, mentre si frugava nelle tasche vi ritrovò il suo famoso coltelluccio; e per quanto il sacrificio gli costasse, lo depose nel palmo di lei, senz'altre spiegazioni. In cambio, lui voleva pure portarsi un ricordo. E girava lo sguardo perplesso intorno alla stanza, senza scoprirvi niente; quando gli cadde sott'occhio un mazzetto dì fiori d'aspetto pesto e quasi unto (offerta di scolari poveri) che nessuno s'era curato di mettere in fresco dalla mattina e giaceva su una mensola mezzo appassito; allora, ne staccò una piccola corolla rossiccia e deponendola con serietà in mezzo a certe sue carte nel portafoglio disse: 'Mein ganzes Leben lang!' (Per tutta la vita).



Nora


Nora Almagià, padovana di famiglia piccolo- borghese bottegaia, moglie di Giuseppe Raimundo, era ebrea, ma non voleva farlo sapere a nessuno tanto che in diverse occasioni camuffava il proprio cognome, convertendolo da Almagià in Almagìa. Non aveva qualità speciali, non era né intelligente, né bella, ma di certo era graziosa. Era di abitudini modeste e di carattere timido, specie con gli estranei. La sua natura introversa era caratterizzata da sbalzi d'umore, che si accendevano nel buio dei suoi occhi da zingara. Da un eccessivo sentimentalismo giovanile, ad inquietudini capaci di assediarla giorno e notte, fino a divenire fissazioni, l'oggetto dei suoi sfoghi era Giuseppe, ovvero suo marito. Si voltava contro di lui come una strega, rinfacciandogli la nascita, il paese, i parenti.

Il carattere di Nora, tormentata ed inconsuetamente irascibile, appare, fin dall'inizio, determinato dal terribile segreto d'esser ebrea. 'Per non farsi udire dal vicinato Nora badava a tener bassa la voce e porte e finestre chiuse, come se intorno alle loro stanzucce sbarrate, ci fosse un'enorme folla di testimoni in ascolto". Quando, nel 1938, l'Italia intono' il coro ufficiale della propaganda antisemita, essa vide la mole fragorosa del destino avanzare verso la sua porta, ingrossandosi di giorno in giorno. I notiziari radiofonici, con le loro voci roboanti e minatorie, già sembravano invadere fisicamente le sue stanzette, spargendovi il panico; ma tanto più' lei si sentiva costretta, per non trovarsi impreparata, a seguire quei notiziari. 'La notizia del prossimo censimento, l'obbligo dell'autodenuncia, forse più dell'arteriosclerosi che la minacciava determinarono un incupirsi del suo carattere già schivo. Nora finirà con l'uscire raramente di casa, col non rispondere al saluto della gente e col sentire bussare alla porta di casa in piena notte.

Le pagine più significative del personaggio di Nora Almagià sono quelle in cui si raccontano le circostanze della sua morte. 'Le veniva l'idea di lasciare Cosenza, di trasferirsi altrove. Ma dove e da chi? A Padova, dai suoi scarsi parenti ebrei, non era possibile; a Roma, da sua figlia, o dai suoi suoceri; nelle campagne di Reggio.Per quanto lei seguitasse a farsi proposte diverse, esaminando tutti i continenti e i paesi, per lei, nell'interno del globo, non c'era nessun posto. Nel corso degli ultimi mesi, aveva udito parlare, forse alla radio, di emigrazioni ebraiche in Palestina, e della Palestina altro non sapeva se non ch'era la patria biblica degli Ebrei, e che la sua capitale era Gerusalemme. Ma pure, venne a conclusione che l'unico luogo dove poteva esser accolta era la Palestina. Così, una sera all'improvviso, decise di fuggire per via mare, dal momento che aveva calcolato che da Cosenza a Gerusalemme per via terra non conveniva. Qualcuno ricordava di averla vista sull'ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. E difatti è là, in quei dintorni, che fu ritrovata. Nella folle decisione di andare da Cosenza a Gerusalemme, Nora traduce il suo desiderio di identità negata e di liberazione dalle paure che l'avevano sempre accompagnata e nella sua morte solitaria 'in una bellissima notte, illune, quiete e stellata', 'sul mantello di lana rustica marrone" sta il momento privilegiato della sua esistenza inquieta: la posa rilassata e naturale del suo corpo, la grazia dei suoi capelli zuppi d'acqua, sono il rovescio speculare dei mucchi di cadaveri ebrei che Useppe scoprirà sulle pagine dei giornali.


Nino


Nino, primogenito di Ida, seppur presente con discontinuità nel romanzo, è da considerare come uno dei personaggi principali. Sin dalle prime pagine, la narratrice mette in evidenza il carattere turbolento, passionale e volto all'avventura del giovane, che tenta in ogni modo di attirare su sé l'attenzione di quanti lo circondano. Egli viene descritto nel periodo più turbolento della sua vita, il passaggio dall'adolescenza all'età adulta, durante il quale il cambiamento improvviso del suo aspetto fisico gli dona fin troppa sicurezza. Questo sentimento si traduce in gesti e atteggiamento che esercitano un grande fascino su chi gli sta attorno: al suo ritorno in classe dopo ore trascorse a bighellonare per i corridoi della scuola, i compagni lo guardavano con occhiate colme di ammirazione e omertà; i suoi compagni della ' Libera ', Quattropunte, Tartan, Decimo, ed anche Giuseppe Secondo, sottostavano alla sua autorità con orgoglio e piacere, per il coraggio dimostrato da Nino in molte azioni di guerriglia ad alto rischio.

L'animo impetuoso di Nino, unito all'eccessiva libertà concessagli, fa sì che egli quasi fugga da casa, ma soprattutto da Ida che aveva tentato in ogni modo di contenere il suo ardore adolescenziale, prima costringendolo a frequentare la scuola e, successivamente, cercando di impedire il suo arruolamento nell'esercito. Anche nel rapporto con Ida traspare il carisma e la strafottenza di Nino nei confronti della madre; prova ne sia che, durante le visite al ricovero di Pietralata, Nino diventa il protagonista, e poiché egli non presta attenzione alla presenza della madre, Ida retrocede a personaggio secondario, divenendo quasi un'ombra all'interno dello stanzone ove tutti, lei compresa, sono intenti ad ascoltare le eroiche gesta del partigiano Nino. Poche parole intercorrono tra Nino e la madre sul "grande segreto" di quest'ultima: « che tu SEI GIUDIA, è da mo' che ce lo sapevo, a mà». Per Nino il fatto che la madre fosse ebrea non rappresenta un problema ma anzi un "onore": « anche Carlo Marx era ebreo », afferma, e subito dopo tiene a sottolineare la condizione propria e di Useppe di non giudei. Analizzando più da vicino questa reazione di Nino, è possibile evidenziare un atteggiamento ambivalente: se dal punto di vista etico non rappresenta un problema l'appartenenza al ceppo ebraico, dal punto di vista pratico egli avverte il pericolo che tale condizione potrebbe arrecare e, per questa ragione, tiene a precisare che né lui né il fratellino sono ebrei, dato che Useppe è l'unica persona a cui realmente sia legato.

D'altra parte, anche i rapporti con Useppe appaiono ambigui. Anche se in certi momenti sembra essere palese l'affetto nei confronti del bambino, ad esempio durante le escursioni nel quartiere di San Lorenzo con Useppe e Bliz, o durante le visite al rifugio, altre volte sembra che Nino approfitti dell'ingenuità dei fratello facendogli promesse che sa di non poter mantenere. A parte il carattere uno dei fattori che maggiormente caratterizza questo personaggio è il cambiamento del suo orientamento politico: da fascista qual era egli diviene improvvisamente comunista. Tale atteggiamento appare del tutto destituito di fondamento ideologico, ed è piuttosto espressione di quel desiderio di avventura, trasgressione e insofferenza al conformismo, che sono propri dell'adolescenza di Nino. Diverse volte nel romanzo appaiono descrizioni che sono espressione evidente di questo atteggiamento: una volta aveva menato un suo coetaneo che aveva insultato il duce dicendo che "era un vecchietto di una sessantina di anni circa" ;durante una scorribanda notturna per la città, aveva tracciato sul muro di Palazzo Venezia, ove teneva ufficio il duce, "VIVA STALIN" e « si sarebbe divertito ugualmente a scrivere "VIVA HITLER" sulle mura del Cremlino ».Così partito per il Nord con cinturone e camicia nera, Nino torna cantando "Bandiera Rossa", impavido e inafferrabile partigiano. Appare evidente il fatto che Nino sia entrato a far parte del gruppo partigiano della "Libera", divenendone il leader, non spinto da effettive motivazioni ideologiche, ma poiché era un'occasione che gli dava l'opportunità di dimostrare il suo coraggio e, contemporaneamente, di soddisfare il suo desiderio di rivalsa nei confronti del mondo. Finirà bandito e contrabbandiere.



Useppe


Il piccolo Useppe è uno dei protagonisti de "La Storia" di Elsa Morante. Useppe non è solo un bambino, un bambino, per così dire "normale": in quanto frutto di una violenza gratuita da parte del soldato tedesco Gunther nei confronti della maestrina Ida, è quindi anche frutto del caso.

Crescendo naturalmente senza padre, trova un punto di riferimento, per la verità non tanto stabile, in Nino, il fratello maggiore, per il quale nutre un profondo affetto e una sincera ammirazione, nonché un commovente senso di protezione.

Useppe non conosce la paura, ma un'unica, spontanea confidenza nei confronti delle persone che incontra nel suo destino di "fuggiasco" estraneo all Storia. La sua minuscola vita è sempre solitaria e isolata e spesso i suoi compagni di gioco sono gli animali, in particolari cani. Grazie alla sua straordinaria capacità di comunicazione, egli instaura uno strano rapporto di complicità e di amicizia con essi, che sembra quasi gli rispondano, e creano con lui perfino innumerevoli analogie di comportamento.

La sua tenera età è scandita dalla sua ingenuità illimitata malgrado le sue straordinarie precocità, fra le quali la più ammirata è la sua bravura sportiva. Una spensieratezza naturale dipinge il suo volto e descrive i gesti del piccolo Useppe, come se le atrocità che lo circondano non influenzino minimamente il suo carattere. L'estraneità alla Storia si manifesta anche attraverso le assenze dovute alla malattia di Useppe; i sintomi più gravi e convulsi dell'epilessia che lo ucciderà cominciano proprio quando gli orrori della Storia, a guerra finita, si rivelano inequivocabili agli occhi del bambino. Turbe notturne, mutamenti d'umore improvvisi, stato di salute instabile, e i conseguenti capricci, solitudini ed ire inconsuete lo rendono irriconoscibile, la sua vita diventa un susseguirsi di momenti di perdita totale della coscienza, sensazioni allucinatorie e voglie avventate di fuga. Il suo animo tormentato trova rifugio in una sorta di paradiso fuori dal tempo ai bordi del Tevere, tutto erba e acqua, cinguettii di uccelli e giochi di pirati. Qui Useppe trascorre le sue giornate in compagnia di una pastora maremmana ereditata dal fratello; qui fa nuove amicizie e scopre il mondo, "l'originale del mondo, di cui la Storia è solo una copia volgare".

La realtà può essere letta attraverso le notizie che ci vengono dalla crescita di questo bambino, dai anni di vita di Useppe. Per tutta la durata del romanzo la percezioni che questo bambino ha del mondo sono di natura duplice: da una parte uno "stupore titubante, e ancora confuso" come se le scene di morte non influissero minimamente sulla sua psiche, dall'altra, in seguito alla vista di atroci fotografie, gli occhi di Useppe si velano di una sensazione di orrore, lo stesso orrore percepito alla vista di alcuni deportati alla Stazione Tiburtina. ".a mà, pecchè." in questa bambinesca espressione si racchiudono tutti i perché del mondo di fronte all'orrore della guerra. Le sue favolose percezioni si sommano alle paure e ai sogni materni, alle percezioni limitate, ottuse, terra- terra di Ida, che involontariamente ne condiziona il modo di rapportarsi alla vita.

La Storia si presenta, dunque, incomprensibile alle diverse percezioni che ha un bambino. La guerra, ai suoi occhi, non è quella che appare agli adulti. Infatti una giornata ai Castelli con un gruppo di partigiani, la vita in un camerone infestato dagli odori di cani, di gatti, di canarini, topi, specie umana ed animale, possono essere fonte di gioia, un gioco. Ma la guerra finisce e, contraddittoriamente, una grande solitudine scende sui luoghi dove l'orrore, la speranza, l'inconscienza abitavano insieme.

Useppe muore, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore della fragile Ida, che negli ultimi sei anni aveva trasferito tutte le sue ragioni di vita sul figlioletto. "Essa, in realtà, era morta insieme al suo pischelletto Useppe (al pari dell'altra madre di costui, la pastora maremmana). Con quel lunedì di giugno del 1947, la povera storia di Iduzza Ramundo era finita".    


Vilma


Vilma compare nella prima parte del romanzo, quando Ida si reca nel Ghetto. Vilma è una ragazza invecchiata; il suo corpo è sempre in movimento e i suoi occhi, spesso dallo sguardo assente, sono luminosi.

Era orfana e, per bisogno, si era adattata a fare ogni sorta di lavoro, specialmente quelli più pesanti e andava in giro mendicando.

Tutti nel Ghetto la consideravano pazza, specialmente da quando aveva incominciato a portare informazioni strane da un convento dove lavorava e da una casa signorile dove si ascoltavano radio proibite. Avvisava le donne di mettere in salvo i propri figli prima dell'arrivo dei tedeschi, i quali, una volta occupato un paese, ammassavano da una parte gli ebrei senza distinzioni e li conducevano al di fuori dei confini: la maggior parte moriva durante il tragitto, gli adulti più robusti lavoravano come schiavi e i bambini venivano massacrati e buttati nelle fosse comuni.

Nessuno, credeva a queste parole, considerate fantasie. L'unica che la ascoltava era Ida che vedeva in lei una sorta di profetessa. I suoi discorsi risuonavano, nella sua mente, come delle vere e proprie predizioni che prima o poi avrebbero colpito anche la sua famiglia.


Signora Di Segni


La signora Di Segni è un'ebrea del ghetto, moglie di un certo Settimio Di Segni, padrone di una compravendita di cose usate dove spesso Ida si recava.

Questa signora appare per la prima volta nel quarto capitolo, quando Ida la incontra. Ma più che di un incontro si tratta di un inseguimento: Ida le corre dietro invano, cercando di parlarle. Ma ella, quasi del tutto estraniata dalla realtà e concentrata solo nella sua ricerca, ignora la presenza e le parole di Ida che per la prima volta rivela a qualcuno di essere ebrea.

Arrivata alla stazione, continua a correre tra i vagoni in cerca dei propri familiari, catturati dalle SS, e una volta trovatili tenta di salire con loro sul treno. Ella non ha paura di rivelare la propria identità né si preoccupa di ciò che l'aspetta, l'unico suo pensiero è ritrovare i suoi cari e condividere con loro anche un destino avverso.


Sia Vilma che la signora Di Segni appartengono a quella folla di personaggi che concorrono tutti a documentare la storia con la s minuscola, di contro a quella dei grandi con la 'S' maiuscola

Vilma è il più letterario dei personaggi del romanzo, affine com'è alla Cassandra di memoria omerica. Nell'opinione comune che ella sia una pazza, mentecatta, provocatoriamente la Morante connota la verità della Storia, tanto terribile da essere rifiutata dal senso comune, e presto dimenticata a guerra finita.

La signora Di Segni, potrebbe anch'essa essere considerata folle nel suo desiderio di omologazione al destino dei suoi, ma ad una lettura attenta si rivela essere umanissima espressione del quotidiano, priva com'è la sua descrizione di ogni romanticheria: "Sudava (era piuttosto obesa) e i capelli tagliati corti, grigiastri e ingialliti, le si appiccicavano sulla fronte".

L'impossibilità di esistere senza chi dà senso alla propria vita è urlata dalla signora Di Segni e rappresentata nel tentativo impossibile di forzare i vagoni piombati.

"Il misero vocio dei carri adescava" anche Ida 'con una dolcezza struggente". Ella infatti incominciava a ritrovare nella sua mente alcuni ricordi: le canzoni calabresi cantate da suo padre e la voce del suo violentatore che le sussurrava 'carina carina".



Ida Ramundo


La protagonista di questa storia, che si svolge a Roma sullo sfondo della grande Storia, negli anni della seconda guerra mondiale e dell'immediato dopoguerra. è: Ida Ramundo, vedova Mancuso, maestra elementare di mezza età tormentata da crisi epilettiche e angosciata a causa delle sue origini ebraiche.

Era figlia di due insegnanti, il padre Giuseppe Ramundo, di origini contadine e di ispirazione anarchica, la madre Eleonora Almagià, di origini ebrea. Nasce e vive in Calabria fino al matrimonio con Alfio Mancuso con cui si trasferisce a Roma e dove nasce il loro figlio Nino. Il rapporto con questo è piuttosto conflittuale: Ida rappresenta stabilità, paura, discrezione, debolezza; Nino, invece, anarchia, avventura, teppismo, esibizionismo, forza. Sono caratteri che emergono nel comportamento e nel linguaggio, laddove Ida tende all'eufemismo, al parlar italiano, e Nino alla volgarità, al dialetto e al gergo.

A Roma Ida mette al mondo un figlio dopo aver subito violenza da un soldato tedesco incontrato per caso nel quartiere di San Lorenzo "un giorno di gennaio dell'anno 1947": nasce cosi Useppe.

Sullo sfondo della storia familiare di Ida si delineano i grandi avvenimenti della Storia con la S maiuscola quella che dà il nome al romanzo e viene definita "uno scandalo che dura da diecimila anni". Il bombardamento di San Lorenzo, le persecuzioni e la deportazione degli ebrei, fuga dalla casa, la fame, la vita in comune con gli sfollati costituiscono le tappe fondamentali del romanzo e contribuiscono a segnare il carattere di Ida.

Espressione della mentalità piccolo- borghese Ida difende la sua dignità di maestra con l'orgoglio di chi vuole distinguersi da chi ella ritiene inferiore a sé; formale nei rapporti umani, è incapace di amicizia anche nei confronti di chi le mostra cordialità e calore: sospettava anche di Giuseppe Secondo che gentilmente si era offerto di aiutarla a portare Useppe, fino a Pietralata.

Prove terribili la costringono a situazioni che ledono la sua dimensione piccolo- borghese: più terribile dello stupro, che può essere celato agli altri, è la maternità illegittima nascosta con cura ossessiva; più terribile della fame cui la guerra stringe lei e Useppe, il furto che la allontana dal suo stato sociale.

Istruita quanto basta al suo ufficio di maestra, Ida è del tutto inadeguata a vivere la Storia con consapevolezza. Non seguiva le vicende della guerra se non attraverso gli annunci del figlio, Nino.

L'essere di madre ebrea avviliva il suo desiderio piccolo- borghese di essere 'in regola con la legge '; neanche lontanamente sfiorata dal dubbio che la legge fosse ingiusta o illogica, Ida è ossessionata dal bisogno di quantificare la sua colpa a tal punto da tracciare l'albero genealogico di Nino, per essere certa che egli risulti ariano.

Solo nelle pagine conclusive del romanzo, nella condizione che i normali chiamano follia, "nella mente stolida e malcresciuta di quella donnetta, mentre correva a precipizio per il suo piccolo alloggio, ruotarono anche le scene della storia umana (la Storia) che ella percepì come le spire multiple di un assassinio interminabile. E oggi l'ultimo assassinato era il suo bastarduccio Useppe". Ida muore in manicomio, nove anni dopo essere vissuta in uno stato di totale inconsapevolezza.



Giuseppe Ramundo


Padre di Ida e marito di Nora Almagià, proveniva da una famiglia di origine contadina, dell'estremo sud Calabrese. Di otto anni più giovane della moglie, era un uomo alto e corpulento, con le mani rozze e tozze, e la faccia grande, colorita e piena di simpatia. Da bambino per disgrazia, un colpo di zappa lo aveva ferito ad una gamba, lasciandolo leggermente storpiato per tutta la vita, sottolineando così quel senso di ingenuità fiduciosa che lui trasudava per natura. Appunto perché invalido per certi lavori di campagna, la sua famiglia di poveri dipendenti si era arrangiata a farlo studiare, mandandolo a istruirsi dai preti, con qualche aiuto del padrone terriero. Fu proprio questa esperienza, pretesca e padronale allo stesso tempo ad attizzare in lui, un certo bollore riposto; soprattutto su certi testi di Proudhon, Bakunin, Malatesta e altri anarchici, aveva fondato una sua fede ostinata, obbligata però a rimanere una sua propria eresia personale, dal momento che professarla gli era negato, sia tra le mura di casa che a scuola con i suoi alunni: era un maestro così come la moglie e la figlia.

Nora, la moglie, agli occhi di Giuseppe, rappresentava, nei suoi modi, nell'intelletto e nella forma, qualcosa di superiore e di delicato. Anche quando egli diventava l'oggetto naturale delle fissazioni inconsulte e vessatorie di Nora, le si avvicinava impietosito a consolarla esordendo magari con frasi del genere 'Mattuzza, sei babbarella sei..' , e Nora se lo riguardava intontita, con gli occhi parlanti di infinito amore.

Giuseppe per il bene di Iduzza, aveva anche acconsentito, benché recalcitante, a battezzarla cattolica, e perfino a piegarsi durante la cerimonia, per gli occhi del mondo, a farsi in fretta e furia un gran segnaccio di croce, proprio lui che in privato, sul conto di Dio era solito a citare il detto 'l'ipotesi Dio è inutile'.

Aveva il vizio di bere e questo era, insieme alla identità ebrea di Nora e al male innominato di Ida, un altro grande segreto della famiglia Ramundo. Questa forse era l'unica colpa di quest'uomo ateo e senza malizia, il quale per tutta la vita, seguitò a spedire una gran parte del suo stipendio, e infine tutto nel periodo del dopoguerra, ai genitori e ai fratelli più poveri di lui, e ad amare più di tutto e tutti al mondo, Iduzza e Noruzza, fino al punto di scrivere per loro alcuni madrigali. Delle sue bevute egli non poteva fare a meno, e rinunciava visto il suo lavoro di maestro a frequentare le osterie, dedicandosi al suo vino in casa, la sera e specie il sabato.

Era soprattutto in questo stato, durante la sbronza, a sfogare spensierato i propri ideali clandestini che inevitabilmente sfociavano in alcuni soliloqui da vero attore protagonista, nel quale venivano sbandierati ai quattro venti parole come 'ANARCHIA, TRADIMENTO, LIBERTA', RIVOLUZIONE'. Era allora, che Nora cominciava a scongiurare quel silenzio desiderato così ardentemente perché tutti avrebbero potuto sapere quelle verità che lei nascondeva da diversi anni nella sua famiglia. Errava da un muro all'altro col fare di un'ossessa, chiudendo porte e finestre al fine di soffocare agli orecchi dei vicini o dei passanti simili proposizioni eversive, convinta che certe parole proferite nella casa di maestri di scuola scatenassero uno scandalo universale. Si dibatteva e si scatenava, sforzandosi di gridare a bassa voce per far ragionare il marito e infine stremata si accasciava sul divano dove prontamente le si avvicinava Giuseppe premuroso, scusandosi e baciandole, come a una nobildonna, le mani smagrite e quasi invecchiate dal troppo lavoro.

Dopo ogni sbronza Giuseppe si trasformava. Scioglieva in pieno il suo buon umore naturale e la sua cultura di contadino, parente antico degli animali e delle piante. E allora cominciava a raccontare fiabe calabresi, volgendole al comico quand'erano tragiche, poiché così le risate pazzarielle di Iduzza, si sarebbero perse come musica melodiosa nella stanza.

Erano piccoli e brevi momenti in cui la famiglia dimenticava quegli 'indelebili' segreti di cui solo i componenti erano a conoscenza e quella triste e dura realtà esterna al focolare domestico.

La figura di Giuseppe rappresentava una sorta di carrozzella calda, luminosa e zoppicante, più inespugnabile di un carro armato agli occhi di Iduzza, che, accanto al padre, ma soprattutto davanti al suo viso rassicurante, perdeva ogni paura, così come le accadeva dopo ogni crisi, benché lei stessa non si rendesse conto di chi o di che cosa la portasse via da quella strana realtà di bambina che ancora viveva. Proprio riguardo queste crisi Giuseppe aveva delle proprie idee filosofiche - politiche che lo dipingevano come un positivista. Infatti, essendo uscito da quel cerchio magico della cultura contadina, era convinto che certi fenomeni morbosi non potevano derivare che da disfunzioni o infermità del corpo, e in proposito lo sgomentava il sospetto malcelato di essere stato lui stesso ad aver, a causa dell'alcool contaminato il sangue della figlia, sospetti che Nora ammoniva con una grinta fuori dal comune, infondendo nel marito un minimo barlume di saggezza e di buon senso riguardo alla faccenda. Alfio, il marito di Ida, somigliava molto a Giuseppe, fu per questo, forse, che Ida si affezionò presto al suo pretendente. Tutti e due nell'aspetto e nei modi erano simili a grossi cani da campagna, sempre pronti a far festa a qualsiasi favore della vita e fungevano da guardiani e da scudo contro le violenze esterne della loro Iduzza, e con il loro buon umore istintivo e il gusto ingenuo di pazziare, sostituivano per lei poco socievole per natura, la compagnia dei suoi coetanei e degli amici.

Giuseppe dopo il matrimonio della figlia, riuscì a sopportare con rassegnazione la grande mancanza, che da principio gli sembrò un furto, solo grazie alle visite estive di Iduzza e del figlio Ninarieddu, che ogni volta restituivano al suo viso ormai rugato dagli anni, quel brio di cane allegro. L'altro momento di svago era rappresentato da quella piccola osteriola che aveva cominciato a frequentare, e dove finalmente aveva potuto dare sfogo ai suoi pensieri anche se per poco tempo, perché l'osteria dovette chiudere, a causa di alcune denunce, e presto Giuseppe fu messo a riposo all'età di 54 anni. A gettarlo nella malinconia, non fu il fatto di non poter più insegnare, o che l'osteria venne chiusa o il non poter parlare con nessuno, nemmeno con la sua adorata Nora, ma il semplice pensiero che in uno di quei 'fratelli' (così li chiamava), potesse nascondersi un 'giuda', una spia insomma.

Nel vedere anche la moglie così logora e intristita, Giuseppe, diverse volte progettò di fare un viaggio per andare a trovare i suoi parenti ma in realtà si era ormai così infiacchito da quando aveva smesso di insegnare, che non aveva più la forza fisica di partire; non frequentava più nessuna osteria, e anche se per rispetto a Nora, a casa evitava di bere eccessivamente, e solo in qualche suo buio e remoto nascondiglio, doveva ancora saziare quella morbosa sete di alcool.

Fu ucciso da una cirrosi del fegato nel 1936.



Davide


." Lo Stato è l'autorità, il dominio e la forza organizzata delle classi proprietarie e sedicenti illuminate sulle masse. Esso garantisce sempre ciò che trova: agli uni la libertà fondata sulla proprietà, agli altri, la schiavitù, conseguenza fatale della loro miseria. Bakunin!"


"Anarchia, al giorno d'oggi, è l'attacco, è la guerra ad ogni autorità, ad ogni potere, ad ogni Stato. Nella società futura l'anarchia sarà la difesa, l'impedimento opposto al ristabilimento di qualsiasi autorità, di qualsiasi potere, di qualsiasi Stato. Cafiero!"


."Le libertà non vengono date. Si prendono. Kropotkin!"

."Il rifiuto di obbedienza diventerà sempre più frequente; e allora non rimarrà che il ricordo della guerra e dell'esercito come attualmente si configurano. E questi tempi sono vicini. Tolstoi!"


"Il popolo è sempre il mostro che ha bisogno della museruola, che va curato con la colonizzazione e la guerra e ricacciato fuori del diritto. Proudhon!"


In queste citazioni di Giuseppe Ramundo sta il quadro di riferimento dell'ideologia anarchica che, attraverso la sua elementare razionalità, nel romanzo fa da contrappunto all'irrazionalità della Storia.

L'anarchia è elemento qualificante di due personaggi, Giuseppe e Davide, che                 rispettivamente sono collocati l'uno all'inizio del romanzo, l'altro alla fine. Personaggi diversissimo l'uno tendenzialmente estroverso, l'altro disperatamente introverso, hanno in comune la consapevolezza d'essere destinati a rimanere inascoltate voci minoritarie in un mondo dominato dall'insensatezza, avvertita da Giuseppe come conseguenza della mancata rivoluzione da lui sognata, che lo faceva invecchiare peggio di una malattia (Vedere questa parodia cupa trionfare al posto dell'altra rivoluzione, per lui era come ' masticare ogni giorno una poltiglia disgustosa, che gli voltava lo stomaco). Le terre occupate erano state ritolte ai contadini con brutalità definitiva, e restituite ai possidenti soddisfatti. I personaggi a lui più odiosi della città, adesso andavano in giro a pancia in fuori come sovrani reintegrati nel dominio. A scuola, a casa e fra le conoscenze cittadine, il maestro Ramundo tuttavia si sforzava a un conformismo di maniera, anche per non peggiorare con troppe ansie la salute di Nora che s'andava pian piano deteriorando. L'insensatezza della moglie era ora diventava più che mai "stizzosa, tormentosa e persino persecutoria", riducendosi all'estremo logoramento dei nervi; ora avvertita da Davide come faciloneria con cui trattati i suoi discorsi all'osteria, quando, anche se a spezzoni e nella confusione generale con una specie di sorda fiducia, criticava quel sistema che, non cambiando mai e portando solo 'false maschere' rendeva l'umanità materia inerte, la terra industria di sterminio e la guerra un capitolo chiuso e dimenticato, su cui dominava l'arroganza degli ignoranti che sanno solo di calcio ("e quale sarebbe, questa rivoluzione buona?" "secondo me là il pasticcio l'aveva combinato l'arbitro ").

Alla Storia il buon Giuseppe opponeva l'intenso affetto dei suoi gesti per calmare Nora, mentre Davide opponeva la disperata, inascoltata, spiegazione storica delle regioni del suo credo: 'Una storia con la S maiuscola, protagonista di fascismi, o fascismi protagonisti della storia, dove le pretese rivoluzioni si possono intendere solo nel senso astronomico della parola, "moto dei corpi intorno a un centro di gravità: il potere", che cessando di fingere solo negli ultimi anni, con il suo pugno di ferro riporta tutto nell'ordine previsto'; il potere economico (' al suo passaggio non lascia che una striscia bavosa repulsiva, un pus d'infezione e dove attacca, riduce ogni sostanza vitale e inanimata a necrosi e marciume

come fa la lebbra Si credono degli esseri interi, mentre sono solo dei monconi e la loro     massima sventura è questa ignoranza ottusa, impenetrabile '); il potere politico e il potere della chiesa, hanno un unico antagonista: l'anarchia e la rivoluzione: ("Nessun potere, di nessun tipo, a nessuno, su nessuno Potere e borghesia sono inseparabili poiché la simbiosi è ormai stabilita. Dovunque si trovino i poteri là ci cresce la borghesia, 'come i parassiti nelle cloache ") e la rivoluzione è espressione della natura: ('La natura è di tutti i viventi era nata libera, aperta e loro l' hanno compressa e anchilosata per farsela entrare nelle loro tasche' 'Tutti i loro valori sono falsi essi campano di surrogati " Si diagnosticava il male borghese come sintomatico di una classe, mentre invece il male borghese è la degenerazione cruciale, eruttiva, dell'eterna piaga maligna che infetta la storia . La borghesia segue la tattica della terra bruciata ").

Giuseppe mantiene, negli spazi del romanzo, una sua dimensione affettiva intensamente rappresentata nel rapporto con Nora, Iduzza e poi Alfio, Davide è personaggio più problematico e complesso: il primo vive ante rem, il secondo post rem. Davide risente, perciò, della violenza prodotta su di sé, la famiglia, la storia, in modo freddamente programmatico; una violenza che le coscienze della gente comune tende frettolosamente a dimenticare. "Io sono ebreo" l'affermazione carica di rabbia, impotenza e disperazione che Davide pronunzia con l'intento di spiegare tutto a chi è vicino a lui, cade nell'indifferenza più assoluta, insignificante per i più, accolta solo da pochi, più interessati a rimuoverne il significato e le implicazioni che una storia recente aveva prodotto, piuttosto che ad approfondirlo.


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