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Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez
In numerose opere di ogni epoca è presente il tema del viaggio, in nave o con altri mezzi, caricato di significati metaforici e simbolici. L'opera più famosa a riguardo è sicuramente L'Odissea di Omero. Nella cultura della prima età moderna il tema del viaggio dovrà fare i conti con un fattore nuovo: le scoperte geografiche che avranno un impatto straordinario a più livelli. L'opera che analizzeremo, seppur scritta nell'Ottocento, riguarda proprio queste scoperte e fa parte delle Operette Morali di Giacomo Leopardi, si tratta del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez.
Giacomo Leopardi nacque il 28 giugno 1798 a Recanati, piccolo borgo dello Stato Pontificio, arretrato sia politicamente che culturalmente.
La sua eccezionale intelligenza gli consentì di formarsi da autodidatta nella biblioteca del padre, dove si formarono l'interesse e la passione per i classici.
I "sette anni di studio matto e disperatissimo", come li descrisse Leopardi stesso, rovinarono la sua salute. Soffrì di gravi problemi fisici e malattie che, uniti alla tendenza all'isolamento, furono all'origine dello sconforto per la mancanza di amore. Furono causa di frustrazione anche il clima gretto e arretrato del paese e gli ostacoli frapposti dalla famiglia al suo desiderio di libertà. Per questi motivi, ma anche per gli eventi storici del periodo, si accesero in lui il pessimismo, la disillusione e una generale diffidenza verso tutto.
Tra il 1816 e il 1819 si verificano importanti cambiamenti: l"dall'erudizione al bello", "dal bello al vero": la lenta, dolorosa strada suggerita dalla ragione.
Nel 1822 riuscì per la prima volta a lasciare Recanati per recarsi a Roma, ma il soggiorno fu breve perché restò molto deluso dalla mediocrità dei letterati conosciuti e dalla grettezza e falsità degli uomini incontrati. In seguito, nel 1825, si recò a Milano per offerta ricevuta dell'editore Stella. Negli anni successivi visitò Bologna, Firenze e Pisa, dove le sue condizioni fisiche peggiorarono notevolmente. Nel 1828 fece ritorno a Recanati.
Nel 1830 a Firenze conobbe di Antonio Ranieri, con cui allacciò una forte amicizia che lo portò nel 1833 a trasferirsi a Napoli. Qui si aggravarono ulteriormente le sue condizioni di salute e il 14 giugno 1837, a soli 39 anni, morì.
Nella sua maturità Giacomo Leopardi si sentiva prima di tutto un filosofo e un moralista. La sua visione del mondo era caratterizzata da un forte pessimismo che tradizionalmente vengono suddivisi in tre periodi: il pessimismo soggettivo, il pessimismo storico e il pessimismo cosmico. In questa sede saranno analizzate solo le ultime due categorie, infatti il passaggio tra i primi due momenti non è marcato come il passaggio tra pessimismo storico e pessimismo cosmico.[1]
La visione negativa di Leopardi si fonda sui presupposti della sua teoria del piacere, il cui assunto principale è l'impossibilità per l'uomo di raggiungere la felicità, che consiste in un piacere infinito e assoluto. L'uomo non può essere quindi appagato dai singoli piaceri, in quanto limitati e temporanei. Si sviluppano così la percezione della "nullità di tutte le cose" e i temi della vanità della gloria e della vita che, priva di scopi e ridotta a mera esistenza, è destinata a concludersi con la morte.
Il pessimismo storico nasce nel momento in cui Leopardi si rende conto che tutto è falso.
Leopardi parte dal presupposto di una separazione fra fantasia e incivilimento: il moderno è di per sé impoetico perché non tocca le corde del cuore umano. Diventa quindi necessario recuperare il rapporto ingenuo, spontaneo e immediato degli antichi e la naturalezza del loro stile. Infatti egli sosteneva, ispirandosi a Rousseau, che gli uomini furono felici solo nell'età primitiva, quando vivevano secondo le leggi della natura. Leopardi stesso dirà "La storia degli uomini non è progresso, ma decadenza da uno stato di inconscia felicità naturale ad uno stato di consapevole dolore, messo in luce dalla ragione".
Solo ricreando questo sentimento naturale scomparso con l'età moderna è possibile ricreare la vera poesia che si nutre di immaginazione pura.
Anche se per Leopardi lo scopo della poesia è generare diletto, essa non è però disimpegnata: la bellezza è infatti un valore in grado di salvare l'umanità, di suscitare passioni e veicolare nobili illusioni che possono avere anche una funzione educativa e di stimolo.
Grazie allo studio di numerosi autori greci, come Teofrasto e Plutarco, Leopardi sviluppa il pessimismo cosmico. L'infelicità non è propria dell'uomo moderno: affliggeva gli antichi e tutte le creature, presente in tutte le epoche. Leopardi giunge quindi alla conclusione che l'universo, in cui dominano il dolore e l'irrazionalità, non sia fatto per l'uomo, che aspira alla felicità e al governo della ragione.
La natura non è più considerata dal poeta la madre benigna che cerca di coprire la verità amara con le illusioni, ma è proprio la causa stessa del dolore, perché ha creato nell'uomo un forte desiderio di felicità pur sapendo che non sarebbe mai riuscito a raggiungerla.
Lo Zibaldone è un quaderno in cui Leopardi dal 1817 annotava, disordinatamente e senza fini di pubblicazione, appunti, notizie e pensieri, in una prosa diretta che registra il duttile pensiero dell'autore. Soprattutto nella prima parte, trova spazio un'ampia riflessione estetica, ricca di importanti osservazioni sull'opera letteraria. A partire dal 1820, lo Zibaldone diventerà un vero e proprio diario di vita e di lavoro, che, alla fine del 1827, con oltre 4500 pagine, sarà luogo fondamentale di raccolta e approfondimento del pensiero leopardiano in un ambito vastissimo di campi che l'autore successivamente razionalizzerà, ricreando percorsi tematici e individuando veri e propri trattati sugli argomenti.
Lo Zibaldone riflette la volontà di Leopardi di essere, innanzitutto, un filosofo con un proprio sistema unitario di pensiero e riflessione. Rispecchia quindi il dinamico sviluppo della sua formazione negli anni e ci permette di identificare i presupposti teorici e le occasioni ispiratrici, legate a fantasia, impressioni e ricordi, alla base delle grandi opere letterarie leopardiane. Dal 1827 la stesura del diario diviene sempre meno frequente e in prevalenza dedicata a notazioni filologiche linguistiche, fino al suo abbandono nel dicembre 1832.
Ma lo Zibaldone, come già detto, non era un'opera destinata alla pubblicazione. Leopardi scrisse anche un'opera nella quale elaborò molto precisamente le idee già espresse nello Zibaldone. L'opera si intitola Le Operette morali.
Leopardi, in una lettera all'amico Pietro Giordani già nel 1820, scrive di aver "immaginato e abbozzato certe prosette satiriche". In seguito all'approdo al pessimismo materialista e al triste soggiorno romano del 1823, egli affida all'opera la propria visione del mondo e la propria posizione verso i contemporanei.
Le venti prose della prima edizione delle Operette morali sono scritte dal gennaio al novembre del 1824 e vengono stampate nel 1827 a Milano presso l'editore Stella.
Nell'edizione del 1834 pubblicata da Piatti a Firenze vengono aggiunte due operette del 1832; alcune prose, che Leopardi non riesce a pubblicare a causa della censura, vengono inserite nell'edizione curata da Antonio Ranieri del 1845, contenente ventiquattro operette.
Il titolo dell'opera ne riassume il carattere filosofico e insieme satirico, data la connotazione comica che viene conferita all'aggettivo morali dal diminutivo operette.
Le fonti leopardiane sono da ricercare nel genere morale antico, in particolare Isocrate, Plutarco, Luciano di Samosata. Questi autori facevano parte di un progetto editoriale del 1824, curato da Leopardi che prevedeva la traduzione di una Scelta di Moralisti greci per l'editore Stella; fu però censurato.
L'opera si compone soprattutto di Dialoghi tra personaggi di grande varietà (immaginari, storici, mitologici, filosofici, letterari, comuni, inanimati o simbolici). Ne deriva una molteplicità di temi modulati con grande sapienza.
Leopardi pensa per quest'opera a una lingua più ironica e disincantata, che sia strumento di indagine filosofica e ricerca della verità.
Nelle Operette morali il tema del viaggio viene ripreso, in un'accezione particolare: è viaggio di scoperta, impresa temeraria alla conquista dell'ignoto. E' la sfida di Cristoforo Colombo che tenta la rotta verso le Indie, passando da Occidente.
Il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez[2] viene composto tra il 19 e il 25 ottobre 1824 a Recanati ed è presente in tutte le edizioni delle Operette morali, ma esce ancor prima sull'"Antologia"[3] di Firenze e sul milanese "Nuovo Ricoglitore" nel 1826 insieme ad altre due operette.
Alle domande dell'amico Gutierrez, che inizia a dubitare di trovare terre emerse nella nuova direzione, Colombo non sa opporre valide argomentazioni. Anzi, confessa che le speranze che lo avevano condotto all'ardita navigazione, che ha messo a repentaglio la sua vita e quella dei suoi uomini, gli sembrano ora fallaci. Si sente totalmente smarrito nell'ignoto: la sua mente di audace navigatore, che si è appoggiata alle più rivoluzionarie teorie scientifiche, è in totale balia del mistero. Il primo tema presente è dunque la demistificazione del viaggio come tentativo vano di carpire i segreti della natura.
Tuttavia il viaggio ha un'altra valenza importante e questa volta positiva. Si lega all'insopprimibile spirito della vita, un istinto altrettanto misterioso. "Di questo dialogo viene messa soprattutto in risalto la tesi della necessità del rischio a sollevare la vita dalla noia"[4]. Se il dolore e la noia dominano l'esistenza, c'è pure in essa il vivo desiderio della felicità, di una pienezza dell'essere, che la ragione scopre illusoria, ma tuttavia ineliminabile. Vengono così connotati positivamente la navigazione, il balzo nel buio e nell'ignoto; quel rischio che solo può dare all'uomo l'illusione di ricominciare la vita in uno slancio costruttivo, facendogli per un attimo scordare la consapevolezza del nulla in cui è immerso.
Il mare, che all'inizio suggerisce il senso del dubbio e dello scetticismo sulle false sicurezze umane, dà voce positiva a uno slancio speranzoso e, almeno parzialmente, liberatorio. Solo nell'attesa di qualcosa che non conosciamo, possiamo vivere l'unica felicità a noi concessa, creando con l'immaginazione una realtà conforme alle nostre profonde esigenze e attese.
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