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L'esperienza romantica italiana ha, in Alessandro Manzoni, il suo migliore interprete: non solo egli ne avvertì i complessi problemi religiosi, storici, morali, politici, ma ne accolse l'equilibrata misura nei confronti, sia della tradizione che delle idee provenienti d'oltr'alpe. La sintesi artistica cui egli giunse è la più coerente fra quante ne presenti la letteratura italiana del primo Ottocento: nessuna condiscendenza alla eccessiva sentimentalità, nessun esibizionismo autobiografico, nessun compiacimento per il drammatico contrasto tra il proprio lo e la società in cui si trovò a vivere.
Tutto il suo mondo poetico si accentra sul tema dell'uomo; tutto il suo mondo interiore è illuminato dalla fede nell'eternità dell'anima e dalla fiducia in Dio, cui fa da necessario complemento amore verso il proprio simile e, umile o grande che sia.
Entrambi i mondi hanno per oggetto la verità, che letterariamente è rappresentata dalla storia e dalla realtà, intesa come esperienza vissuta; spiritualmente è costituita, oltre che dal dogma cattolico, dalla imperscrutabile sapienza del Creatore, per cui la religione si trasforma in uno strumento di elevazione morale e l'anima, sorretta dalla grazia divina, può trovare conforto alla terrena ingiustizia nella speranza dì una giustizia suprema, può amorevolmente compatire, più che condannare, l'errore altrui.
Il poeta si abbandona alla contemplazione delle vicende umane ed attraverso una sottile analisi dei pensieri e de li affetti di quel "guazzabuglio", come Manzoni stesso lo chiamava, che è il cuore umano, trasfigura artisticamente i protagonisti della storia: buoni o cattivi umili o potenti, e li allontana nel tempo, cosi a far dimenticare la quotidianità delle loro azioni e da farli apparire, ciascuno nel proprio campo d'azione, come momenti eterni di una umanissima epica cristiana.
Manzoni ritrovò nella Fede e nell'insegnamento evangelico la definitiva sistemazione dei princìpi attinti dall'ideologia illuminista prima della conversione (libertà, giustizia, democrazia, umanitarismo): mentre tali princìpi poggiavano, dapprima, su un fondamento puramente intellettualistico, dopo il 1810 furono avvivati e nobilitati da un profondo spirito religioso che lo indusse, non a riesaminare, come toccò a molti teorici della Restaurazione, ma a convalidare alla luce della fede, le primitive concezioni sulla personalità umana e sull'altissimo rispetto ad essa dovuto, sulle ingiustizie sociali perpetrate dai ceti privilegiati, sulla « iniqua ragione » della spada invocata dai potenti.
Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785 dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia del celebre giurista Cesare (autore di Dei delitti e delle pene).
All'età di sei anni fu messo in collegio presso i frati Somaschi a Merate, in Brianza; sopraggiunti i Francesi, passò in quello di Lugano, ove ebbe come maestro, per qualche tempo, Francesco Soave, uno dei teorici del sensismo italiano, ed ultimò i suoi studi al collegio Longoni di Milano, tenuto dai Barnabiti e conosciuto comunemente come «collegio dei Nobili».
Alla sua formazione spirituale e culturale contribuirono gli insegnamenti dei suoi maestri, la tradizione razionalistica della famiglia materna, la conoscenza di scrittori e patrioti confluiti nella capitale della Repubblica Cisalpina da ogni parte d'Italia, e la lezione di integrità morale proveniente dalla vita e dall'opera di Giuseppe Parini.
Di ispirazione giacobina (libertaria e antitirannica) fu la prima composizione Il Trionfo della libertà, scritta all'età di quindici anni e riecheggiante struttura e moduli montiani, cui fecero seguito altri versi giovanili, tra i quali si segnalano i quattro Sermoni, di stile oraziano e pariniano.
Nel 1805 raggiunse la madre a Parigi, che si era separata dal marito e che da tempo abitava nella capitale francese insieme a Carlo Imbonati: quivi entrò in contatto, sia degli ultimi rappresentanti dell'illuminismo settecentesco, atei od indifferenti alla religione, sensisti in filosofia, giacobini in politica, sia della letteratura francese da Racine a Voltaire, con particolare riguardo ai gran i pensatori ed oratori cattolici; sia ancora degli ambienti aperti alle nuove correnti letterarie. Di rilievo l'amicizia contratta con Claude Fauriel, uno studioso seguace dello storicismo tedesco, dal quale apprese quell'amore alla scrupolosa indagine della realtà storica e con il quale intrattenne poi una lunga corrispondenza epistolare su questioni di critica letteraria e linguistica.
Tutti questi, contatti confermarono i princìpi basilari della sua coscienza e moralità: ne è riprova il carme In morte di Carlo Imbonati in cui è già possibile scorgere l'essenza dell'ideale etico manzoniano «Non ti far mai servo/ non far tregua coi vili/ il santo Vero i mai non tradir».
Gli anni Parigini (1805-1810) furono anni decisivi per la sua formazione. Frequentò gli ideologi repubblicani che si riunivano nel salotto di Sophie de Condorcet: P.J.G. Cabanis, A.L.C. Destutt de Tracy, C. Fauriel.
Sul piano più personale, grande importanza
ebbe il recupero del rapporto affettivo con la madre. Intanto Manzoni
procedette ad una revisione delle sue idee religiose: dall'agnosticismo, a una
forma di deismo volteriano, poi con un interesse sempre maggiore per i temi
teisti.
Nel 1807 morì il padre.
Nel 1808 Manzoni sposò la ginevrina Enrichetta Blondel, calvinista; il matrimonio fu celebrato secondo questo rito. Nel 1810 il matrimonio fu celebrato secondo il rito cattolico: Enrichetta abiurò, e anche Manzoni accettò la conversione al cattolicesimo.
E' una conversione in cui ha un ruolo anche la riflessione sulle teorie gianseniste[1], e l'influenza del sacerdote Eustachio Degola e poi del vescovo Luigi Tosi a Milano, entrambi fautori di un rigorismo di derivazione giansenista.
Nel 1810 Manzoni tornò a Milano. La sua casa divenne luogo di riunione di poeti e letterati: Ermes Visconti, Tommaso Grossi, Giovanni Berchet, e, con minore frequenza, Carlo Porta.
Manzoni diventa così punto d'incontro tra il gruppo di Porta e quello de «Il Conciliatore».
Gli anni 1812-1827 sono anni molto fecondi, ma anche caratterizzati da ricorrenti crisi depressive. Dopo un primo soggiorno fiorentino per «risciacquare i panni in Arno», nel 1827 si recò a Firenze con la famiglia. Incontrò il gruppo dei liberali toscani che facevano capo a G.P. Vieusseux e alla sua rivista, «L'Antologia». Conobbe anche Leopardi e Niccolini. Fu accolto come membro corrispondente dell'Accademia della Crusca.
Dal 1833 al 1839 morirono la moglie
Enrichetta, le figlie Giulia Claudia (sposata a Massimo d'Azeglio), Cristina,
Sofia e Matilde, e infine la madre.
I lutti aggravarono le sue ricorrenti crisi
depressive. Nel 1840 sposò Teresa Borri Stampa.
Trascorse gli ultimi anni onorato e rispettato come il maggiore scrittore italiano
vivente. Nel 1861 fu nominato senatore a vita, nel 1862 fu presidente della
commissione per l'unificazione della lingua. Morì a Milano nel 1873.
I problemi relativi alla natura ed alla funzione della poesia furono informati in Manzoni della stessa esigenza morale e religiosa che ne caratterizzò la vita: la sua adesione ai princìpi artistici del Romanticismo (conversione letteraria, che precede di poco quella religiosa), dopo il periodo giovanile di tirocinio poetico sulle orme di Monti e Parini, non fu determinata da ragioni esterne, ma dalla graduale confluenza, in quella che fu la sua evoluzione spirituale, dei due elementi principali della dottrina romantica, elementi che diventarono i cardini della sua stessa poetica:
la ricerca di un'arte obiettiva, ispirata al vero storico
la continua attenzione agli aspetti etici e sociali della vita.
Scorrendo l'epistolario, in particolare la corrispondenza intrattenuta con Fauriel, ed analizzando gli scritti di argomento estetico, si può rilevare la costante preoccupazione di Manzoni, non tanto di mettere in evidenza, al pari degli altri, la parte negativa delle dottrine classicistiche, quanto di determinare la parte positiva della nuova corrente letteraria.
Proprio in questo atteggiamento costruttivo ed innovatore é da ricercare l'originalità l'equilibrio e l'importanza della sua poetica nell'ambito di quella del Romanticismo italiano, della quale è "la piú lucida completa ed organica interpretazione e chiarificazione » (M. Puppo).
Già nella prefazione al Carmagnola, Manzoni combatte il principio delle unità pseudoaristoteliche (unità di luogo, tempo, azione) la sola unità d'azione è da lui accettata come elemento unificatore dell'opera d'arte. Nella stessa prefazione chiarisce il compito del coro nella tragedia («un cantuccio » nel quale il poeta può parlare in prima persona). Viene così posto il problema del rapporto tra moralità e genere drammatico: è il primo passo verso il definivo abbandono della teoria classicistica poggiante sul concetto dell'arte per l'arte.
Nella Lettre à M. Chauvet (1820) - un critico classicista francese che aveva formulato numerosi appunti al Conte di Carmagnola - il problema si amplia, sino ad investire il rapporto tra storia e poesia. L'una e l'altra, secondo Manzoni, debbono avere per oggetto il vero. Unica differenziazione è il modo di trattarlo.
La storia (vero storico) deve precisare i fatti con assoluta obbiettività, mentre la poesia (vero poetico) ha il compito di rivelare il «battito di umanità » che li illumina dal di dentro; quella deve preoccuparsi, per rimanere nell'ambito della produzione manzoniana, di presentare il succedersi degli avvenimenti durante la dominazione spagnola in Italia o la discesa dei Franchi nella penisola; questa, può spaziare liberamente, senza però mai discostarsi dalla verità; per mettere in luce affetti, dolori, aspirazioni dei protagonisti di tali avvenimenti, penetrando nell'animo, sia dei vinti che dei vincitori, sia dei popoli che dei singoli individui, sia dei servi che dei padroni. Ne consegue che per Manzoni la poesia non può mai essere arbitraria alterazione della storia ma soltanto approfondimento psicologico e in un certo senso, completamento di essa Compito della poesia è la trasposizione, in significato universale ed eterno, dei moti e della vita quotidiana degli umili e delle folle anonime, quali e le quali possono non interessare lo storico, ma degli avvenimenti costituiscono pur sempre, più che il movente occasionale, l'aspetto umano. In altri termini, soltanto se il poeta, anzi che abbandonarsi alle situazioni limitate e convenzionali originate dalle norme e dalle formule accademiche, saprà mantenersi aderente al vero storico, cioè alla vita reale, nelle cui infinite e concrete situazioni è possibile ad ogni uomo identificarsi, raggiungerà l'unico scopo assegnato all'opera d'arte, che è quello morale ed educativo (da non confondersi con l'esteriore didascalismo di taluni schemi settecenteschi, Manzoni, come altri romantici milanesi, risente del clima del Caffè i cui esponenti attribuivano un fine didascalico alla letteratura e sostenevano la necessità di una lingua viva. Unica differenza è che, essendo in un clima diverso, non più materialistico ma idealistico, la finalità didascalica diventa pedagogica: non più istruire ma educare. Questo aspetto è tipico del Romanticismo italiano, più in particolare di quello milanese).
Il maggior tentativo di dare una sistemazione organica e critica al suo ideale letterario Manzoni lo compì nella Lettera al marchese Cesare d'Azeglio. di tre anni posteriore a quella inviata a Chauvet e pubblicata, con aggiunte e modifiche, soltanto nel 1871: vi si trovava la nota formula: "la poesia, e la letteratura in genere, deve proporsi l'utile per scopo, il vero per soggetto, l'interessante per mezzo" formula che nella redazione definitiva fu ridotta al solo vero, in quanto esso gli appariva di per sé « interessante» ed «utile».
L'esposizione. delle dottrine romantiche viene suddivisa in due parti:
quella « negativa », che contempla l'esclusione della mitologia e il rifiuto delle regole lassicistiche in quanto fondate sull'autorità dei retori, anzi che sul ragionamento: sia l'una che le altre non richiamano «alla memoria alcun sentimento della vita reale »;
quella «positiva », che sinteticamente può essere riassunta nella teoria del vero inteso come rappresentazione oggettiva della realtà: con tale rappresentazione, e con la tendenza in essa implicita di limitare l'intervento dello scrittore, la poetica manzoniana apre la strada al realismo.
Nel Discorso sul romanzo storico dopo ulteriore riflessione sulla natura intrinseca del vero, e rivedendo quanto aveva affermato nella Lettre allo Chauvet, Manzoni giunse alla conclusione che il consenso dato dal lettore al vero storico, certo e positivo, è in opposizione verosimile o sulla scorta della tradizionale terminologia, ragione per cui l'attività logica derivante dalla storia non può coesistere, nella medesima opera d'arte, con l'attività inventiva richiesta dalla creazione poetica: di qui la condanna del romanzo storico, a suo parere, presenta una ibrida mescolanza di storia e d'invenzione, di atti reali e di avvenimenti fantastici. Tale condanna, che implicitamente negava valore al suo stesso romanzo, e da far risalire al pregiudizio che il verosimile è per natura, inferiore alla verità storica: questo pregiudizi impedì a Manzoni di intravedere la via che, sulle orme di Balzac, il romanzo avrebbe seguito in Italia ed in Francia, ed indirizzò completamente la sua attività, dopo questo Discorso, alla storiografia.
Al periodo giovanile, caratterizzato da radicalismo giacobino e deciso anticlericalismo, risale il poemetto in quattro canti Del trionfo della libertà (1801). Qui Manzoni celebra, nella forma della visione di derivazione montina, la sconfitta del dispotismo e della superstizione per opera della libertà trionfante della Repubblica Cisalpina.
In quegli anni scrisse anche una serie di sonetti, tra cui l'autoritratto Sublime specchio di veraci detti, e altri tre: uno dedicato a Lomonaco, l'altro alla musa, il terzo ispirato dalla contessina Luigia Visconti, sorella di Ermes, di cui era innamorato. Sono componimenti di tipo neoclassicisti, con echi alfieriani e pariniani e con l'influenza di Monti.
Dello stesso tipo l'ode Qual su le Cinzie cime (1802-1803), l'idillio Adda (1803), e i quattro Sermoni ('Amore e De lia', 'Panegirico a Trimalcione', 'A G.B. Pagani', 'Contro i poetastri') scritti nel 1803-1804.
Segni di maturazione sono negli sciolti In morte di Carlo Imbonati (1806), in cui celebra Carlo Imbonati, l'amante della madre, che Manzoni però non aveva mai conosciuto. Lo schema è quello consueto della visione settecentesca, perdurano gli influssi montini, ma sono presenti anche i primi accenti di un risentito moralismo, secondo moduli che saranno tipici del Manzoni successivo. Segno dell'esaurimento dell'esperienza neoclassicista è il poemetto Urania (1809).
Dopo tali opere abbiamo un avvicinamento consapevole al Romanticismo (conversione letteraria)
Dopo tre anni di silenzio, nel 1812 Manzoni, convertito ormai al cattolicesimo, comincia a comporre gli Inni sacri. Ne avrebbe dovuto comporre dodici, ne portò a termine solo cinque: 'La Resurrezione' (1812), 'Il nome di Maria' (1812-1813), 'Il Natale' (1813), 'La Passione' (1814-1815) e, più avanti negli anni, 'La Pentecoste' (1817-1822). Di un sesto inno, "Ognissanti" rimangono solo alcune strofe, e di altri sei solo i titoli.
Manzoni rifiuta la tradizione classicista. Cercava una lingua più comunicativa, che non si curasse degli abbellimenti formali ma in grado di esprimere i contenuti concettuali che gli stavano a cuore (l'apologetica cattolica). E' una scelta che coincide con una più aperta adesione al romanticismo: romanticismo come rinnovamento dei moduli espressivi e del repertorio tematico, e promozione di una letteratura 'popolare' nel senso indicato dai romantici lombardi, cioè indirizzata alle persone colte anche se non letterate di professione.
Il concetto ispiratore è la contrapposizione della fragilità umana alla grandezza di Dio (concetto Romantico, l'uomo è piccolo è fragile in confronto a Dio, o alla Natura o all'immensità dell'universo, come sarà per Leopardi).
Le frequenti reminiscenze bibliche tradiscono lo stato d'animo del neofita tutto volto con umiltà e sincerità di cuore, all'intuizione del divino;
La terra tuttavia non scompare: da essa si avverte la commozione per l'umile fede dei pastori, per la spregiata lacrima della femminetta, per i bimbi vestiti a festa od il desco disadorno dei poveretti.
In tutti gli Inni si avverte che i princìpi di uguaglianza e fratellanza umana predicati dalla filosofia settecentesca sono stati ricondotti alla religione, da cui essi naturalmente derivano (come affermato da Manzoni in una lettera a Fauriel)
Ognuno degli Inni si trasforma quindi in preghiera, una preghiera che non rifiuta, accanto all'anelito supremo a Dio ed alla infinita riconoscenza per i doni da Lui concessi all'uomo, la colorazione poetica data da immagini vigorose e spesso felici.
Purtroppo manca ai primi quattro Inni un motivo centrale, troppo spesso il ragionamento si sostituisce al sentimento, così che la costruzione del componimento appare come imposta dall'esterno, e frammentario ne risulta lo svolgimento.
Soltanto nella Pentecoste (che celebra la discesa dello Spirito Santo) si può parlare veramente di canto corale che ha per oggetto, in un linguaggio immediatamente espressivo, prima la trasformazione del mondo intero, che, al nuovo annuncio dei cieli, raggiunge la libertà dello spirito, poi la vittoria sull'ingiustizia e sul male, la pace che nulla può rapire: l'ampio respiro dell'Inno è da intravedere in questo incontro dell'umano col divino, incontro che realizza un felice accordo dei princìpi illuministici con la fede raggiunta da Manzoni dopo un profondo travaglio religioso.
Il carattere oratorio di alcune parti, carattere ricorrente nella poesia manzoniana, ma tipico anche della poesia romantica in generale, si alterna a momenti lirici e alle rievocazioni storiche.
Essendo essi destinati al popolo, la sintassi e la lingua sono più sciolte delle forme stilistiche espressive classiche, e la metrica, abbandonato l'endecasillabo, si serve versi brevi (settenari, ottonari), oppure di decasillabi disposti in ottave, che conferiscono all'inno una solennità corale.
Contemporanee alla stesura della Pentecoste sono due tragedie: il Conte di Carmagnola, dedicata a Fauriel e pubblicata a Milano nel 1820; l'Adelchi, dedicata ad Enrichetta Blondel e pubblicata, essa pure a Milano nel 1822. Concepite piuttosto come due poemi drammatici » che come operedestinate alla recitazione, esse costituiscono il primo esempio, anche se non arrise loro molta fortuna, del teatro romantico, in Italia.
Nelle intenzioni di Manzoni, esse dovevano rappresentare, a fronte della tragedia classicistica e di quella alfieriana, un teatro di ispirazione storica e cristiana «capace di creare - a suo dire - quell'interesse che nasce nell'uomo al veder rappresentati gli errori, le passioni, le virtù, l'entusiasmo e l'abbattimento a cui gli uomini sono trasportati nei casi più gravi della vita, ed a considerare, nella rappresentazione degli altri, il mistero di se stessi».
Entrambe sono fatte precedere da ampie notizie storiche, ed entrambe ubbidiscono al concetto manzoniano del «vero »: illuminare e rappresentare poeticamente caratteri, affetti, aspirazioni dei personaggi storici presi in esame; desumere ed adattare i loro discorsi alle azioni ricordate dalla storia, così da mettere in rilievo la parte morale in essa contenuta.
Nel quadro dell'evoluzione poetica e religiosa di Manzoni, le due tragedie rappresentano un momento di «transizione » dal cristianesimo lirico e dottrinale degli Inni al cristianesimo sereno e pacato dei Promessi sposi.
Motivo dominante di tale momento è la contemplazione della dolorosa realtà terrena, contemplazione che riveste di una sottile venatura di pessimismo il contenuto etico delle due tragedie: gli uomini appaiono travolti da un triste destino che impone loro di opprimere o di essere oppressi, di « far torti », o di patirli; la vita si presenta in un ritmo incessante di sopraffazioni e di soggezioni; ultimo approdo per i buoni, di fronte al prevalere dei perversi, è la morte. Sola fonte di consolazione e di speranza, fra tanto male, è la fede; confortati dalla Grazia divina, gli eletti si purificano nella sofferenza, si redimono nel dolore, riconoscono la « provvidenzialità » della loro sventura.
Il Conte di Carmagnola fu composto tra il 1816 ed il 1819: al pari dell'altra tragedia, non rispetta le unità di luogo e di tempo (tutto in un luogo e tutto in un solo giorno).
Presenta l'introduzione del coro quale parentesi di riflessione morale, politica, religiosa del poeta sui fatti rappresentati.
Ne è protagonista il capitano di ventura Francesco Bussone (sec. XV) detto il Carmagnola dal paese d'origine: messosi al soldo dei Visconti di Milano, ne ricreò, per cosi dire, la potenza, ottenendone in cambio i titolo di conte. Avendo però le sue vittorie ed il favore dei soldati insospettito ed ingelosito il duca, passò agli avversari, combatté per Venezia, e sbaragliò le truppe viscontee nella battaglia di Maclodio, ma l'aver concesso, a vittoria ottenuta, la libertà dei prigionieri, secondo l'uso del tempo, e l'aver protratto per sei anni la guerra, gli furono fatali: accusato d'intelligenza con il nemico e di preparare una sua riconciliazione con i Visconti, fu invitato a Venezia, imprigionato, condannato e decapitato, come comportava la sommaria procedura dei processi politici d'allora.
La tragedia è impostata sul contrasto violento tra la lealtà e la nobiltà d'animo del condottiero e la perfida ragion di stato dei Veneziani; il contrasto, di per sé altamente poetico, non è però rivissuto psicologicamente in modo da far apparire la catastrofe finale come logica ed ineluttabile conclusione dell'agire umano: nel corso dell'azione, il quadro storico si amplia, perde gran parte della sua caratterizzazione politica e si trasforma nel dramma di un uomo eroico e generoso travolto dal male.
La figura del conte si presenta, nonostante la vittoria delle armi, come quella di un vinto dalle forze che urgono e si scontrano. intorno a lui: incapace di scoprire la perfidia degli altri, non maledice l'avversa sorte, si ripiega su se stesso e, mentre rievoca con il pensiero il frastuono delle armi ed il campo di battaglia, giudica severamente, con il tardo atteggiamento dell'uomo saggio, le ambizioni, l'ansia di potenza e di gloria, il desiderio di vendetta, tutto ciò, insomma, che alimenta le disordinate passioni umane. Si volge allora alla morte come alla sola vera pace concessa da Dio alle creature terrene: in questa sua ultima purificazione ed elevazione prende rilievo il perdono ai nemici; scompaiono le « empie gioie terrene », ed ha il sopravvento, su quello drammatico, il carattere lirico del personaggio che celebra, con la vittoria su quanto è ancora in lui di umano, la vittoria della suprema volontà di Dio. In ciò egli appartiene completamente al romanticismo cristiano di Manzoni.
Superiore per intuizione artistica, per drammaticità di argomento, per caratterizzazione umana ed etica dei personaggi, è 1'Adelchi, scritta tra il 1820 ed il 1822: migliore di ogni altra del teatro romantico italiano, questa tragedia, con la vastità epica che investe tutta una gente, prelude al capolavoro manzoniano.
Carlo Magno ripudia la propria moglie Ermengarda, figlia di Desiderio e sorella di Adelchi, sovrani dei Longobardi, ed intima a Desiderio di sgomberare le terre della Chiesa, da lui illegalmente occupate: il rifiuto di questi, nonostante l'esortazione di Adelchi a restituire le terre al Pontefice ed a concedere la libertà ai latini per formare una sola nazione e combattere per una giusta causa, scatena la guerra. Il tradimento di alcuni duchi e la scoperta, da parte del diacono Martino, di una via che permette all'esercito franco di giungere alle spalle dei Longobardi attestati alle Chiuse di San Michele, fanno precipitare gli eventi: cadono le città nelle quali Desiderio ed Adelchi si sono rifugiati con gli ultimi soldati fedeli: l'uno è fatto prigioniero, l'altro viene ferito mortalmente durante una sortita da Verona per soccorrere i1 padre; nel frattempo Ermengarda muore in un monastero di Brescia, dove si era ritirata, consunta dalla sua pena.
Sullo sfondo della tragedia sta la vicenda di tre popoli, i Longobardi ed i Franchi, in qualità di oppressori, gli Italici, in qualità di oppressi: su tutti ; aleggia una visione pessimistica delle capacità degli uomini, che si traduce in una svalutazione della grandezza politica e nella convinzione che soltanto il singolo, quando sia cosciente della propria responsabilità personale, può sfuggire al freddo determinismo degli eventi ed attingere i valori di una verità, e di una giustizia superiori.
Adelchi avverte l'ingiustizia della guerra che combatte, ma non sa, né può sottrarsi al dovere che gli impone, come figlio, di difendere il padre, come fratello, di vendicare l'onta della sorella: guerriero e cristiano ad un tempo, sente il peso della sua appartenenza ad una stirpe di oppressori; principe, non gli è concesso di correre incontro all'infelice sua sorella; soldato, vede attorno a sé null'altro che viltà e tradimento; uomo, assiste impotente. alla rovina materiale e spirituale del suo popolo.
Ma c'è in lui una forza etica e religiosa che lo innalza al di sopra di tutti i contendenti e di tutti gli attori, umili e grandi, del dramma che gli è toccato in sorte di vivere: nel momento del trapasso, la fede placa la sua anima stanca e conscia dei molti che sul campo sono caduti per mano sua; con la chiarezza dell'ora estrema, intravede allora che «gran segreto è la vita », perdona e prega per il suo nemico, e rivolgendosi a Dio, esclama "Vengo alla tua pace".
Attraverso l'altezza spirituale di Adelchi morente Manzoni non poteva esprimere meglio il monito cristiano di un superiore distacco dai beni terreni, della necessità di sottrarsi alla vergogna del male comune con la propria nobiltà e purezza d'animo.
Umanissima creatura combattuta da un amore terreno, che risorge violento in ogni istante d'abbandono, e da un amore divino invocato per sopire ì u terrestri ardori », Ermengarda è la vera vittima degli odi e dei rancori che dividono due popoli, meglio di una inflessibile legge storica che procede spedita nel suo cammino senza curarsi dei lutti e delle lacrime da essa suscitati. Travolta da eventi più grandi di lei, invano cerca pace ed oblio: la passione che la divora crea in lei un'ansia ed uno sgomento che la accompagnano fino alla morte e l'accomunano a tante altre infelici oppresse dalla sua stirpe. Muore purificata dalla sofferenza, vittima senza macchia della colpa dei padri: il Dio che essa invoca, e che le si appressa mentre le suore pregano riverenti, è il solo "termine" del suo lungo martirio.
Si pone in evidenza proprio l'aspetto tipico di questo momento della produzione manzoniana: non vi è giustizia sulla terra, ma solo in una vita dopo la morte. In tal senso è provvidenziale la sventura, la sofferenza, che consente l'espiazione e quindi il raggiungimento di una felicità ultraterrena. E "provvidenziale" è la sventura proprio in quanto concessa da Dio per la salvezza (vedi l'influenza giansenistica in tal senso).
Altro aspetto rilevante è la scelta di periodi storici che consentano un riferimento alla situazione italiana del momento: Manzoni non scrive nello stesso periodo di Foscolo, ma dopo la Restaurazione, non può quindi essere esplicito nella critica alla situazione politica e civile italiana.
Ne è esempio la condanna delle lotte civili che hanno condotto l'Italia alla servitù politica, nella battaglia di Maclodio (Carmagnola), nel duplice monito rivolto ad italiani e stranieri: sappiano, gli uni, che dall'alto delle Alpi il nemico gioisce delle battaglie fratricide e premedita l'invasione della penisola; sappiano, gli altri, che tutti gli uomini sono legati da un patto d'amore.
Ancora il coro dell'atto III "Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti" (Adelchi) dove da un lato sono rappresentati i Latini sparsi per le case, nei campi, nelle arse officine, che, alla vista della fuga precipitosa dei Longobardi inseguiti dai Franchi, concepiscono l'improvvisa speranza di sottrarsi alla schiavitù secolare con l'aiuto dei vincitori; dall'altro i Franchi, che hanno abbandonato le avite dimore, hanno affrontato mille pericoli, non già per liberarli, ma per conquistarne le terre ed i beni. Vano è sperare il riscatto da genti straniere.
Storia di un'anima è, invece, il coro che accompagna il trapasso di Ermengarda (tra le due parti in cui si divide l'atto quarto): trasformandosi in spettatore e commentatore, il Manzoni dà forma poetica all'ideale cristiano della serena accettazione di una « provvida sventura »: il dolore non è fine a se stesso, ma è espiazione di colpe e pegno di un premio celeste; il tramonto della vita terrena è preludio all'aurora di una vita eterna.
Partecipi dell'atmosfera lirico-religiosa di questi cori sono le odi civili, a loro contemporanee, se si esclude il Proclama di Rimini, dell'aprile 1815 e suggerito dal manifesto di Gioacchino Murat, che invitava tutti gli italiani a combattere per l'indipendenza nazionale: nonostante la sua retoricità e frammentarietà, ne è rimasto popolare un verso, gìudicato poi formalmente infelice dallo stesso Manzoni: «liberi non sarem se non siam uni».
Dedicata a Teodoro Körner, poeta e soldato della indipendenza germanica, morto sul campo di Lipsia, Marzo 1821 risale all'epoca dei primi moti di Napoli e del Piemonte, quando imminente sembrava la liberazione della Lombardia ad opera dei patrioti, accorsi da ogni parte d'Italia a combattere nell'esercito piemontese: vi sono riaffermati solennemente il diritto di tutte le genti alla libertà politica, e la necessità che il nostro popolo, confortato dal1'idea della provvidenza e di una superiore giustizia che non può permettere al germanico di raccogliere dove non ha arato, ritrovi in se stesso la forza per riacquistare l'unità nazionale. La commossa partecipazione del poeta ad avvenimenti rivissuti con l'immaginazione e non tradottisi poi in realtà, si risolve in immagini efficaci, ma il tono generale dell'ode è pacato e composto, come si addice ad una meditazione storica. L'ultima strofa è così ricca di echi delle Cinque giornate di Milano che parve essere aggiunta nel 1848, quando l'ode poté finalmente essere pubblicata.
Improvvisa, come improvvisa era stata la notizia della scomparsa d genio napoleonico, fu la composizione del Cinque maggio: in soli tre giorni Manzoni diede forma artistica alle immagini che si affollavano al suo spirito commosso, e ne risultò una lirica possente per concitazione ritmo, per incalzare di eventi, per tempestosità di affetti, una lirica che scorre continuamente dal piano delle vicende storiche (vero storico) a quello delle vicende interiori di Napoleone (vero poetico, approfondimento psicologico.
L'iniziale epopea militare si trasforma in dramma spirituale, il despota folgora si ritrae dinanzi all'uomo sommerso dal cumulo delle memorie, in preda disperazione per l'immobilità cui è costretto (si confronti con il coro dell'atto IV dell'Adelchi dedicato ad Ermengarda, coro che per altro ha anche la stessa struttura metrica dell'ode dedicata a Napoleone). Alla grandezza e nobiltà terrena, succede una grandezza e nobiltà cristiana: collocandosi su un piano di eternità, l'eroe comprende i limiti della vita umana, e piegandosi al "disonor del Golgota" ritrova la dolcezza consolatrice della Fede.
Mentre ancora attendeva alla stesura dell'Adelchi, Manzoni si era ritirato in campagna, anche per sottrarsi ad una diretta sorveglianza della polizia austriaca.
Ivi si dedicò alla lettura di una Storia di Milano di Ripamonti e di un volume di economia di Gioia: nella prima ritrovò una «grida » nella quale erano comminate pene severissime contro chi avesse costretto un parroco a consacrare un matrimonio, la descrizione dei tumulti scoppiati durante la peste del 1630, i casi intervenuti alla figlia di un gran signore fatta monaca per forza, e la conversione di un gentiluomo facinoroso del tempo, che si era andato a gettare ai piedi del cardinale Borromeo; dalla seconda ritrasse la convinzione che fossero inutili le leggi non in armonia con i costumi del popolo per il quale esse sono promulgate.
Si deve inoltre aggiungere, in questo stesso periodo di tempo, la lettura di alcuni romanzi di Scott, in traduzioni francesi ed italiane, e la definitiva maturazione delle idee già espresse sul rapporto tra storia e poesia: in una lettera a Fauriel, parlando dei romanzi storici, affermava di concepirli «come la rappresentazione d'uno stato della società per mezzo di fatti e caratteri talmente simili al vero che si possa crederli una storia vera tornata in luce ».
Tutto questo è da tener presente per comprendere la genesi storica del romanzo e la complessa sua ispirazione artistico-religiosa. L'inizio della stesura risale all'aprile del 1821; fu portata a termine nel settembre del 1823 con il titolo di Fermo e Luci adal nome dei due protagonisti. Subito dopo subì una profonda rielaborazione: il titolo fu cambiato in Quello di Sposi promessi
Fermo, padre Galdino, il conte del Sagrato mutarono nome e divennero, rispettivamente, Renzo, padre Cristoforo, l'Innominato; furono ridotte le digressioni morali e storiche, una delle quali diede poi vita alla Storia della colonna infame; furono soppressi ed attenuati alcuni episodi, come gli amori
della monaca di Monza e la fine di don Rodrigo, troppo scopertamente di carattere romanzesco; fu riequilibrato il tono generale del racconto con l'eliminazione dei passi più dichiaratamente polemici.
Nel corso della pubblicazione, terminata nel 1827 (conosciuta e denominata come « ventisettana »), furono apportate nuove correzioni al testo, a cominciare dal titolo, definitivamente fissato in quello di Promessi sposi. Una seconda edizione, quella che comunemente oggi viene letta, apparve nel periodo 1840-1842: essa sostanzialmente non si differenzia dalla prima che per la « sciacquatura in Arno », come scherzosamente definì lo stesso Manzoni la lunga, minuta correzione del testo al fine di raggiungere una prosa la più vicina possibile al linguaggio parlato, ma pur tuttavia atteggiata ad elegante compostezza.
L'azione del romanzo, che si svolge negli anni 1628-30 e nella Lombardia sottoposta alla dominazione spagnola, ha per oggetto le vicende di due umili popolani, Renzo e Lucia, impediti nel loro matrimonio a un prepotente signorotto del luogo, don Rodrigo. Per due anni, dal momento in cui due bravi atterriscono con oscure minacce il pavido curato don Abbondio, i promessi sposi, costretti ad abbandonare il loro villaggio dopo un tentativo di rapimento della giovane ad opera dei segugi del signorotto, sono travolti da una serie infinita di guai, dovuti i più alla malvagità degli uomini ed alla nequizia dei tempi, alcuni alle pubbliche calamità che sconvolgono ogni ordine sociale. Si ricongiungono alla fine, e le loro nozze sono benedette dallo stesso don Abbondio, liberato da ogni residuo di paura quando viene a conoscenza della morte di don Rodrigo, «spazzato via », come tanti altri, dalla peste.
La tenue «favola » del romanzo si inserisce in un quadro grandioso di avvenimenti storici, che ne sono, ad un tempo, cornice ed importante complemento: la carestia, la sommossa dell' 11 novembre 1628, la calata dei lanzichenecchi, la peste del 1630, il tutto sullo sfondo sociale e politico del secolo XVII: i personaggi, da quelli creati dalla fantasia del Manzoni a quelli tratti documenti e dalle cronache del tempo, finiscono per assumere un vali ideale ed universale, che rende impossibile qualsiasi distinzione fra storia poesia, fra vero e verosimile.
Di qui la grandezza di Manzoni: a differenza delle successive imitazioni e di altri romanzi storici di autori contemporanei (forse più preoccupati dell'aspetto politico, che pure è parte dell'opera manzoniana), nei Promessi Sposi il vero storico e quello poetico si integrano perfettamente.
Che Manzoni abbia voluto rimanere fedele al canone del vero storico lo si può dedurre dal sottotitolo del romanzo, Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni (l'espediente del manoscritto ritrovato, di cui viene riportata una pagina tutta perizia tecnica nella contraffazione delle scritture secentesche), era già stato usato in precedenza da Cuoco nel Platone in Italia, da Scott ne Il monastero, e ancor prima da Cervantes nel Don Chisciotte della Mancia. Detto canone è realizzato con la riproduzione accurata dei caratteri, dei costumi, e delle istituzioni del Seicento, a cominciare quel "punto d'onore" che è all'origine di alcuni episodi fondamentali: l'uccisione del rivale da parte di Ludovico, prima che diventasse fra Cristoforo, l'allontanamento del frate, ad opera del conte zio; il rapimento dì Lucia da parte dell'Innominato.
Una realizzazione, tuttavia, non fine a se stessa, permette al Manzoni di riproporre in modo esemplare, per la particolare caratteristica del secolo, le eterne contraddizioni della società nel suo intrecciarsi del bene e del male, nella sua esteriore apparenza di legalità e nella effettiva realtà di ingiustizia e di violenta sopraffazione, e che non esclude con la messa in luce dei risvolti negativi della dominazione spagnola, intenzione allusiva alle condizioni d'Italia sotto la dominazione austriaca.
Con tale riproduzione del vero storico, Manzoni ebbe modo di dare carattere di veridicità al vero inventivo rappresentato dalle vicende dei protagonisti.
I Promessi sposi sono profondamente inseriti nella realtà storica e culturale e sono soprattutto un «romanzo di idee», in quanto realizzano gli ideali di Manzoni, che sono gli ideali della classe più colta e più progressista dell'Italia d'allora.
A dominare la scena non sono eroi o personaggi illustri, ma creature semplici disposte meglio di altre ad accogliere la verità evangelica, lo spinto di fratellanza umana, l'angoscia che tormenta i cuore dei propri simili: non è più il pessimismo che scaturisce dal trionfo incontrastato della forza e dell'ingiustizia a caratterizzare le vicende del racconto, ma un'alternanza di bene e di male che apre i cuori alla speranza con la certezza di una superiore provvidenza, ora attuabile anche nella vita terrena.
Il dolore è ancora presente, ma contemplato alla luce nuova che proviene dal fiducioso abbandono alla volontà divina; è il dolore a dare agli uomini il senso della vita la quale finisce per apparire una prova per tutti, buoni e cattivi.
Collocando in primo piano, ed in funzione antieroica, il mondo degli umili e dei semplici quel mondo che la storia tradizionale ignora, ma che in realtà rappresenta l'elemento duraturo e sempre ricorrente della vita, Manzoni operò un'azione profondamente rinnovatrice nel campo della letteratura europea moderna: all'epopea dei grandi, che per secoli era stata vagheggiata dalle classi sociali dominanti, per la prima volta veniva contrapposta quella dei, ceti che non hanno possibilità di iniziativa nelle vicende storiche, che trascorrono sulla scena del mondo senza lasciare memoria di sé, ma che incarnano i valori etici più intimi e semplici, della vita: la carità, l'amore, la famiglia.
Questa contrapposizione, nel caso specifico di Manzoni, viene fatta risalire al principio evangelico dell'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio e del loro porsi al servizio del prossimo, principio al quale si informa la visione concreta della vita che egli ci presenta, e che determina, condizionandola, la valutazione in senso positivo o negativo dei personaggi del racconto.
La sottile analisi che di essi viene via via offerta è affidata, ora all'acuta penetrazione psicologica della loro vita interiore, come nel caso di suor Geltrude e dell'Innominato.
Tutti i personaggi, dai maggiori ai minori, assolvono un loro compito, che è quello di rappresentare realisticamente tutto, l'incessante conflitto tra il bene e il male che travaglia ogni spirito umano.
Quando tale conflitto assume la proporzione del dramma come nel colloquio tra padre Cristoforo e don Rodrigo, in quello fra il cardinale Borromeo e don Abbondio, oppure nel momento della conversione dell'Innominato, si hanno le pagine artisticamente più efficaci del romanzo.
E quella di Manzoni è un'arte che, oltre a trasfigurare lo spettacolo quotidiano della vita, rende il paesaggio operosamente partecipe all'azione dei personaggi (si pensi alla descrizione che precede l'addio di Lucia al paese, o al notturno che accompagna Renzo verso l'Adda, all'annunzio del temporale che spazza via la peste).
Alla prosa Manzoni ha dedicato le più attente cure, specialmente alla rielaborazione che precede la seconda edizione definitiva dell'opera.
Al fine di eliminare la differenza tra l'idioma accademico da quello parlato (vedi questione della lingua), scelse l'uso vivo del toscano, ma soprattutto ubbidì alla istintiva ricerca della parola semplice e chiara, in perfetta aderenza alla realtà delle cose o degli eventi da narrare. Ne scaturì una vastissima gamma di modulazioni espressive e dallo stile mobilissimo nella sua struttura sintattica: analitico e familiare, se vengono narrati i casi di Renzo e Lucia; scherzoso e divertito, nelle scenette di Perpetua, quando discorre dei suoi pretendenti; umoristico, nella presentazione di don Ferrante del vicario; severo e solenne, nelle pagine dedicate al cardinale ed all'Innominato; trepido e drammatico, nella descrizione della peste, della fame, della guerra, tremendi flagelli biblici che periodicamente mettono alla prova fede degli uomini.
La. Prosa manzoniana agì efficacemente sulla trasformazione della prosa letteraria italiana, la quale abbandonò gradualmente i moduli stilistici dei secoli passati e si avvicinò sempre più ad una espressione che riflettesse, oltre alla popolarità del contenuto, la popolarità del linguaggio.
Unico limite: l'aver utilizzato il fiorentino vivo, nelle sue diverse sfumature e registri (più o meno colti), idioma seppur all'origine dell'italiano, ormai, non più coincidente con la lingua nazionale.
In tal senso dovremo attendere Verga per l'affermazione di una lingua viva nazionale, con tutte le sfumature regionali (al di là del fiorentino).
Derivato dagli studi attorno alla vicenda de 'I promessi sposi' è la Storia della colonna infame, che apparve in appendice all'edizione a dispense del romanzo del 1840-1842. La 'Storia' è la ricostruzione delle vicende della peste di Milano, con un'ottica attenta soprattutto ai risvolti morali dell'evento. Il soggiorno fiorentino, importante nel processo di revisione de 'I promessi sposi', porta a un approfondimento da parte di Manzoni dei problemi sulla questione della lingua. Il pensiero linguistico manzoniano venne esposto in una serie di scritti successivi: Sulla lingua italiana (1845) è una lettera a G. Carena, Dell'unità della lingua italiana e dei mezzi per diffonderla (1868) relazione al ministro della pubblica istruzione del nuovo regno unitario italico, con relativa Appendice (1869); Lettera attorno al libro 'De vulgari eloquientia' di Dante Alighieri (1868), la Lettera intorno al vocabolario (1868), la Lettera al marchese Alfonso della Valle di Casanova (1871, ma pubblicata nel 1874). La trattazione più organica la si trova nel breve trattato Sentir messa (1835-1836) pubblicato nel 1923, accanto al quale si deve ricordare l'incompiuto trattato Della lingua italiana cui Manzoni lavorò nel 1830-1859.
Manzoni constatava l'inesistenza di una vera lingua italiana, riconosceva a tutti i dialetti la dignità di lingue. Ma dovendosi adottare in Italia per esigenze pratiche uno strumento linguistico unitario, proponeva che si scegliesse quello che tra i dialetti aveva maggiore autorità culturale, il fiorentino. Ma non il fiorentino degli scrittori classici, ma quello d'uso vivo, il solo in grado di rinnovarsi e di soddisfare le esigenze attuali della società italiana. Il prestigio delle teorie linguistiche manzoniane fu enorme in Italia. esse divennero egemoni, e l'insegnamento pubblico della lingua nell'Italia unitaria si uniformò sostanzialmente alla proposta di Manzoni.
Interessante è lo scritto Del romanzo e in genere de' componimenti misti di storia e invenzione (1845) in cui Manzoni condanna l'invenzione in letteratura, e quindi tutto il genere romanzesco (dunque anche 'I promessi sposi'). Con questa condanna, pone in pratica fine alla revisione delle stesure de 'I promessi sposi', e si indirizza oltre che sui problemi linguistici, su problemi di carattere storico-politici, e soprattutto filosofico-morali.
Al primo filone di studi appartiene La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (1860-1872, ma pubblicato nel 1889). Al secondo filone appartiene la revisione definitiva delle osservazioni sulla morale cattolica (1855) già edite nel 1819, i dialoghi Dell'invenzione (1850) e Del piacere (1851, edito nel 1887).
Madre de' Santi, immagine
Della città superna;
Del Sangue incorruttibile
Conservatrice eterna;
Tu che, da tanti secoli,
Soffri, combatti e preghi,
Che le tue tende spieghi
Dall'uno all'altro mar;
Campo di quei che sperano;
Chiesa del Dio vivente;
Dov'eri mai? qual angolo
Ti raccogliea nascente,
Quando il tuo Re, dai perfidi
Tratto a morir sul colle
Imporporò le zolle
Del suo sublime altar?
E allor che dalle tenebre
La diva spoglia uscita,
Mise il potente anelito
Della seconda vita;
E quando, in man recandosi
Il prezzo del perdono,
Da questa polve al trono
Del Genitor salì;
Compagna del suo gemito,
Conscia de' suoi misteri,
Tu, della sua vittoria
Figlia immortal, dov'eri?
In tuo terror sol vigile.
Sol nell'obblio secura,
Stavi in riposte mura
Fino a quel sacro dì,
Quando su te lo Spirito
Rinnovator discese,
E l'inconsunta fiaccola
Nella tua destra accese
Quando, segnal de' popoli,
Ti collocò sul monte,
E ne' tuoi labbri il fonte
Della parola aprì.
Come la luce rapida
Piove di cosa in cosa,
E i color vari suscita
Dovunque si riposa;
Tal risonò moltiplice
La voce dello Spiro:
L'Arabo, il Parto, il Siro
In suo sermon l'udì.
Adorator degl'idoli,
Sparso per ogni lido,
Volgi lo sguardo a Solima,
Odi quel santo grido:
Stanca del vile ossequio,
La terra a lui ritorni:
E voi che aprite i giorni
Di più felice età,
Spose che desta il subito
Balzar del pondo ascoso;
Voi già vicine a sciogliere
Il grembo doloroso;
Alla bugiarda pronuba
Non sollevate il canto:
Cresce serbato al Santo
Quel che nel sen vi sta.
Perché, baciando i pargoli,
La schiava ancor sospira?
E il sen che nutre i liberi
Invidiando mira?
Non sa che al regno i miseri
Seco il Signor solleva?
Che a tutti i figli d'Eva
Nel suo dolor pensò?
Nova franchigia annunziano
I cieli, e genti nove;
Nove conquiste, e gloria
Vinta in più belle prove;
Nova, ai terrori immobile
E alle lusinghe infide.
Pace, che il mondo irride,
Ma che rapir non può.
O Spirto! supplichevoli
A' tuoi solenni altari;
Soli per selve inospite;
Vaghi in deserti mari;
Dall'Ande algenti al Libano,
D'Erina all'irta Haiti,
Sparsi per tutti i liti,
Uni per Te di cor,
Noi T'imploriam! Placabile
Spirto discendi ancora,
A' tuoi cultor propizio,
Propizio a chi T'ignora;
Scendi e ricrea; rianima
I cor nel dubbio estinti;
E sia divina ai vinti
Mercede il vincitor.
Discendi Amor; negli animi
L'ire superbe attuta:
Dona i pensier che il memore
Ultimo dì non muta:
I doni tuoi benefica
Nutra la tua virtude;
Siccome il sol che schiude
Dal pigro germe il fior;
Che lento poi sull'umili
Erbe morrà non colto,
Né sorgerà coi fulgidi
Color del lembo sciolto
Se fuso a lui nell'etere
Non tornerà quel mite
Lume, dator di vite,
E infaticato altor.
Noi T'imploriam! Ne' languidi
Pensier dell'infelice
Scendi piacevol alito,
Aura consolatrice:
Scendi bufera ai tumidi
Pensier del violento;
Vi spira uno sgomento
Che insegni la pietà.
Per Te sollevi il povero
Al ciel, ch'è suo, le ciglia,
Volga i lamenti in giubilo,
Pensando a cui somiglia:
Cui fu donato in copia,
Doni con volto amico,
Con quel tacer pudico,
Che accetto il don ti fa.
Spira de' nostri bamboli
Nell'ineffabil riso,
Spargi la casta porpora
Alle donzelle in viso;
Manda alle ascose vergini
Le pure gioie ascose;
Consacra delle spose
Il verecondo amor.
Tempra de' baldi giovani
Il confidente ingegno;
Reggi il viril proposito
Ad infallibil segno;
Adorna la canizie
Di liete voglie sante;
Brilla nel guardo errante
Di chi sperando muor.
Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù:
Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un tempo che fu.
S'aduna voglioso, si sperde tremante,
Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra tema e desire, s'avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De' crudi signori la turba diffusa,
Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l'usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d'ignoto contento,
Con l'agile speme precorre l'evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all'addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de' pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell'arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d'amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz'orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durar;
Si vider le lance calate sui petti,
A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
Udiron le frecce fischiando volar.
E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,
All'opere imbelli dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.
Sparsa le trecce morbide
Sull'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.
Cessa il compianto: unanime
S'innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una man leggiera
Sulla pupilla cerula
Stende l'estremo vel.
Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.
Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblio di chiedere
Che le saria negato;
E al Dio de' santi ascendere
Santa del suo patir.
Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl'irrevocati dì;
Quando ancor cara, improvida
D'un avvenir mal fido,
Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì:
Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle sciolte redini
Chino il chiomato sir;
E dietro a lui la furia
De' corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir de' veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L'irto cinghiale uscir;
E la battuta polvere
Riga di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea repente, pallida
D'amabile terror.
Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d'Aquisgrano!
Ove, deposta l'orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!
Come rugiada al cespite
Dell'erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
Tale al pensier, cui l'empia
Virtù d'amor fatica,
Discende il refrigerio
D'una parola amica,
E il cor diverte ai placidi
Gaudii d'un altro amor.
Ma come il sol che, reduce,
L'erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L'immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;
Ratto così dal tenue
Obblio torna immortale
L'amor sopito, e l'anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.
Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,
Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.
Te, dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,
Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.
Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com'era allor che improvida
D'un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così
Dalle squarciate nuvole
Si svolge il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente;
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.
Dottrina morale e teologica cattolica, attiva soprattutto in Francia nel XVII, risalente al vescovo fiammingo Giansenio d' Y Pres (Cornelis Jansen). Egli nel trattato Augustinus del 1640, attinse ad alcuni aspetti del pensiero di S. Agostino, come la grazia, il libero arbitrio, la predestinazione per teorizzare una dottrina in stretta connessione il calvinismo, che quindi venne combattuta dai Gesuiti e condannata in cinque proposizioni dal papa Urbano VIII. Alla base di questa dottrina vi era il pensiero che il peccato originale avesse talmente gravato sulla natura umana, da rendere l'uomo incapace di resistere al male attraverso le sue sole forze; solo l'aiuto della grazia divina può salvarlo. Il giansenismo si diffuse per tutta la Francia, adottando come roccaforte il convento di Port-Royal, presso Parigi, poi attaccato e distrutto per opera di Luigi XIV. Il giansenismo tuttavia non scomparve: lo ritroviamo proprio nell'Ottocento, accolto con favore anche per un'avvertita esigenza di rigore morale, cui il giansenismo rispondeva pienamente.
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