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Dante e la tensione finito-infinito: percorso attraverso l'analisi del Canto XXXIII del Paradiso
Introduzione al rapporto Dio-Dante
L'infinito nella cosmologia dantesca: modernità nascosta dalla fede religiosa
Gesù Cristo e Maria: intermediario tra finito ed infinito
Il mistero della realtà del molteplice: l'essenza dell'universo
Dio: l'espressione dell'infinito ed il mistero della trinità
L'eterno mistero dell'incarnazione
Introduzione al rapporto Dio - Dante
".E' mi ricorda ch'io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi
l'aspetto mio col valore infinito"
[XXXIII, 79-81]
"Mi ricordo che proprio per questo (cioè per questo timore) io ebbi il coraggio di sostenere quel bagliore più a lungo (tale acuta luce), fino a che congiunsi la mia vista (aspetto) con l'infinito valore (cioè Dio)."
Dante, nell'ultimo canto del Paradiso, conduce l'uomo a vedere com'è fatto Dio, tentando di descriverlo con grande umiltà: è un dono per tutti noi; è necessario credere che ci sia stato veramente, come un mistico, perché dalle sue parole non sembra averlo soltanto sognato.
Nessuno mai, attraverso un cammino così arduo, era riuscito in questo intento: portare l'uomo dai più profondi e oscuri gironi infernali, passando per la faticosa scalata della montagna del Purgatorio, fino al completamento della sua redenzione, al cospetto di Dio, termine ultimo del suo cammino di fede.
Tutta la cantica, dunque, risente dell'inquietudine del poeta sempre teso verso l'Assoluto: la quasi spasmodica attesa si manifesta anche stilisticamente nelle terzine del Paradiso, che inizia e termina con l'immagine di Dio.
Prima ancora dell'io narrativo, infatti, compare 'la gloria di colui che tutto move'; solo in un secondo momento s'inserisce con modestia Dante, allo stesso tempo orgoglioso e trepidante per l'avventura mistica che è chiamato ad affrontare.
Dante e Dio, dunque, si presentano come estremi opposti: l'Uomo, cioè il finito, il limitato e Dio, cioè l'infinito e l'illimitato. La dicotomia, che è presente in maniera molto forte nel canto iniziale e in quello conclusivo di quest'ultima tappa della Commedia, viene però alla fine risolta.
Questi due termini opposti s'incontrano nei versi finali e, poiché il legame spirituale c'è sempre stato, avviene nella conclusione un incontro fisico, per quanto si possa parlare di fisicità in questo contesto.
Proprio sul tema dell'intimo rapporto che s'instaura fra finito ed infinito si basa la suggestione del Paradiso.
Il Sommo Poeta riesce a risolvere la tensione "Finito-Infinito" attraverso due aspetti diversi: il primo, in chiave astronomica - metafisica e il secondo in quella teologica.
L'infinito nella cosmologia dantesca: modernità nascosta dalla fede religiosa
Fino al XXX Canto, in cui avviene l'entrata del poeta nell'Empireo, Dante non si distacca mai dalla concezione aristotelica dell'universo, che pone al centro di un universo ordinato (il "cosmo") la Terra, sfera imperfetta dominata dai processi di trasformazione e di corruzione, di nascita e di morte.
La Terra è attorniata da corpi celesti, incastonati come gioielli in sfere concentriche di cristallo in perenne e costante movimento.
L'ultima sfera coincide con i confini del mondo, concluso e sospeso nel vuoto. L'uomo, nonostante la sua imperfezione, è posto al centro della "macchina" dell'universo.
". Il senso d'ampiezza e di distanza che ci dà questo cielo, il cono d'ombra della Terra che si proietta nello spazio, il lento sparire delle stelle, non sono puri elementi di paesaggio, sia pure con valore cosmico. Essi (quest'immagine) indicano la solitudine di Dante al momento supremo di lasciare lo spazio e il tempo e l'allontanarsi ormai al suo sguardo d'ogni cosa visibile.".
["L'uomo nel cosmo - Filosofia della natura e poesia in Dante", Patrick Boyde
(Professore di letteratura italiana all'Università di Cambridge)]
Anche se il cosmo coincide in gran parte col Paradiso, nell'Empireo Dante è giunto in una sovradimensione dove c'è il vuoto e si abbandona la concezione di spazio e di tempo.
L'Empireo è dunque il punto di partenza per il trapasso ad una realtà non rappresentabile. Sono ormai spariti i fidati cieli tolemaici dal momento che al di sopra della candida rosa dei beati è posto Dio, infinito, causa e fine di tutto, motore immobile, che raccoglie in sé la dimensione universale.
Dante cerca, dunque, di mostrare l'insolubile problema della saldatura tra il mondo sensibile e mondo intelligibile.
Egli sembra proporre un modello di universo infinito, che potrebbe richiamare alle più moderne teorie cosmologiche. Trattandosi di un uomo del Trecento sembra un'idea quasi inconcepibile.
In realtà riesce a legare il mistero dell'universo con quello divino, riconducendo in Dio l'inizio e la fine di tutto.
Gesù Cristo e Maria: intermediari tra finito ed infinito
Figura simbolo della dicotomia finito-infinito è certamente Cristo: la sua duplice Natura, umana e divina unisce l'uomo e la divinità, l'imperfetto ed il perfetto.
Egli è il simbolo più alto dell'amore di Dio verso l'uomo, in quanto è morto sulla croce, sottoposto alle più grandi sofferenze per redimere l'umanità dal peccato. Dante riesce dunque a mantenere il rapporto uomo-Dio attraverso la figura di Gesù, nella sua duplicità divina e umana.
Umanità che il poeta non perde mai di vista, neanche in quest'ultima cantica, proprio perché il suo viaggio non lo ha fatto soltanto per se stesso ma per tutti noi.
Analogamente a Gesù Cristo, si presenta come emblema dell'apparente contrapposizione tra limitato e illimitato anche la Vergine Madre: Maria, infatti, è l'anello di congiunzione tra il sommo Creatore e le sue creature.
Mentre Cristo rappresenta la dualità tra umano e divino, la Vergine rappresenta quella tra "Fattore e fattura". In Maria, infatti, la natura umana raggiunge la suprema nobiltà, tanto che il suo creatore non disdegnò prendere da lei l'umana carne.
Allo stesso modo s'inserisce il discorso sul finito e sull'infinito: come il Creatore, infinito, tende alla sua creatura, perché le infonde il soffio vitale di cui si parla nel canto I, così questa, finita, tende a sua volta verso Dio per colmare la sua imperfezione.
.tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
[XXXIII, 4-6]
". tu (Maria) sei che portò la natura umana ad un punto così elevato, che il creatore (Dio) non rifiutò di farsi sua creatura."
Questa è la seconda delle terzine con cui inizia il canto che fanno parte della preghiera. S. Bernardo alla Vergine. Maria è l'unica che può rivolgere lo sguardo a Dio ed intercedere per il poeta, affinché la sua mente e il suo cuore non vengano annullati dalla luce divina.
La Madonna accoglie la preghiera del mistico Bernardo, che a lei aveva dedicato tutta la vita con grande amore. Maria è dunque la massima espressione della creazione divina ed allo stesso tempo la più amata da Dio che Le ha affidato il destino di cambiare il mondo. Per questo motivo, è l'unica che con estrema naturalezza può indirizzare lo sguardo verso il Signore.
Anche l'elemento della luce rimanda a questa dualità: solamente grazie a questa, che si presenta come unica parte visibile e percepibile dell'ineffabile per eccellenza, cioè Dio, Dante riesce ad avvicinarcisi sempre di più. Rivolgendole completamente lo sguardo, invece di perdersi nella sua intensità, l'Uomo riesce a trovare la via da seguire.
Il "vivo raggio"inviato da Dio agisce sulla vista umana del pellegrino in modo diametralmente opposto a quello del sole: mentre guardare troppo a lungo l'astro diurno provoca la cecità, qui la provocherebbe smettere di guardare la luce del Signore. Perché questo fulgore d'intensità assoluta, oltre ad illuminare, trasmette la sua energia a chi vi fissa lo sguardo.
Il valore allegorico del fenomeno è chiaro: quando si è giunti alla visione di Dio, tutto il resto non ha più importanza, letteralmente svanisce.
Il mistero della realtà del molteplice: l'essenza dell'universo
"Nel suo profondo vidi che s'interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume.
[XXXIII, 85-90]
"Nella profondità dell'essenza di Dio, vidi che si raccoglie all'interno (in un'unità fatta d'amore) ciò che nell'universo si espande in pagine separate; realtà che esistono per se stesse e realtà contingenti, e tutte le loro relazioni, come fuse insieme, in un modo tale che ciò che dico qui non è che un pallido barlume".
Penetrando sempre più con lo sguardo nella luce, Dante riesce a vedere tutto l'Universo, tutti i suoi elementi costitutivi, uniti insieme in Dio, divenire una sola cosa: tutto ciò che discende da Dio, quindi, trova armonia ed unità solo in Dio, cioè solo in seno al suo Creatore. Perciò il finito può trovare quiete solo congiungendosi con l'infinito.
Nella profondità della luce divina si racchiude in un'unità fatta d'amore ciò che appare disperso nella molteplicità dell'universo, come i vari quaderni sparsi si riuniscono a formare un solo volume. Questa unità del molteplice è dunque raffigurata attraverso l'immagine del quaderno cara al poeta.
Infatti, ciò che si trova in Dio è unito in un volume unico e, dunque, ha un ordine ed un senso, contrariamente alle foglie sulle quali scriveva i messaggi la Sibilla (metafora usata nei vv. 64-66).
"Conflati", infatti, significa letteralmente soffiati insieme, quindi fusi l'uno dentro l'altro, quindi la fusione dei vari elementi dell'universo nell'unicità infinita del divino.
Dio: l'espressione dell'infinito ed il mistero della trinità
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto volume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;
e l'un da l'altro come iri da iri
parea riflesso, e'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
[XXXIII, 115-120]
"Nella profonda e luminosa (chiara) essenza di Dio mi apparvero tre cerchi, di tre colori diversi ma di uno stesso diametro (contenenza); e l'uno sembrava prodotto dal riflesso dell'altro, come arcobaleno da arcobaleno, mentre il terzo sembrava fuoco che fosse acceso in uguale misura dall'uno e dall'altro."
Dopo quell'istante in cui avviene l'incontro con Dio, Dante chiede ancora un'altra intercessione: che il ricordo possa rimanere per poterlo descrivere a tutti gli uomini. La Madonna, dunque, ha fatto rimanere il poeta sano e pervaso da un'immensa armonia.
Anche se continua a ripetere che nemmeno coloro che hanno una fantasia eccezionale possono descrivere le fattezze divine, dal momento che la parola è inadeguata a rappresentare la visione, il poeta riesce comunque a darne una descrizione affascinante anche se volutamente vaga.
All'interno dell'essenza divina egli vede tre infiniti cerchi, di diversi colori ma di una stessa dimensione e uno di essi pare riflesso dall'altro, come un secondo arcobaleno (iri) si genera dal primo mentre al centro è posto uno infuocato. Sono tre ma in realtà tutti fusi in uno solo, la Trinità: Dio, Gesù e lo Spirito Santo.
Il generarsi per riflesso del secondo arcobaleno identico al primo raffigura in modo quasi immateriale e con aerea bellezza, la generazione del Figlio dal Padre in tutto uguale a se stesso. Mentre lo spirare del terzo rappresenta il Santo Spiro, cioè il respiro divino, la forza vitale di Dio ed il suo amore, il desiderio di amare. Tutti abbiamo questo desiderio, anche Dio. Per questo motivo ha creato l'uomo; è l'unica giustificazione che si può dare pensando che la perfezione ha generato qualcosa di imperfetto e, dopo il peccato originale, ha fatto soffrire la sua incarnazione per salvarlo dal male.
Dante non ha più memoria di questa esperienza mistica, ma soltanto una forte emozione come qualcuno che, sapendo di aver fatto un sogno di straordinaria potenza, non è in grado di esprimerlo, ma porta nel suo cuore questa esperienza: la contemplazione di Dio, dell'Infinito e dell'Assoluto nella sua eternità.
L'eterno mistero dell'incarnazione
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume riflesso,
da li occhi miei alquanto circospetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che 'l mio viso in lei tutto era messo.
[XXXIII, 127-132]
"Quel cerchio (il secondo) che, così da me inteso (concetta), in te appariva come una luce riflesso,(il Figlio) contemplato attentamente da me, mi apparve recare dipinta al suo interno, col suo stesso colore, la figura umana: per cui il mio sguardo era totalmente fisso su di esso.
Nel secondo cerchio, quello generato da Dio, Dante intravede dei volti umani.
E' l'ultimo dei tre misteri del canto dopo quella dell'unità del molteplice e della Trinità: ossia l'Incarnazione.
Infatti, quella che il poeta vede è una non-immagine, visto che risulta impossibile distinguere una figura dipinta con lo stesso colore dello sfondo.
Anche questo paradosso figurativo è comunque coerente con la definizione teologica di Cristo, il Figlio di Dio: colui che, incarnandosi, restò quel che era, cioè Dio, diventando insieme quel che non era, cioè uomo.
Il Sommo Poeta, appellativo che perfettamente si addice per il suo estro creativo, ha visto dunque riflessi i volti di tutti noi.
Vede se stesso non vicino a Dio, ma in Dio, perché è Dio egli stesso. Anche se è impossibile capirne il motivo, Dante è sicuro che Dio è tutti noi: è questo il culmine della visione e del poema, supremo canto della dignità dell'uomo.
"Dio si è fatto uomo, perché l'uomo potesse farsi Dio".
(S. Agostino)
Dante ha raggiunto attraverso l'estasi della visione una condizione di perfetta beatitudine.
Anche nell'anima individuale si riproduce il moto dell'universo, il moto rotatorio delle sfere celesti che circondano terra, quello dei Beati che formano corone danzanti ed inneggianti e quello dei cerchi angelici che ruotano eternamente attratti dal loro punto-Dio.
Ormai l'anima di Dante ruota perfetta intorno a Dio, finendo con il somigliare a "Colui che move il sole e le altre stelle" e che racchiude in sé l'infinità universale.
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