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Tito livio -ab urbe condita, storia di roma, libro x




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Tito Livio
AB URBE CONDITA

STORIA DI ROMA

LIBRO X


Durante il consolato di Lucio Genucio e di Servio Cornelio la tregua da guerre esterne fu quasi completa. Vennero fondate le colonie di Sora e di Alba. Ad Alba, che si trovava nel territorio degli Equi, furono inviati 6.000 coloni. Sora aveva fatto in passato parte del territorio dei Volsci, per poi essere occupata dai Sanniti. Lì vennero inviati 4.000 uomini. Nel corso degli stessi anni venne concessa la cittadinanza romana agli abitanti di Arpino e di Trebula. Gli abitanti di Frusino furono invece condannati alla perdita di un terzo del loro territorio, perché emerse che avevano spinto gli Ernici a ribellarsi: dopo un'inchiesta condotta dai consoli su incarico del senato, i capi del complotto furono frustati e decapitati. Ciò non ostante, a far sì che l'anno non trascorresse del tutto senza episodi militari, ci fu una modesta spedizione in Umbria; era infatti giunta notizia di una banda armata che, partendo da una caverna, compiva scorrerie per le campagne. Truppe romane raggiunsero la caverna, ma per l'oscurità sulle prime subirono molte ferite, fino a quando non scoprirono un altro accesso percorribile in entrambe le direzioni, e appiccarono il fuoco a cataste di legna alle due imboccature. E così i 2.000 uomini circa che si trovavano all'interno della grotta, costretti a gettarsi attraverso le fiamme, alla fine morirono soffocati dal fumo e dal calore nel tentativo di uscire.

Durante il consolato di Marco Livio Dentre e di Marco Emilio riprese la guerra contro gli Equi. Poiché non accettavano la colonia romana, quasi una roccaforte di Roma all'interno del loro territorio, gli Equi tentarono con ogni mezzo di espugnarla, venendo però respinti dai coloni stessi. Ma a Roma la cosa creò una tale apprensione - sembrava impossibile che gli Equi, nel loro misero stato, avessero affrontato la guerra basandosi soltanto sulle proprie forze -, che per far fronte a quell'insurrezione venne nominato dittatore Gaio Giunio Bubulco. Questi, partito col maestro di cavalleria Marco Titinio, al primo scontro ebbe la meglio sugli Equi e, rientrato a Roma in trionfo dopo otto giorni, inaugurò come dittatore il tempio alla Salute che aveva promesso in voto quand'era console e la cui costruzione aveva dato in appalto al tempo della sua censura.

Nello stesso anno una flotta greca agli ordini dello spartano Cleonimo approdò sulle coste italiche, andando a occupare la città di Turie nel territorio dei Sallentini. Fu inviato ad affrontarlo il console Emilio, che mise in fuga Cleonimo con un'unica battaglia, costringendolo a trovare riparo sulle navi. Turie venne così restituita ai suoi cittadini, e nel territorio sallentino ritornò la pace. In alcuni annali ho trovato che a essere inviato tra i Sallentini fu il dittatore Giunio Bubulco, e che Cleonimo lasciò l'Italia prima ancora che lo scontro coi Romani diventasse inevitabile.

Dopo aver doppiato il capo di Brindisi ed esser stati spinti dai venti in mezzo all'Adriatico, temendo sulla sinistra le coste italiche prive di porti e sulla destra la presenza di Illiri, Liburni e Istri (popoli bellicosi e di pessima fama perché dediti alla pirateria), avanzarono fino alle coste abitate dai Veneti. Lì Cleonimo, dopo aver sbarcato alcuni uomini col cómpito di esplorare la zona, ricevette queste informazioni: che c'era una sottile striscia di terra oltre la quale si aprivano lagune alimentate dall'acqua del mare; che si vedevano lì vicino campagne pianeggianti e, poco oltre, colline; che inoltre avevano individuato la foce di un fiume molto profondo dov'era possibile ormeggiare le navi in maniera sicura (il fiume era il Brenta). Allora Cleonimo ordinò di trasferire la flotta in quella zona risalendo la corrente. Poiché il letto del fiume non permetteva il passaggio delle navi più pesanti, la massa degli uomini armati si trasferì sulle imbarcazioni più leggere e arrivò in una zona molto abitata, dov'erano stanziate tre tribù marittime di Patavini. Sbarcati in quel punto, dopo aver lasciato una piccola guarnigione di presidio alle navi, espugnarono i villaggi, incendiarono le abitazioni, portarono via uomini e animali, allontanandosi sempre più dalle navi nella prospettiva di ulteriore bottino.

Quando a Padova arrivò la notizia di ciò che stava succedendo, gli abitanti, costretti a un perenne allarme dalla minaccia dei Galli, divisero le proprie forze in due contingenti. Il primo si portò nella zona in cui erano stati segnalate le incursioni nemiche, l'altro, seguendo un percorso diverso per non incontrare gli avversari, si diresse invece verso il punto in cui erano ancorate le navi, a quattordici miglia dalla città. Eliminati gli uomini di guardia con un attacco di sorpresa, si riversarono sulle navi, costringendo i marinai a spostarle sulla sponda opposta del fiume. Anche lo scontro sulla terraferma contro gli autori dei saccheggi ebbe esito positivo. E mentre i Greci cercavano scampo in direzione delle navi, vennero affrontati dall'altro contingente di Veneti, che li accerchiò e massacrò. Alcuni prigionieri rivelarono che la flotta col re Cleonimo si trovava a tre miglia di distanza. Così, dopo aver lasciato i prigionieri in un villaggio dei dintorni perché fossero sorvegliati, i Patavini, imbarcandosi parte su battelli da fiume costruiti apposta col fondo piatto per affrontare i bassi fondali delle lagune, e parte invece sulle imbarcazioni sottratte ai Greci, raggiunsero la flotta nemica, circondandone le navi rimaste immobili per paura del fondale sconosciuto più che del nemico. E mentre i Greci fuggivano verso il largo senza nemmeno cercare di opporre resistenza, i Patavini li inseguirono fino alla foce del fiume, e dopo aver strappato loro e incendiato alcune delle navi finite, nella grande confusione, sui banchi di sabbia, rientrarono vincitori. Cleonimo se ne partì con soltanto un quinto della flotta intatto, senza aver raccolto alcun risultato in nessuna parte dell'Adriatico. A Padova ci sono ancora oggi molte persone che hanno visto i rostri delle navi e le spoglie spartane appese nel vecchio santuario di Giunone. A ricordo di quella battaglia fluviale, nel giorno in cui essa fu combattuta si tengono oggi solenni gare di navi lungo il fiume che scorre attraverso la città.

Nello stesso anno a Roma venne stipulato un trattato con gli abitanti di Vesta giunti con una richiesta di amicizia. Ci furono poi numerose ragioni di allarme. Arrivò la notizia che l'Etruria si stava ribellando a séguito di un'insurrezione scoppiata ad Arezzo, dove l'influente famiglia dei Cilni, odiata dagli Aretini per le ricchezze che possedeva, stava per essere scacciata con la forza dalla città. Nel contempo fu annunciato che i Marsi stavano difendendo con vigore la terra sulla quale era stata fondata la colonia di Carseoli, costituita da 4.000 uomini. Per far fronte a questi disordini, venne nominato dittatore Marco Valerio Massimo, che scelse come maestro di cavalleria Marco Emilio Paolo. Personalmente preferisco questa versione dei fatti a quella secondo la quale Quinto Fabio, non ostante l'età e le molte cariche ricoperte, sarebbe stato subordinato a Valerio. D'altra parte sarei portato a credere che l'errore sia dovuto alla confusione creata dal soprannome Massimo. Uscito da Roma alla guida dell'esercito, il dittatore sbaragliò i Marsi con un'unica battaglia. Dopo averli costretti a barricarsi all'interno delle loro città fortificate, nel giro di pochi giorni conquistò Milionia, Plestina e Fresilia. Condannò poi i Marsi alla perdita di parte del territorio, rinnovando però il trattato di alleanza con loro. Teatro delle operazioni fu in séguito l'Etruria. Mentre il dittatore si era recato a Roma per il rinnovo degli auspici, il maestro di cavalleria cadde in un'imboscata mentre usciva allo scoperto per cercare rifornimenti: perse alcune insegne, venne risospinto nell'accampamento, dopo un orribile massacro e la fuga vergognosa dei suoi uomini. Questa reazione terrorizzata non può essere attribuita a Fabio, e non solo perché se qualche altra dote più di altre gli valse il soprannome di Massimo questa fu certo la perizia strategica in guerra, ma anche perché non si sarebbe mai lasciato trascinare allo scontro senza un preciso ordine del dittatore, memore com'era della severità di Papirio.

Quando la sconfitta venne annunciata a Roma, la reazione fu un panico sproporzionato alla realtà dei fatti. Come se l'esercito fosse stato fatto a pezzi, venne proclamata la sospensione delle attività giudiziarie, vennero piazzate sentinelle alle porte e fissati turni di vigilanza nei vari quartieri, mentre lungo il perimetro delle mura furono accumulati armi e proiettili. Dopo aver costretto tutti i giovani a prestare giuramento militare, il dittatore raggiunse l'esercito e trovò che la situazione era meno preoccupante di quanto non si aspettasse, e che il maestro di cavalleria aveva curato di rimettere tutto a posto: il campo era stato trasferito in un punto più sicuro, le coorti che avevano perduto le insegne erano state collocate al di là della trincea e non avevano tende, mentre l'esercito era impaziente di gettarsi nella mischia per riscattare quanto prima l'onta subita. Il dittatore fece pertanto spostare il campo più avanti, nel territorio di Ruselle. I nemici lo seguirono e, pur nutrendo dopo la vittoria grosse speranze di avere la meglio anche in un confronto in campo aperto, ciò non ostante ricorsero di nuovo alla tecnica dell'imboscata, di cui già si erano avvalsi con successo. Non lontano dall'accampamento romano c'erano le case diroccate di un villaggio messo a ferro e fuoco nel corso dei saccheggi alle campagne. I soldati nemici vi si andarono a nascondere, spingendo del bestiame di fronte a un presidio romano comandato dal luogotenente Gneo Fulvio. Poiché dalla postazione romana nessuno si lasciava attirare dall'esca, uno dei pastori arrivò fin sotto i dispositivi di difesa romani e gridando domandò ai compagni impegnati a sospingere con grande esitazione il bestiame fuori dai ruderi del villaggio che cosa avessero mai da aspettare, dato che potevano tranquillamente far passare gli animali attraverso l'accampamento romano. Alcuni soldati provenienti da Cere tradussero queste parole al luogotenente suscitando grande sdegno nei soldati di tutti i reparti, i quali però non osavano prendere alcuna iniziativa senza l'ordine del comandante; quest'ultimo ordinò allora agli interpreti di prestare attenzione se la lingua parlata da quei pastori fosse più simile a quella delle campagne o a quella di città. Quando gli venne riferito che l'inflessione della parlata, l'aspetto esteriore e la carnagione erano troppo raffinati per dei pastori, egli disse: «Andate, dite pure che rivelino il tranello che hanno cercato invano di nascondere: ormai i Romani sono al corrente di tutto, e ingannarli è difficile quanto superarli con le armi». Quando i sedicenti pastori sentirono queste parole e le andarono a riferire agli uomini pronti all'imboscata, i nemici saltarono immediatamente fuori dai nascondigli, e avanzarono in assetto da guerra verso la pianura che si apriva alla vista nella sua estensione. L'esercito schierato diede al luogotenente l'impressione di essere troppo massiccio perché il suo presidio fosse in grado di affrontarlo. Per questo mandò in fretta a chiedere aiuti al dittatore, sostenendo nel frattempo da solo l'urto dei nemici.

Quando il dittatore ricevette il messaggio, ordinò ai soldati di uscire dall'accampamento e di seguirlo con le armi in pugno. Occorse meno tempo ad eseguire gli ordini che a impartirli. Gli uomini afferrarono in un attimo armi e insegne, e non era facile impedire che partissero immediatamente di corsa. A pungolarli erano tanto la rabbia per la sconfitta subita quanto il frastuono che arrivava sempre più forte dal campo di battaglia a misura che lo scontro aumentava di intensità. Così si incitavano l'uno con l'altro, esortando gli alfieri ad accelerare l'andatura. Ma il dittatore, più li vedeva impazienti, più era risoluto nell'ordinar loro di rallentare la marcia e di procedere lentamente. Dal canto loro gli Etruschi si erano gettati nella mischia impiegando sùbito tutte le loro forze. Un messaggero dopo l'altro arrivavano a riferire al dittatore che tutte le legioni etrusche stavano prendendo parte alla battaglia e che il presidio romano non era più in grado di resistere. Egli stesso poté vedere da un'altura in quali difficoltà si dibattessero i suoi. Confidando però nel fatto che il luogotenente fosse ancora in grado di reggere lo scontro, pur essendo già così vicino da poter accorrere in aiuto in caso di pericolo, volle che il nemico si sfiancasse il più possibile, in modo da poterlo aggredire con le truppe fresche quando ormai fosse allo stremo delle forze. Pur avanzando molto lentamente, restava ora poco spazio per lanciare la carica, specialmente per i cavalieri. In testa marciavano le insegne della fanteria, per evitare che il nemico avesse a sospettare mosse a sorpresa o tranelli. Ma il dittatore aveva lasciato intervalli tra le file di fanti, in modo che ci fosse spazio a sufficienza per far caricare i cavalli. Non appena si levò il grido di battaglia, i cavalieri si lanciarono a briglia sciolta contro i nemici che, impreparati a resistere all'urto imperioso della cavalleria, vennero colti da un attacco improvviso di panico. Così, anche se l'aiuto per poco non arrivava troppo tardi agli uomini che stavano per essere sopraffatti, ora poterono finalmente riposarsi per bene. Infatti subentrarono nel combattimento i soldati freschi, e lo scontro non fu più né incerto né si trascinò per le lunghe. Travolti, i nemici puntarono verso l'accampamento, e cedendo ai Romani che stavano già facendo breccia si andarono ad ammassare sul lato opposto del campo. I fuggitivi restarono intrappolati negli stretti passaggi delle porte: molti salivano sulla trincea e sul terrapieno, sperando di difendersi meglio da quella posizione elevata o di scavalcarne il perimetro in qualche punto e scappare. Ma per puro caso avvenne che il terrapieno, non essendosi ancora rassodato per bene, a causa del peso dei soldati che vi si trovavano al di sopra franò in un punto sbriciolandosi nel fossato sottostante: sfruttando quella breccia i nemici - più numerosi quelli disarmati che quelli armati - si precipitarono fuori urlando che gli dèi avevano voluto aprire loro una via di fuga.

Quella battaglia fu la seconda occasione in cui la potenza etrusca venne sopraffatta, e il dittatore concesse agli sconfitti di mandare ambasciatori a Roma per discutere la pace, a patto che pagassero lo stipendio di un anno all'esercito e lo rifornissero di viveri per due mesi. La pace fu negata, mentre venne concessa una tregua di due anni. Il dittatore tornò a Roma in trionfo. Alcuni autori riferiscono che il dittatore riportò la pace in Etruria senza dover combattere battaglie degne di menzione, limitandosi a soffocare l'insurrezione degli Aretini grazie a una riconciliazione della plebe con la famiglia dei Cilni. Dopo la dittatura, Marco Valerio venne eletto console. Secondo alcune fonti egli venne eletto pur non avendo presentato la candidatura e per di più restando assente, e a presiedere quelle elezioni fu un interré. Ciò su cui tutti si trovano d'accordo, è che egli detenne il consolato insieme ad Apuleio Pansa.

Durante il consolato di Marco Valerio e di Quinto Apuleio la situazione all'estero si mantenne relativamente pacifica. La sconfitta patita e la tregua concordata costringevano gli Etruschi a rimanere inattivi; i Sanniti, provati dalle perdite di molti anni di guerra, per il momento non erano scontenti del nuovo trattato; e anche a Roma la partenza di una cospicua quantità di persone verso le colonie aveva reso la plebe più tranquilla liberandola di molti oneri. Eppure, per far sì che non tutto fosse calmo, i tribuni Quinto e Gneo Ogulnio aprirono una controversia tra le famiglie più in vista del patriziato e della plebe. Dopo aver tentato con ogni mezzo di mettere in cattiva luce i patrizi agli occhi della plebe, i due tribuni, avendo visto fallire altri tentativi, si fecero carico di un'iniziativa rivolta non tanto alla parte più bassa della plebe, quanto piuttosto alle sue personalità egemoni, cioè quei plebei che erano stati consoli riportando trionfi, ai quali - tra le tante cariche ricoperte - mancavano ormai soltanto quelle di natura religiosa, che non erano ancora aperte alla plebe. Proposero quindi una legge in base alla quale venissero aggiunti ai quattro pontefici e ai quattro àuguri già esistenti quattro pontefici e cinque àuguri eletti all'interno della plebe. Non ho trovato alcuna spiegazione al fatto che in quel periodo il collegio degli àuguri si fosse ridotto a contare su quattro membri, a meno che ne fossero deceduti due. È noto infatti che il numero degli àuguri dev'essere dispari, in maniera tale che le tre antiche tribù di Ramnensi, Tiziensi e Luceri abbiano un àugure a testa, oppure, qualora si renda necessario un numero più alto di officianti, i sacerdoti siano sempre moltiplicati in proporzioni pari, come successe quando, aggiungendone cinque ai quattro esistenti, si raggiunse il numero di nove, ovvero tre per ogni tribù. Il fatto che si avessero àuguri scelti all'interno della plebe suscitò nei patrizi un'indignazione pari a quella provata vedendo il consolato divenire accessibile alle masse. Davanti all'opinione pubblica fingevano che la cosa riguardasse più gli dèi che loro stessi: gli dèi avrebbero fatto in modo di evitare che i riti sacri subissero contaminazioni, ed essi si auguravano soltanto che non si abbattesse qualche calamità sul paese. Tuttavia non si opposero con grande accanimento, abituati ormai ad avere la peggio in confronti politici di quel tipo. Vedevano infatti che i loro avversari ormai non si limitavano soltanto più ad aspirare alle cariche di maggiore prestigio - cariche che in passato avevano sperato a stento di ottenere -, ma avevano raggiunto già tutti i traguardi per i quali la lotta era stata ben più incerta, e cioè consolati, censure e trionfi in grande quantità.

Tuttavia si aprì il dibattito tra i fautori e gli oppositori della legge, e in particolare fra Appio Claudio e Publio Decio Mure. Dopo essersi confrontati discutendo sui diritti del patriziato e della plebe, e ricorrendo più o meno agli stessi argomenti usati ai tempi della legge Licinia, proprio nel momento in cui veniva chiesta l'ammissione della plebe al consolato, pare che Decio abbia rievocato la figura del padre, quale molti dei presenti avevano avuto modo di vedere in carne e ossa, quando aveva offerto in voto la propria vita per il popolo e per l'esercito romano, con i piedi sulla lancia e indosso la toga portata alla maniera di Gabi. Diceva che in quel momento il console Publio Decio era parso pio e puro agli dèi immortali, allo stesso modo in cui sarebbe apparso il suo collega Tito Manlio nel caso in cui si fosse lui offerto in voto. Forse che quello stesso Publio Decio non avrebbe potuto essere regolarmente scelto per celebrare i riti sacri del popolo romano? C'era forse il rischio che gli dèi non ascoltassero le sue preghiere come quelle di Appio Claudio? Forse Appio era più devoto nella pratica dei culti privata e onorava gli dèi in maniera più conforme al rito di quanto non facesse lui? Chi si era mai lamentato dei voti pronunciati a nome dello Stato da tanti consoli e da tanti dittatori plebei prima di partire per la guerra e durante la guerra? Che andassero a passare in rassegna i comandanti di quegli anni, da quando cioè le guerre avevano cominciato a essere affidate al comando e agli auspici dei plebei. Che andassero a contare i trionfi ottenuti: ormai i plebei non dovevano più lamentarsi nemmeno di essere inferiori quanto a nobiltà di sangue. Decio era sicuro che, se fosse scoppiata una guerra sul momento, il senato e il popolo romano non avrebbero fatto affidamento sui comandanti patrizi più che sui plebei.

«E visto che le cose stanno in questi termini», aggiunse, «chi tra gli uomini e gli dèi può considerare indegno il fatto che le insegne di àuguri e pontefici vengano attribuite a quei gentiluomini che voi avete insignito delle sedie curuli, della toga pretesta, della tunica palmata, della toga ricamata, della corona trionfale e dell'alloro, le cui case avete adornato con le spoglie nemiche appese alle pareti? L'uomo che ha attraversato la città sul cocchio dorato ed è salito fin sul Campidoglio con indosso la veste onorata di Giove Ottimo Massimo non potrà forse farsi vedere con la coppa e il lituo, quando ucciderà le vittime col capo coperto dal velo e prenderà gli auspici dall'alto della cittadella? Se nell'iscrizione ai piedi del busto voi leggete senza rimanere sconvolti la menzione del consolato, della censura e del trionfo, pensate che i vostri occhi non sopporteranno di vedervi aggiunta quella dell'augurato e del pontificato? A essere sincero - e possano gli dèi accogliere bene le mie parole - sono fermamente convinto che noi, grazie al popolo romano, ci troviamo ormai in una posizione tale da garantire alle cariche sacerdotali, in virtù dei meriti acquisiti, non minor prestigio di quanto esse ne riceveranno da noi, e da poter chiedere, nell'interesse degli dèi più che nel nostro, di celebrare il culto pubblico di quelle divinità che noi veneriamo in privato.

Ma perché, fino a questo punto, mi sono espresso come se i patrizi continuassero ad avere privilegi assoluti in materia di cariche sacerdotali, e noi non avessimo già il controllo di una di esse, e per di più molto importante? Sappiamo che sono plebei i decemviri addetti alle cose sacre, interpreti delle profezie della Sibilla e del destino di questa gente, e inoltre custodi del tempio di Apollo e depositari di altri riti. E come i patrizi non hanno subito alcun torto quando il numero dei duumviri addetti alle cose sacre è stato aumentato per far posto ai plebei, allo stesso modo un tribuno forte e intraprendente ha adesso aggiunto quattro cariche pontificali e cinque augurali riservate ai plebei, non certo per scalzarvi dai vostri posti, Appio, ma perché gli esponenti della plebe operino al vostro fianco anche nell'esercizio delle funzioni divine, come già fanno in quelle umane per quanto sta in loro potere. Non vergognarti, Appio, di avere come collega nel sacerdozio chi può esserlo stato nella censura o nel consolato, o potrebbe essere dittatore mentre tu sei maestro di cavalleria o ancora maestro di cavalleria mentre tu eserciti la dittatura. I patrizi di un tempo accolsero tra loro uno straniero venuto dalla Sabina, capostipite della vostra nobile stirpe, l'uomo che voi chiamate Attio Clauso o Appio Claudio: di conseguenza non disdegnare di ammetterci nel numero dei sacerdoti. Portiamo con noi molti titoli di prestigio, anzi quelli stessi che vi hanno resi arroganti. Lucio Sestio fu il primo console plebeo, Gaio Licinio Stolone il primo maestro di cavalleria, Gaio Marcio Rutilo il primo dittatore e il primo censore, Quinto Publilio Filone il primo pretore. Da voi abbiamo sempre sentito le stesse argomentazioni: che gli auspici appartengono a voi, che voi soli avete sangue nobile, voi soli il potere legittimo nonché il diritto di prendere gli auspici in pace e in guerra. Ma fino a oggi il comando affidato ai patrizi e quello affidato ai plebei hanno fatto registrare gli stessi risultati, e sempre sarà così negli anni a venire. Ma non avete mai sentito dire che in origine a essere chiamati patrizi non furono esseri scesi dal cielo, ma piuttosto quelli che potevano chiamare il padre, o più semplicemente quanti erano nati liberi? Io posso ormai chiamare padre un console, e mio figlio potrà chiamare console suo nonno. Quindi, Quiriti, qui null'altro è in causa se non il fatto che ci venga concesso quanto ci era prima negato. La sola cosa che i patrizi cercano è il confronto politico, senza preoccuparsi dell'esito. Io sono dell'idea che questa legge dovrebbe essere approvata così com'è stata presentata, e che ciò possa essere motivo di prosperità per voi e per il paese».

Il popolo voleva che venissero immediatamente chiamate a votare le tribù, e sembrava che la legge fosse sul punto di essere approvata. Ma quel giorno la decisione venne rimandata perché alcuni tribuni opposero il proprio veto. Il giorno successivo, però, i tribuni cambiarono parere, la legge venne approvata a grande maggioranza. Furono eletti pontefici Publio Decio Mure, l'uomo cioé che aveva presentato la legge, Publio Sempronio Sofo, Gaio Marcio Rutilio, e Marco Livio Dentre. I cinque àuguri ugualmente plebei furono Gaio Genucio, Publio Elio Peto, Marco Minucio Feso, Gaio Marcio e Tito Publilio. Venne così raggiunto il numero di otto pontefici e nove àuguri.

Nello stesso anno Marco Valerio presentò una legge relativa al diritto di appello al popolo, che ne sanciva i termini in maniera più rigorosa. Fu questa la terza legge presentata sul medesimo argomento dal tempo della cacciata dei re, e sempre su iniziativa della stessa famiglia. Io penso che essa fosse stata riproposta in più occasioni soltanto per il fatto che lo strapotere economico di pochi valeva più della libertà della plebe. Tuttavia sembra che soltanto la legge Porcia, stabilendo una pena cospicua per chi avesse frustato o ucciso un cittadino romano, sia stata presentata al fine di proteggere l'incolumità dei cittadini. La legge Valeria, invece, pur vietando di frustare e decapitare un cittadino che avesse fatto appello al popolo, non stabiliva alcuna pena per chi l'avesse violata, salvo il fatto di giudicare tale violazione un'azione «mal fatta». Ma secondo me, in quel tempo la moralità della gente era così solida da far sembrare quel monito un incentivo sufficiente al rispetto della legge. Oggi nessuno rivolgerebbe un simile monito parlando seriamente.

Lo stesso console guidò una spedizione di modesta importanza contro gli Equi che si erano ribellati, anche se della loro fortuna di un tempo non avevano conservato nient'altro che la fierezza interiore. L'altro console, Apuleio, era impegnato nell'assedio della città di Nequino in Umbria: questa città, corrispondente all'attuale Narnia, si trovava in una posizione sopraelevata e ripida da uno dei versanti, e non era quindi possibile prenderla con la forza né col ricorso a dispositivi d'assedio. Perciò i nuovi consoli in carica, Marco Fulvio Peto e Tito Manlio Torquato ricevettero in eredità l'impresa ancora incompiuta.

Licinio Macro e Tuberone riferiscono questa notizia: siccome tutte le centurie stavano per eleggere console per quell'anno Quinto Fabio pur non avendo quest'ultimo presentato la propria candidatura, fu lui stesso a differire il suo consolato a un anno caratterizzato da un numero superiore di guerre. Per quell'anno sarebbe stato invece più utile al paese nell'esercizio di una magistratura di carattere urbano. Così, pur non essendosi presentato candidato, ma non avendo nascosto le proprie preferenze, sarebbe stato nominato edile curule insieme con Lucio Papirio Cursore. Chi mi porta a mettere in dubbio questa notizia è Pisone, autore più antico, il quale riferisce che gli edili curuli di quell'anno furono Gneo Domizio Calvino figlio di Gneo e Spurio Carvilio Massimo figlio di Massimo. Ho l'impressione che a far nascere l'errore sia stato il soprannome di quest'ultimo personaggio, e che di lì derivi la storia, in piena sintonia con l'errore che mescola le elezioni degli edili a quelle dei consoli. Nel corso di quell'anno fu anche tenuto il censimento dai censori Publio Sempronio Sofo e Publio Sulpicio Savarrone, e vennero aggiunte due nuove tribù, la Aniense e la Teretina. Questo quanto avvenne a Roma.

Nel frattempo, mentre attorno alla fortezza di Nequino il tempo si trascinava in un lento assedio, due cittadini le cui abitazioni si trovavano a ridosso delle mura scavarono un cunicolo e arrivarono di nascosto ai posti di guardia romani; condotti al cospetto del console asserirono di poter far entrare un manipolo armato all'interno delle mura. La proposta non sembrò da trascurare, ma nemmeno così rassicurante da fidarsene ciecamente. Uno dei due disertori venne trattenuto in ostaggio, e due esploratori vennero inviati con l'altro attraverso il cunicolo sotterraneo. Quando le loro informazioni confermarono la praticabilità del progetto, 300 soldati alla guida del Nequinate entrarono in città nel cuore della notte e occuparono la porta più vicina. Dopo averla abbattuta, il console e l'esercito romano penetrarono in città senza dover alzare un dito. Così Nequino finì in mano dei Romani. La colonia che vi venne inviata nell'intento di fronteggiare gli Umbri prese il nome di Narnia da quello del fiume che la attraversava: quanto all'esercito, venne riportato a Roma carico di bottino.

Nello stesso anno gli Etruschi fecero preparativi di guerra, contravvenendo alla tregua stipulata. Ma mentre erano impegnati in queste faccende, un grosso contingente di Galli fece ingresso nel loro territorio, distogliendoli per qualche tempo dai loro progetti. Ricorrendo al denaro, di cui disponevano in grande quantità, cercarono di trasformare i Galli da nemici in amici, in maniera da poter affrontare la guerra con Roma contando sul loro appoggio militare. I barbari non negarono l'alleanza, limitandosi a trattare sul prezzo. Dopo aver negoziato e ricevuto quanto richiesto, quando ormai tutto era pronto per la guerra e gli Etruschi li invitavano a seguirli, i Galli negarono di aver pattuito il compenso per fare guerra ai Romani, sostenendo invece che la somma era stata riscossa per non saccheggiare il territorio etrusco e non tormentarne gli abitanti col ricorso alle armi. In ogni caso, se proprio gli Etruschi insistevano, i Galli avrebbero partecipato alla guerra, ma solo a patto di ottenere parte del territorio etrusco, in modo da potersi finalmente stanziare in una sede sicura. I popoli dell'Etruria organizzarono parecchie assemblee per prendere una decisione in proposito, senza però arrivare a risultati concreti, e non tanto perché non si sentissero di accettare una riduzione del loro territorio, quanto perché tutti inorridivano all'idea di avere come vicini un popolo tanto feroce. I Galli vennero così congedati, con una grossa somma di denaro conquistata senza correre rischi e senza fatica alcuna. A Roma la notizia dell'allarme da parte dei Galli alleati agli Etruschi seminò il panico. Fu per questo che col popolo dei Piceni venne stipulato un trattato in tempi ancora più brevi.

La campagna in Etruria toccò in sorte al console Tito Manlio. Egli, appena entrato in territorio nemico, mentre era impegnato in un'esercitazione insieme ai cavalieri, venne sbalzato di sella nell'atto di far invertire la marcia al cavallo, e per poco non morì sul colpo. Spirò due giorni dopo. Interpretando la cosa come un augurio positivo sugli esiti del conflitto, gli Etruschi imbaldanzirono, sia per la scomparsa di un uomo di quella levatura, sia per le difficoltà contingenti che ne derivavano ai Romani. Il senato si astenne dal nominare un dittatore soltanto perché dalle elezioni consolari uscì il nome caldeggiato dai capi della città: infatti tutti i voti e tutte le centurie designarono in qualità di console Marco Valerio, che il senato si proponeva di nominare dittatore. Egli ricevette sùbito la disposizione di partire per l'Etruria, per assumervi il comando dell'esercito. Il suo arrivo frenò gli Etruschi, al punto che nessun uomo osava più uscire fuori dai dispositivi di difesa, e la paura li aveva resi simili a tanti assediati. Il nuovo console non riuscì a trascinarli in battaglia nemmeno mettendo a ferro e fuoco le campagne e incendiando le case, anche se da ogni parte si alzava il fumo degli incendi, non solo dalle fattorie, ma anche da popolosi villaggi.

Mentre la guerra si trascinava più lentamente del previsto, i Piceni, i nuovi alleati, vennero a informare il senato di un'altra guerra, che non a torto incuteva timore, per i numerosi rovesci che entrambe le parti avevano subito. I Sanniti stavano compiendo preparativi per riprendere le ostilità, e avevano cercato di sobillare gli stessi Piceni. Il senato, ringraziati gli alleati, si concentrò quasi integralmente sul Sannio, distogliendo l'attenzione dall'Etruria.

Nel corso dell'anno la città venne afflitta anche da una carestia, e si sarebbe arrivati al massimo di disagio, se - come sostengono gli autori secondo cui Fabio Massimo sarebbe stato edile della plebe in quell'anno - nel distribuire i viveri e nel procacciare grano quest'uomo non avesse dimostrato lo stesso attaccamento alla causa che in molti frangenti aveva dimostrato in guerra. Quell'anno si ebbe un interregno, di cui però non è stata tramandata la causa. Gli interré furono Appio Claudio e quindi Publio Sulpicio. Questi presiedette le elezioni consolari, proclamando eletti Lucio Cornelio Scipione e Gneo Fulvio.

All'inizio dell'anno i due nuovi consoli ricevettero una delegazione di Lucani venuti a lamentarsi del fatto che i Sanniti, non essendo riusciti a convincerli per via diplomatica a stipulare un trattato di alleanza, erano entrati nel loro territorio con un esercito in assetto da guerra, e lo stavano mettendo a ferro e fuoco nella speranza appunto di indurli alla guerra. In passato il popolo lucano aveva già commesso troppi errori: ora erano assolutamente convinti che fosse preferibile sopportare qualsiasi difficoltà piuttosto che irritare di nuovo i Romani. Pregavano il senato sia di prendere i Lucani sotto la protezione di Roma, sia di liberarli dalla violenza e dalla prepotenza dei Sanniti. Da parte loro, pur avendo già fornito una prova di sicura lealtà scendendo in campo contro i Sanniti, erano comunque disposti a consegnare degli ostaggi.

La discussione in senato fu breve: tutti si dichiararono d'accordo nello stringere un patto di alleanza con i Lucani e nel chiedere riparazione ai Sanniti. Ai Lucani venne data risposta positiva e fu stipulato un trattato. Ai Sanniti furono invece inviati i feziali con l'ordine perentorio di allontanarsi dal territorio degli alleati e di ritirare l'esercito dai confini della Lucania. Ma sulla strada vennero loro incontro degli inviati di parte sannita, i quali dichiararono che, qualora fossero comparsi di fronte a un'assemblea nel Sannio, non ne sarebbero usciti illesi. Quando la cosa si venne a sapere a Roma, il senato propose di dichiarare guerra ai Sanniti e il popolo avallò la proposta.

I consoli si divisero gli incarichi: a Scipione toccò l'Etruria, a Fulvio il Sannio, e ciascuno partì per il fronte che gli era stato assegnato. Scipione, che progettava una campagna blanda, sul tenore di quella dell'anno precedente, venne affrontato presso Volterra dai nemici schierati in ordine di battaglia. Lo scontro proseguì per quasi tutto il giorno, ed entrambe le parti subirono forti perdite. La notte sopraggiunse senza che si potesse capire a chi fosse andata la vittoria. Ma la luce del giorno successivo mise in chiaro chi fosse il vincitore e chi il vinto: gli Etruschi, infatti, avevano abbandonato l'accampamento durante la notte. I Romani scesi in battaglia, vedendo che la partenza del nemico aveva consegnato loro in mano la vittoria, si avvicinarono all'accampamento: lo trovarono deserto e se ne impadronirono raccogliendo un bottino ricchissimo (era infatti un campo fisso abbandonato in fretta e furia). Il console riportò poi le truppe nel territorio dei Falisci. Lasciati i carriaggi a Faleri insieme con una guarnigione di modeste proporzioni, si diede a saccheggiare il territorio nemico con gli uomini liberi da pesi. Tutto venne messo a ferro e fuoco, e dovunque si rastrellò del bottino. E non si limitarono a devastare le campagne, ma incendiarono anche posizioni fortificate e villaggi. Il console evitò comunque di attaccare la città, dove il panico aveva costretto gli Etruschi a cercare rifugio.

Una celebre battaglia nei pressi di Boviano, nel Sannio, fece registrare una netta vittoria del console Gneo Fulvio che, avendo assalito Boviano e poco dopo anche Aufidena, le prese entrambe con la forza.

Nello stesso anno fu fondata una colonia a Carseoli, nel territorio degli Equicoli. Il console Fulvio celebrò il trionfo sui Sanniti. Quando le elezioni dei consoli erano ormai alle porte, cominciò a circolare la voce che Etruschi e Sanniti stavano allestendo grossi eserciti. Si diceva che in tutte le assemblee i capi etruschi venivano attaccati senza mezzi termini per non essere riusciti a trascinare in nessun modo i Galli in guerra, i magistrati sanniti per aver gettato allo sbaraglio contro i Romani l'esercito che era stato raccolto contro i Lucani. E così i nemici, unendo le proprie forze a quelle degli alleati, stavano per sollevarsi in guerra, e i Romani dovevano affrontare uno scontro impari. Questo stato di grande allarme fece sì che, pur aspirando al consolato dei candidati di valore, tutti votarono Quinto Fabio Massimo, che in un primo tempo non aveva nemmeno presentato la propria candidatura, e che poi, vedendo l'orientamento degli elettori, continuava a rifiutare la carica. Chiedeva perché mai continuassero a rivolgersi a lui, vecchio com'era e dopo tutte le fatiche sostenute e i riconoscimenti avuti in cambio delle sue fatiche. Diceva che il fisico e la mente non erano più nelle condizioni di un tempo, e aveva paura che a qualche dio sembrasse eccessiva la fortuna toccatagli, e più costante di quanto non fosse lecito alla natura umana. Era salito fino alla gloria dei più anziani, e adesso sarebbe stato un piacere vedere altri assurgere alla sua gloria. E a Roma non mancavano certo né alti riconoscimenti per uomini di valore, né uomini di valore all'altezza di tali riconoscimenti. Con una modestia simile non faceva che incrementare il più che giusto entusiasmo del popolo: pensando allora di poterne vincere la resistenza con un richiamo al rispetto delle leggi, pregò di leggere ad alta voce la legge in virtù della quale nessuno poteva essere rieletto console prima del termine di dieci anni. Ma il frastuono era tale che la legge si udì a malapena; per giunta i tribuni della plebe ripetevano che essa non avrebbe rappresentato affatto un ostacolo: si impegnavano a presentare al popolo una legge che dispensasse Fabio dall'obbligo di rispettare la normativa precedente. Fabio insisteva nel rifiutare, domandando che senso avesse fare delle leggi se poi a violarle per primi erano gli stessi che le proponevano. Ma anche così il popolo iniziò a votare, e ogni centuria convocata all'interno non aveva esitazioni a designare console Fabio. Fu allora che Fabio, vinto infine dal consenso di un'intera città, disse: «Possano gli dèi approvare, Quiriti, quello che fate e che siete sul punto di fare. Ma dato che di me finirete per fare ciò che volete voi, almeno accontentatemi nella nomina del collega: vi prego di nominare console con me Publio Decio, uomo degno di voi e del padre: di lui ho potuto sperimentare le qualità durante un consolato retto in perfetto accordo». La raccomandazione sembrò giusta. Tutte le centurie residue nominarono consoli Quinto Fabio e Publio Decio.

Quell'anno molti cittadini vennero citati in giudizio dagli edili, perché possedevano più terreno di quanto fosse consentito dalla legge. Quasi nessuno venne assolto, il che pose un forte freno agli eccessi di cupidigia.

I nuovi consoli, Quinto Fabio Massimo per la quarta volta e Publio Decio Mure per la terza, dovevano scegliere il proprio campo di operazione, contro i Sanniti l'uno, contro gli Etruschi l'altro. Mentre discutevano quante forze fossero necessarie per ciascun fronte, e chi dei due fosse più indicato a gestire l'una o l'altra campagna, arrivarono ambasciatori da Sutri, Nepi e Faleri ad annunciare che i popoli dell'Etruria stavano tenendo assemblee apposite sulla richiesta di pace. Perciò tutti gli sforzi bellici vennero concentrati sull'obiettivo sannita. Partiti da Roma, i consoli guidarono gli eserciti nel Sannio seguendo percorsi diversi, per far sì che l'approvvigionamento di viveri fosse più facile e il nemico avesse maggiori incertezze sulla direzione dell'attacco. Fabio passò attraverso il territorio di Sora, Decio attraverso quello dei Sidicini. Arrivati al confine, entrambi avanzarono in ordine sparso dedicandosi al saccheggio, spingendosi però ad esplorare aree più lontane di quelle saccheggiate. Per questo non sfuggì loro che i nemici si erano concentrati in una valle nascosta presso Tiferno, con il proposito di aggredire i Romani da un punto sopraelevato quando fossero entrati nella valle. Lasciati i carriaggi in un luogo sicuro, con un modesto presidio, Fabio avvertì gli uomini dell'imminenza del combattimento, e si avvicinò in formazione a colonne affiancate al nascondiglio dei nemici. I Sanniti, persa la speranza della sorpresa, poiché prima o poi si doveva pure arrivare allo scontro aperto, preferirono uscire allo scoperto schierandosi anch'essi in ordine di battaglia. Così scesero a valle, affidandosi alla sorte più con la forza del coraggio che con quella della speranza. Ciò non ostante, sia perché avevano messo insieme il meglio degli uomini di tutte le genti sannite, sia perché uno scontro la cui posta era tanto elevata ne accresceva l'ardore, anche in campo aperto restarono per qualche tempo avversari capaci di incutere timore.

Fabio, vedendo che il nemico non cedeva in nessun punto, ordinò ai tribuni militari Massimo, suo figlio, e Marco Valerio, col quale si era spinto fino in prima fila, di avvicinarsi ai cavalieri e di esortarli, nel ricordo di altre occasioni in cui l'intervento della cavalleria aveva aiutato la repubblica, a fare di tutto quel giorno per mantenere intatta la reputazione del loro ordine. Nell'urto con la fanteria, i nemici erano rimasti sulle proprie posizioni, e ormai ogni speranza era affidata alla carica dei cavalieri. Poi, rivolgendosi in particolare ai due giovani con lo stesso affetto, li coprì di lodi e di promesse. Qualora però anche quel tentativo di sfondamento non avesse avuto successo, convinto di dover ricorrere all'astuzia ove la forza non fosse stata sufficiente, Fabio ordinò al luogotenente Scipione di ritirare dallo scontro gli astati della prima legione e di portarli verso i monti vicini, agendo nella maniera meno evidente possibile, e poi, attraverso un percorso non in vista, di far salire il suo manipolo fin sulla cima, sbucando all'improvviso alle spalle del nemico. E i cavalieri, con alla testa i tribuni spintisi tutt'a un tratto in prima linea, crearono scompiglio tra i nemici non meno che tra gli stessi compagni. Il fronte sannita tenne duro contro la carica della cavalleria, senza indietreggiare o aprirsi in alcun punto. I cavalieri, poiché il loro assalto non aveva avuto successo, si ritirarono alle spalle della fanteria abbandonando il combattimento. Quell'episodio fece crescere l'ardore dei nemici, e la prima linea non avrebbe potuto reggere un urto protratto tanto a lungo, se il console non avesse ordinato alla seconda di prenderne il posto. Fu allora che le forze fresche fermarono i Sanniti già in procinto di avanzare, mentre la vista degli uomini armati comparsi all'improvviso sulle cime delle alture, e le urla da essi levate spaventarono i nemici al punto da far loro temere un pericolo superiore alle sue reali proporzioni. Fabio infatti gridò che il collega Decio si stava avvicinando, e allora ogni soldato romano esultò, urlando al colmo dell'eccitazione che stava arrivando l'altro console con le sue legioni. Quest'errata interpretazione, un vero vantaggio per i Romani, diventò per i Sanniti motivo di sgomento e incentivo alla fuga: già stremati, avevano il terrore di essere sopraffatti da quell'altro esercito in forze e ancora intatto. Erano fuggiti disordinatamente in varie direzioni, e il massacro che seguì non eguagliò per proporzioni la vittoria. Le vittime tra i nemici furono 3.400, i prigionieri 830, ventitré le insegne conquistate.

Prima della battaglia, ai Sanniti si sarebbero uniti gli Apuli, se solo il console Publio Decio non si fosse accampato di fronte a loro a Malevento, e non li avesse attirati a combattere e duramente sconfitti. Anche in questo caso la fuga fu più grossa del massacro: vennero uccisi 2.000 Apuli. Lasciando poi da parte quel nemico, Decio guidò le sue legioni nel Sannio. Lì i due eserciti consolari, sparpagliandosi in zone diverse, in cinque mesi misero a ferro e fuoco tutta la regione. Decio si accampò in quarantacinque punti diversi del Sannio, l'altro console in ottantasei. E non rimasero soltanto le tracce della trincea e del terrapieno, ma in tutte le regioni saccheggiate i segni delle devastazioni furono ben più evidenti. Fabio espugnò anche la città di Cimetra, dove vennero fatti prigionieri 2.900 soldati e uccisi circa 930 nemici nello scontro.

Fabio andò poi a Roma per presiedere le elezioni, compiendo rapidamente le operazioni connesse. Poiché le prime centurie chiamate al voto designavano tutte Quinto Fabio come console, Appio Claudio, candidato alla carica, energico e ambizioso com'era, impiegò tutte le proprie risorse e quelle dell'intero patriziato per farsi nominare console assieme a Quinto Fabio, non tanto perché gli premesse la carica, quanto piuttosto perché i patrizi si riappropriassero dei due posti di console. Sulle prime Fabio rifiutava l'incarico, con gli stessi argomenti dell'anno precedente. Fu allora che l'intera nobiltà si avvicinò al suo scranno, pregandolo di tirare fuori il consolato dal fango plebeo, e di restituire la nobiltà di un tempo sia alla carica sia alle famiglie patrizie. Imposto il silenzio, Fabio con un discorso molto equilibrato placò l'animosità delle parti in causa. Disse infatti che avrebbe accettato come validi i nomi dei due patrizi, se solo avessero eletto console una persona che non fosse lui. Non avrebbe però ritenuta valida la propria elezione, per il cattivo esempio che sarebbe venuto da una violazione della legge. Così, assieme ad Appio Claudio venne eletto console il plebeo Lucio Volumnio (i due si erano già trovati a fianco in un precedente consolato). I nobili accusarono Fabio di aver voluto evitare un collega come Appio Claudio che gli sarebbe senza dubbio stato superiore per capacità oratorie e per doti politiche.

Concluse le elezioni, ai consoli uscenti venne data disposizione di proseguire la guerra nel Sannio, con la concessione di sei mesi di proroga al loro incarico. E così anche l'anno successivo, durante il consolato di Lucio Volumnio e Appio Claudio, Publio Decio - lasciato dal collega nel Sannio in qualità di console - continuò come proconsole a saccheggiare senza tregua le campagne, fino a quando riuscì finalmente a espellere l'esercito sannita, che non aveva mai avuto il coraggio di affidarsi allo scontro aperto. I Sanniti respinti si diressero in Etruria: pensando con quell'esercito tanto massiccio, mescolando preghiere e minacce, di poter meglio raggiungere lo scopo più volte vanamente inseguito per vie diplomatiche, chiesero che venisse convocata un'assemblea dei capi Etruschi. Una volta riuniti, ricordarono agli Etruschi per quanti anni avessero combattuto contro i Romani in difesa della loro libertà: avevano tentato ogni via, pur di riuscire a sostenere soltanto con le proprie forze una guerra tanto onerosa, arrivando perfino a chiedere il sostegno (a dire il vero ben poco efficace) dei popoli circostanti. Avevano chiesto al popolo romano di ottenere la pace, quando non erano più in grado di sostenere la guerra. Avevano ricominciato a combattere, perché una pace da servi era ben più pesante di una guerra da liberi. La sola speranza residua era riposta negli Etruschi. Sapevano che era la gente più ricca d'Italia quanto ad armi, uomini e denaro, e che come vicini avevano i Galli, un popolo nato tra il ferro e le armi, già disposto alla guerra per la sua stessa natura, e in particolare nei confronti dei Romani, che essi ricordavano, certo senza vana millanteria, di aver sottomesso e obbligato a un riscatto a peso d'oro. Se solo negli Etruschi albergava ancora lo spirito che in passato aveva animato Porsenna e i suoi antenati, non mancava nulla perché essi, cacciati i Romani da tutta la terra al di qua del Tevere, li costringessero a lottare per la propria salvezza, invece che per un insopportabile dominio sull'Italia. L'esercito sannita era lì, pronto per loro, con armi e denaro per pagare i soldati, disposto a seguirli su due piedi, anche se avessero voluto portarlo ad assediare addirittura Roma.

Mentre i Sanniti andavano agitando e macchinando questi propositi, la guerra portata dai Romani stava devastando il loro paese. Infatti Publio Decio, quando venne a sapere tramite gli informatori che l'esercito sannita si era messo in marcia, convocò il consiglio di guerra e disse: «Perché restiamo a vagare per le campagne, portando la guerra da un villaggio all'altro? Perché non attacchiamo le mura delle città? Il Sannio ormai non è più presidiato da nessun esercito: ritirandosi dalle loro terre, si sono inflitti da soli l'esilio». Poiché tutti approvavano la sua proposta, guidò l'esercito all'assalto di Murganzia, una città ben fortificata. E l'entusiasmo dei soldati fu tanto, sia per l'attaccamento alla persona del comandante, sia per la speranza di poter raccogliere un bottino più cospicuo di quello ricavato dalle incursioni nelle campagne, che la città venne espugnata in un solo giorno. I soldati sanniti sopraffatti e catturati furono 2.100, e si aggiunse altro bottino in grande quantità. Per evitare che l'eccessivo peso della preda rallentasse la marcia dell'esercito, Decio convocò i soldati e disse loro: «Volete accontentarvi di quest'unica vittoria e di quest'unico bottino? Volete coltivare sogni all'altezza dei vostri meriti? Tutte le città del Sannio e le fortune rimaste nelle città sono vostre, perché finalmente avete cacciato via dal Sannio le loro legioni sconfitte in così numerose battaglie. Vendete questi beni e attirate i mercanti a seguire la marcia dell'esercito agitando ai loro occhi la prospettiva di lauti guadagni: io vi procurerò sempre nuovo bottino da vendere. Partiamo per Romulea, dove vi aspettano non maggiore fatica e maggiore guadagno».

Venduto il bottino, furono i soldati stessi a sollecitare il comandante, e si partì alla volta di Romulea. Anche lì, senza dover ricorrere ad assedi e macchine da lancio, appena le truppe si avvicinarono alla città, non ci fu forza che riuscisse a contenerne l'urto: accostarono sùbito le scale alle mura nei punti che si trovavano più vicino a ogni soldato, e ne raggiunsero in un attimo la sommità. La città fu presa e saccheggiata. Gli uomini uccisi furono circa 2.300, i prigionieri 6.000. I soldati romani si impadronirono di un cospicuo bottino, che misero in vendita, come già quello precedente. Di lì vennero portati a Ferentino, sempre sostenuti dall'entusiasmo, non ostante non fosse stato loro concesso alcun riposo. In quella città le difficoltà e i rischi furono maggiori: le mura erano difese con estremo accanimento, e la posizione era protetta da fortificazioni e dalla conformazione stessa del luogo. Ma gli uomini, abituati a far bottino, riuscirono a superare ogni ostacolo. Circa 3.000 nemici vennero uccisi attorno alle mura, mentre la preda venne lasciata ai soldati. Secondo alcuni annalisti, il merito maggiore della cattura di queste città fu di Massimo: riferiscono che Murganzia sarebbe stata espugnata da Decio, Ferentino e Romulea invece da Fabio. C'è poi chi attribuisce quest'impresa ai nuovi consoli. Altri ancora non a entrambi, ma al solo Lucio Volumnio, cui sarebbe stato affidato il comando della spedizione nel Sannio.

Mentre nel Sannio venivano compiute queste imprese (non importa sotto il comando e gli auspici di chi), in Etruria molti popoli stavano preparando una grossa guerra contro i Romani; la mente dell'operazione era il sannita Gellio Egnazio. Quasi tutti gli Etruschi avevano deciso di prendere parte a quel conflitto, che aveva contagiato le popolazioni della vicina Umbria, e anche truppe ausiliarie formate da Galli attirati dai soldi. Tutta questa gente si stava radunando presso l'accampamento dei Sanniti. Quando la notizia dell'improvvisa sollevazione arrivò a Roma - dato che il console Lucio Volumnio era già partito alla volta del Sannio con la seconda e la terza legione e con 15.000 alleati -, si decise che Appio Claudio partisse quanto prima per l'Etruria. Lo seguivano due legioni, la prima e la quarta, e 12.000 alleati. L'accampamento venne posto non lontano dal nemico.

L'arrivo del console servì più perché giunse opportunamente a trattenere con la sola paura del nome di Roma alcune popolazioni dell'Etruria che avevano già intenzione di entrare in guerra, che perché sotto il suo comando fosse stata realizzata qualche abile o riuscita operazione. Molti scontri si svolsero in punti e momenti sfavorevoli, e i nemici, fiduciosi com'erano nelle proprie forze, diventavano giorno dopo giorno sempre più temibili. Ormai si era già quasi arrivati al punto che i soldati romani non avevano fiducia nel comandante, né il comandante nei soldati. In tre diversi annalisti ho trovato che Appio avrebbe inviato al collega un messaggio col quale lo richiamava dal Sannio. Tuttavia non mi sento di accettare come vera la notizia, perché i due consoli romani - che ricoprivano quella stessa carica già per la seconda volta - si trovarono in disaccordo sullo svolgimento dei fatti: Appio negava di aver mandato il messaggio, mentre Volumnio sosteneva di esser stato convocato da una lettera di Appio. Volumnio aveva già espugnato nel Sannio tre piazzeforti, uccidendovi circa 3.000 nemici e facendone prigionieri 1.500. In Lucania c'era poi stata un'insurrezione organizzata da plebei e indigenti: a sedarla, con grande soddisfazione degli ottimati, era stato Quinto Fabio, spedito in quella zona come proconsole, con il vecchio esercito. Volumnio lasciò al collega l'incarico di mettere a ferro e fuoco il territorio nemico, e partì coi suoi uomini per l'Etruria, per raggiungervi il collega. Il suo arrivo venne salutato con entusiasmo da tutti. Ma Appio che, immagino, in base alla sua coscienza avrebbe dovuto o sentirsi a buon diritto in collera (nel caso non avesse scritto nulla), oppure dimostrarsi ingiusto e ingrato (qualora stesse cercando di nascondere la cosa pur avendo chiesto soccorso), gli andò incontro senza ricambiare il saluto e disse: «Come va, Lucio Volumnio? E la situazione nel Sannio? Cosa ti ha spinto ad abbandonare il fronte di guerra che ti è stato assegnato?». Volumnio replicò che le cose nel Sannio procedevano bene, e aggiunse di essersi presentato perché convocato da un suo messaggio. Se però si trattava di un falso allarme, e non c'era bisogno di lui in Etruria, allora sarebbe immediatamente ripartito. «Vai pure, allora», replicò Appio, «nessuno ti trattiene: non ha senso che tu, che sei a malapena in grado di fronteggiare la tua campagna, ti debba vantare di esser venuto a portare aiuto agli altri». Augurandosi che Ercole potesse fare andare tutto per il meglio, Volumnio disse che preferiva aver perduto tempo invano, piuttosto che fosse successo qualcosa per cui in Etruria un solo esercito consolare non fosse sufficiente.

Mentre erano già sul punto di congedarsi, i due consoli vennero circondati dai luogotenenti e dai tribuni dell'esercito di Appio. Alcuni di essi imploravano il loro comandante di non respingere l'aiuto offerto spontaneamente dal collega (aiuto che sarebbe stato necessario richiedere); la maggior parte, attorniando Volumnio in atto di partire, lo supplicava di non tradire il paese per un'insulsa rivalità col collega: se solo ci fosse stato qualche disastro, la responsabilità sarebbe stata addossata più su chi aveva abbandonato l'altro che su chi era stato abbandonato. La situazione era tale, che ormai tutto il merito di un successo o il disonore di un insuccesso sarebbero toccati a Lucio Volumnio. Nessuno si sarebbe preoccupato di sapere quali fossero state le parole di Appio, ma solo quale sorte fosse toccata all'esercito. Appio lo aveva congedato, ma a trattenerlo erano la repubblica e l'esercito: bastava solo mettesse alla prova la volontà dei soldati.

Con queste parole di monito e queste suppliche essi riuscirono a trascinare nell'assemblea i due consoli riluttanti. Lì vennero pronunciati dei discorsi più argomentati, ma identici nella sostanza a quelli già pronunciati nella discussione ristretta. E poiché Volumnio, il quale aveva maggiori ragioni, quanto a doti oratorie non sembrava meno dotato del brillante collega, Appio disse ironicamente che i soldati gli dovevano gratitudine, se ora avevano un console eloquente, da muto e senza lingua ch'era prima: nel corso del precedente consolato, non era mai riuscito ad aprire bocca, mentre adesso teneva discorsi che conquistavano il favore delle masse. Volumnio allora ribatté: «Come preferirei che tu avessi imparato da me ad agire con decisione, piuttosto che io da te a esprimermi in maniera raffinata!». Poi propose di stabilire in questo modo chi dei due fosse non tanto il miglior oratore (non di questo aveva bisogno lo Stato), quanto il miglior generale: poiché le zone di operazione erano l'Etruria e il Sannio, Appio scegliesse pure quella che preferiva. Lui, Volumnio, con il suo esercito avrebbe condotto la campagna indifferentemente sia in Etruria che nel Sannio.

Allora i soldati cominciarono a gridare che la guerra contro gli Etruschi doveva essere condotta collegialmente da entrambi. E Volumnio, vedendo che tutti erano di questo avviso, disse: «Poiché ho sbagliato nell'interpretare le intenzioni del collega, non lascerò che restino dubbi circa le vostre: fatemi capire col vostro grido se preferite che io resti oppure che me ne vada». L'urlo che allora si levò fu così potente, che i nemici uscirono dalle tende e presero le armi andandosi a schierare in campo. Anche Volumnio fece dare il segnale di battaglia e ordinò di uscire dall'accampamento. Pare che Appio abbia avuto un attimo di esitazione, constatando che la vittoria sarebbe stata merito del collega, che egli intervenisse nel combattimento o no. Poi, temendo che le sue legioni seguissero Volumnio, diede anch'egli il segnale di battaglia ai suoi che lo stavano chiedendo con impazienza.

I due eserciti non avevano potuto schierarsi in maniera ordinata. Infatti da una parte il comandante dei Sanniti si era allontanato con alcune coorti per andare alla ricerca di rifornimenti e i soldati si gettavano nella mischia seguendo più l'stinto che gli ordini e la guida di un comandante; dall'altra, gli eserciti romani non erano stati portati in linea di combattimento nello stesso istante e non c'era stato nemmeno il tempo sufficiente perché le forze venissero schierate. Volumnio si scontrò col nemico prima dell'arrivo di Appio, e così nel fronte di combattimento non ci fu continuità. E poi, come se il destino avesse voluto invertire i nemici di sempre, gli Etruschi andarono a fronteggiare Volumnio, mentre i Sanniti, dopo un attimo di esitazione per l'assenza del loro comandante, si presentarono nella zona di Appio. Pare che nel pieno dello scontro Appio levò le mani al cielo tra le prime file (in modo che tutti lo vedessero), pronunciando questa preghiera: «O Bellona, se oggi ci garantisci la vittoria, prometto di dedicarti un tempio». Dopo aver rivolto questa preghiera, quasi lo sospingesse la dea, eguagliò il collega in atti di valore, e i suoi uomini furono pari al generale. I comandanti fecero il loro dovere, mentre i soldati si impegnarono al massimo perché la vittoria non avesse inizio dall'altra parte dell'esercito. Così travolsero e misero in fuga i nemici, che non potevano reggere l'urto di forze superiori a quelle con cui di solito combattevano in passato. Incalzandoli quando cominciavano a cedere e poi inseguendoli mentre fuggivano disordinatamente, li ricacciarono verso l'accampamento. Lì l'arrivo di Gellio e delle coorti sannite fece sì che la battaglia si riaccendesse per un po' di tempo. Ma anche queste nuove forze vennero in breve sopraffatte, e i vincitori si lanciarono all'assalto dell'accampamento. Mentre Volumnio in persona spingeva le sue truppe contro la porta, e Appio infiammava gli animi dei suoi soldati continuando ad acclamare Bellona vincitrice, fecero breccia attraverso il terrapieno e il fossato. L'accampamento fu preso e saccheggiato. Il bottino prelevato fu cospicuo e venne lasciato ai soldati. Furono uccisi 7.800 nemici, fatti prigionieri 2.120.

Mentre entrambi i consoli e tutte le forze romane erano impegnati sul fronte della guerra etrusca, i Sanniti, allestito un nuovo esercito, cominciarono a mettere a ferro e fuoco i territori soggetti al dominio romano: scesi in Campania e nell'agro Falerno attraverso il territorio dei Vescini, colsero un ingente bottino. Mentre Volumnio stava rientrando nel Sannio a marce forzate - per Fabio e Decio si stava già infatti avvicinando il termine della proroga dell'incarico -, le notizie relative all'esercito sannita e alle devastazioni nel territorio campano lo fecero deviare per andare a proteggere gli alleati. Non appena giunse nella zona di Cale, vide coi propri occhi i segni dei recenti disastri, e venne informato dai Caleni che il nemico stava trascinando un carico tale di bottino da riuscire a stento a mantenere l'ordine di marcia; per questo i comandanti sanniti affermavano senza remore che si doveva rientrare quanto prima nel Sannio per scaricarvi il bottino, e non rischiare lo scontro con un esercito tanto appesantito. Anche se queste informazioni erano verisimili, il console volle saperne di più e mandò in giro dei cavalieri col cómpito di intercettare i predatori sparsi per le campagne. Dopo averli interrogati, venne a sapere che il nemico era accampato nei pressi del fiume Volturno e che aveva intenzione di partire di lì a mezzanotte, con direzione il Sannio.

Verificate le informazioni, si mise in marcia andandosi a fermare a una distanza dai nemici tale che, per la prossimità, non potessero rendersi conto del suo arrivo e li si potesse sorprendere mentre uscivano dall'accampamento. Poco prima dell'alba si avvicinò all'accampamento e inviò degli uomini che parlavano la lingua osca a esplorare i movimenti del nemico. Ed essendosi mescolati agli avversari - cosa che non fu difficile nella confusione della notte -, essi vennero a sapere che gli sparuti reparti armati erano già usciti, e che adesso stavano uscendo quelli incaricati di vigilare sul bottino, ovvero una schiera statica, in cui ciascuno pensava soltanto alle proprie cose, senza che ci fossero una volontà comune e un comando ben definito. Sembrò quello il momento più indicato per l'attacco. Poiché era infatti già quasi chiaro, il console fece dare il segnale e si riversò sulla formazione nemica. Appesantiti dal bottino, i Sanniti, pochi dei quali erano armati, cercarono in parte di accelerare il passo spingendo avanti il carico del bottino, e in parte invece si fermarono, non sapendo se fosse più sicuro procedere o rientrare al campo. Mentre esitavano, furono sopraffatti. I Romani avevano già superato la trincea, gettando lo scompiglio e mietendo vittime nell'accampamento. A sconvolgere la colonna dei Sanniti era stata, oltre al repentino attacco nemico, anche l'improvvisa sollevazione dei prigionieri, che essendosi in parte già liberati toglievano i lacci ai compagni, mentre in parte afferravano le armi legate ai basti e, mescolandosi alla colonna, contribuivano a rendere la situazione più caotica della battaglia stessa. Poi però realizzarono un'impresa eccezionale: assalito il comandante Staio Minacio che si aggirava tra i suoi cercando di incitarli, dispersero i cavalieri del suo séguito, lo circondarono, e fattolo prigioniero in sella al suo cavallo lo trascinarono di fronte al console romano. La prima linea sannita tornò indietro richiamata da quel frastuono, e la battaglia che sembrava già decisa riprese, anche se i nemici non riuscirono a reggere a lungo. Vennero uccisi circa in 6.000, mentre 2.500 furono fatti prigionieri (tra di loro anche quattro tribuni militari), trenta insegne conquistate, e - motivo di gioia ancor più grande per i vincitori - furono liberati 7.400 prigionieri e riconquistato il grosso bottino strappato agli alleati. I legittimi proprietari vennero convocati con un editto a riconoscere le proprie cose e a riprenderle entro un termine preciso. Gli oggetti che nessuno si presentò a reclamare furono lasciati ai soldati, che vennero obbligati a vendere la preda, per evitare che si concentrassero su qualcosa di diverso delle armi.

La spedizione nell'agro campano aveva suscitato grande trepidazione a Roma. Inoltre, proprio in quei giorni, dall'Etruria era arrivata la notizia che dopo la partenza dell'esercito di Volumnio gli Etruschi erano corsi alle armi, e che Gellio Egnazio, comandante dei Sanniti, cercava non solo di spingere gli Umbri alla ribellione ma anche di allettare i Galli con la promessa di una grossa ricompensa. Preoccupato da queste notizie il senato ordinò la sospensione delle pubbliche attività e bandì la leva generale degli uomini di ogni classe sociale. Ad essere arruolati non furono solo gli uomini liberi e i più giovani, ma vennero formate anche coorti di veterani, e i liberti furono inquadrati in centurie. Inoltre fu predisposto anche un piano di difesa per Roma, e a capo della città venne posto il pretore Publio Sempronio. Ma a liberare il senato di parte delle sue preoccupazioni giunse una lettera con la quale il console Lucio Volumnio riferiva che i predoni della Campania erano stati fatti a pezzi e dispersi. Pertanto i senatori, a nome del console, decretarono pubblici ringraziamenti agli dèi per l'esito favorevole dell'impresa, e revocarono la sospensione dei pubblici affari, durata diciotto giorni. E venne celebrato il rito della supplica.

Si iniziò poi a discutere circa il modo di proteggere la regione devastata dai Sanniti, e venne deciso di fondare due colonie nei territori di Vescia e di Falerno, una presso la foce del Liri (alla quale andò il nome di Minturno), l'altra sulle alture di Vescia, vicino al territorio di Falerno, dove si dice si trovasse la città greca di Sinope, chiamata poi dai coloni romani Sinuessa. I tribuni ricevettero l'incarico di presentare all'approvazione del popolo un decreto in base al quale il pretore Publio Sempronio avrebbe nominato tre magistrati col cómpito di presiedere alla fondazione di quelle colonie. Tuttavia non era facile trovare la gente da iscrivere: dominava l'impressione di essere spediti non in una colonia agricola, ma come a un avamposto permanente in una zona minacciata dai nemici.

A distogliere il senato da questi problemi furono la guerra in Etruria, che stava diventando sempre più preoccupante, e i frequenti messaggi di Appio che consigliava con insistenza di non trascurare i moti di quella regione: quattro popoli - Etruschi, Sanniti, Umbri e Galli - stavano unendo le proprie forze, e avevano già posto due accampamenti distinti, perché un unico campo non era in grado di contenere tutta quella massa di armati. Per questo motivo, e anche per presiedere le elezioni (la data era già alle porte), venne richiamato a Roma il console Lucio Volumnio. Questi, prima di chiamare le centurie al voto, dopo aver convocato l'assemblea generale, pronunciò un lungo discorso sulla gravità della guerra in Etruria. Disse che fino a quel momento, fino a quando cioè aveva gestito insieme al collega la campagna in Etruria, la guerra era stata così dura, che per sostenerla non erano stati sufficienti un unico comandante e un unico esercito. In séguito, stando a quanto si diceva, si erano aggiunti gli Umbri e i Galli con un grosso esercito. Tenessero bene a mente, quindi, che quel giorno venivano scelti i consoli destinati a fronteggiare quei quattro popoli. Personalmente, se non fosse stato convinto che il voto del popolo stava per designare al consolato l'uomo che in quel momento era giudicato senza alcun dubbio il miglior generale a disposizione, lo avrebbe nominato immediatamente dittatore.

Nessuno dubitava che Fabio sarebbe stato eletto all'unanimità per la quinta volta: e infatti le centurie prerogative e quelle chiamate al voto per prime lo avevano nominato console insieme a Lucio Volumnio. E Fabio pronunciò un discorso simile a quello di due anni prima. Poi, visto che nulla poteva contro il volere unanime del popolo, chiese infine che gli fosse assegnato come collega Publio Decio: sarebbe stato un sostegno per la sua vecchiaia. Nella censura e in due consolati condotti insieme aveva avuto modo di sperimentare come nulla fosse più utile agli interessi dello Stato che l'armonia tra i colleghi. Il suo temperamento di vecchio avrebbe fatto fatica ad abituarsi a un nuovo compagno di comando. Con una persona già nota sarebbe stato invece più facile concordare le strategie di guerra. Il console si dichiarò d'accordo con le parole di Fabio, elogiando Publio Decio per i suoi effettivi meriti, insistendo sui vantaggi che derivano dall'armonia tra i consoli nella gestione delle campagne militari e sui danni che nascono dal loro disaccordo, e ancora ricordando come poco tempo prima si fosse giunti a un passo dal disastro proprio per la divergenza di vedute tra lui e il collega. Decio e Fabio avevano invece un solo cuore e una sola mente, e poi erano uomini nati per la vita militare, grandi nell'azione e poco portati agli scontri a base di lingua e parole. Queste sì erano personalità tagliate per la carica di console: i furbi e gli scaltri, gli esperti di diritto e di eloquenza, come Appio Claudio, bisognava tenerli per il governo della città e per la vita pubblica, per l'elezione dei pretori deputati all'amministrazione della giustizia. L'intera giornata trascorse in questi discorsi. Il giorno successivo le elezioni di consoli e pretori si tennero secondo le disposizioni del console: pur essendo tutti assenti, vennero eletti consoli Quinto Fabio e Publio Decio, pretore Appio Claudio. In base a un decreto del senato e a una deliberazione della plebe, a Lucio Volumnio venne prorogato il comando delle truppe per un anno.

Nel corso dell'anno si verificarono molti prodigi. Per evitarne le possibili conseguenze, il senato decretò due giorni di suppliche: vennero offerti a spese dell'erario vino e incenso, mentre uomini e donne andarono in massa a supplicare gli dèi. Quella supplica rimase nelle cronache per una lite scoppiata tra le matrone all'interno del santuario della Pudicizia patrizia, situato nel foro Boario in prossimità del tempio rotondo di Ercole. Le matrone avevano escluso dalla partecipazione ai riti sacri Virginia, figlia di Aulo, una patrizia moglie di un plebeo, il console Lucio Volumnio, perché, celebrato il matrimonio, non faceva più parte del patriziato. Ne nacque un breve screzio che, per colpa dell'irascibilità tipica delle donne, si trasformò in una violenta lite: Virginia a buon diritto si vantava di essere entrata da patrizia e casta nel santuario della Pudicizia patrizia, in quanto sposata a un solo uomo in casa del quale era stata condotta ancor vergine, e di non aver alcun motivo di vergognarsi del marito, né della sua carriera e né dei suoi successi in campo militare. A queste parole piene di orgoglio fece seguire un gesto bizzarro: nel suo palazzo di via Lunga - dove abitava -, fece ricavare uno spazio sufficiente alla costruzione di un tempietto, vi collocò un altare e, convocate le matrone plebee, lamentandosi dell'affronto subito dalle matrone patrizie, disse: «Consacro quest'altare alla Pudicizia plebea e vi esorto affinché alla competizione di valori che in questa città tiene impegnati gli uomini corrisponda, tra le donne, un confronto in materia di pudicizia, e vi invito a impegnarvi a fondo perché questo altare venga onorato in maniera più conforme alla religione e da donne più caste, se è mai possibile, di quello patrizio». L'altare venne in séguito venerato più o meno con lo stesso rituale di quello più antico, e non aveva diritto di compiervi sacrifici nessuna matrona che non fosse di specchiata castità e avesse contratto più di un matrimonio. Col tempo il culto fu allargato anche alle donne che avevano perduto la castità, e non soltanto alle matrone, ma anche alle donne di ogni classe, fino a quando non cadde in disuso.

Lo stesso anno gli edili curuli Gneo e Quinto Ogulnio citarono in giudizio alcuni usurai, condannati poi alla confisca di parte del patrimonio. Col denaro che le casse dello Stato ricavarono vennero costruite le porte di bronzo del tempio di Giove Capitolino, le suppellettili d'argento di tre mense nella cella di Giove, il rilievo di Giove con le quadrighe sul frontone del tempio, nonché la statua dei gemelli fondatori di Roma sotto le mammelle della lupa, collocata nei pressi del fico Ruminale. Venne inoltre lastricato con massi quadrati il marciapiede tra la porta Capena e il tempio di Marte. Anche gli edili plebei Lucio Elio Peto e Gaio Fulvio Curvo, utilizzando fondi costituiti con ammende comminate a persone che avevano appaltato terreni sotto vincolo, fecero allestire dei giochi e porre piatti d'oro nel tempio di Cerere.

Entrarono poi in carica Quinto Fabio (console per la quinta volta) e Publio Decio (per la quarta), che erano già stati colleghi in tre consolati e nella censura, celebri per l'armonia di rapporti più ancora che per la gloria militare, per altro ragguardevole. Ma a impedire che il clima di armonia durasse in perpetuo fu una divergenza di vedute, dovuta - a mio parere - più che a loro stessi alle rispettive classi sociali di provenienza: mentre i patrizi premevano perché a Fabio venisse assegnato il comando in Etruria con un provvedimento straordinario, i plebei spingevano Decio a esigere il sorteggio. Se ne discusse in senato e, quando fu chiaro che in quel contesto Fabio avrebbe avuto la meglio, si finì col ricorrere al giudizio del popolo.

Di fronte all'assemblea, così come si addiceva a uomini d'armi abituati più ai fatti che alle parole, i consoli pronunciarono due brevi discorsi. Fabio sosteneva non fosse giusto che altri raccogliesse i frutti dall'albero che lui aveva piantato: era stato lui a inaugurare la selva Ciminia e ad aprire la strada agli eserciti romani attraverso quegli scoscesi dirupi. Perché andarlo tanto a sollecitare, se poi intendevano gestire la guerra con un altro comandante? Si rimproverava di aver scelto un avversario, non un compagno nell'esercizio del comando, e rinfacciava a Decio di aver tradito lo spirito di concordia col quale essi avevano insieme condotto tre consolati. Concluse dicendo di non volere altro se non di essere inviato su quel fronte di guerra, qualora però lo ritenessero degno del comando. Quanto a se stesso, si sarebbe rimesso alla volontà del popolo, così come si era rimesso a quella del senato. Publio Decio si lamentava dell'affronto subito da parte del senato, sostenendo che i patrizi si erano sforzati, finché era in loro potere, di impedire ai plebei l'accesso alle magistrature più importanti. Ma poi, da quando i valori morali erano riusciti da soli a superare i pregiudizi sociali, gli ottimati cercavano il modo di eludere non solo il voto del popolo, ma anche le decisioni della sorte, vincolandola alla volontà arbitraria di pochi individui. Tutti i consoli che li avevano preceduti si erano divisi le zone di operazioni ricorrendo al sorteggio: adesso il senato affidava a Fabio il comando della campagna senza alcun sorteggio. Se ciò era dovuto a un atto di onore nei suoi confronti, i meriti di quell'uomo nei riguardi dello Stato e di lui stesso erano così grandi, da essere pronto a favorirne la gloria, purché non risplendesse a spese del suo disonore. Infatti, quando ci si trovava di fronte a una guerra dura e difficile e la si affidava a uno dei due consoli senza il sorteggio, a chi poteva non venire in mente che l'altro console era considerato inutile e di troppo? Fabio vantava imprese compiute in Etruria: anche Publio Decio voleva avere la possibilità di gloriarsene. E forse avrebbe spento lui il fuoco che quell'altro aveva lasciato acceso sotto la cenere, e che tante volte sarebbe potuto divampare, all'improvviso, in un nuovo incendio. Per concludere, avrebbe lasciato al collega premi e riconoscimenti per il rispetto dovuto all'età e alla dignità della persona: quando però si fosse trattato di andare incontro al pericolo o di gettarsi nella mischia, non si sarebbe tirato indietro di sua volontà, né lo avrebbe fatto in séguito. E se non avesse ottenuto nient'altro da quel confronto, avrebbe almeno ricavato questo: e cioè che fosse il popolo a ordinare ciò che spettava al popolo di decidere, piuttosto che a concederlo, come un loro favore, fossero i patrizi. Pregava Giove Ottimo Massimo e gli dèi immortali di concedergli col sorteggio opportunità pari a quelle del collega, ma che insieme gli concedessero lo stesso valor militare e la stessa buona stella nella conduzione delle operazioni. Era certo naturale ed esemplare e in sintonia con la fama del popolo romano che i consoli avessero una personalità tale da permetter loro di condurre con esiti positivi la campagna in Etruria, a chiunque dei due toccasse il comando in capo. Fabio, rivolta al popolo un'unica preghiera prima che le tribù venissero chiamate al voto - e cioè di ascoltare i rapporti inviati dall'Etruria dal pretore Appio Claudio -, lasciò l'assemblea. Il comando delle operazioni venne affidato a Fabio senza sorteggio, con un consenso del popolo non inferiore a quello del senato.

Tutti i giovani si presentarono di corsa al console, arruolandosi ciascuno di sua spontanea volontà, tanto grande era il desiderio di prestare servizio militare agli ordini di quel generale. Circondato da questa massa di giovani, Fabio disse: «Ho intenzione di arruolare soltanto 4.000 fanti e 600 cavalieri. Porterò con me quanti daranno i loro nomi tra oggi e domani. A me preme più riportarvi in patria ricchi dal primo all'ultimo, piuttosto che fare la guerra con molti soldati». Partito con un esercito adatto alle esigenze del momento e formato da uomini che erano tanto più fiduciosi e sicuri per il fatto che non era stata richiesta una grande quantità di uomini, si diresse in fretta al campo del pretore Appio, nei pressi della città di Aarna, che non distava molto dalle posizioni nemiche. A poche miglia da quel punto si imbatté in alcuni soldati usciti per far legna con una scorta armata. Quando questi si videro venire incontro i littori e vennero a sapere che il console era Fabio, ne furono felicissimi e ringraziarono gli dèi e il popolo romano per aver mandato loro quel comandante. Mentre poi si accalcavano intorno al console per salutarlo, Fabio chiese loro dove fossero diretti e, sentendo che andavano a raccogliere legna, disse loro: «E allora? Il vostro campo non è forse circondato da una palizzata?». Quelli risposero all'unisono che il campo era sì circondato da una doppia palizzata e da una doppia trincea, ma che ciò non ostante vivevano nel terrore. Fabio disse: «Dunque legna ne avete a iosa: tornatevene indietro e abbattete la palizzata». Quelli rientrarono all'accampamento e si misero ad abbattere la palizzata, suscitando sgomento tra gli uomini rimasti nel campo e Appio stesso, fino a quando, passandosi parola l'uno con l'altro, fecero sapere di agire su ordine del console Quinto Fabio. Il giorno dopo il campo venne spostato e il pretore Appio fu rispedito a Roma. Da quel momento i Romani non posero un campo stabile da nessuna parte: l'idea di Fabio era che a nessun esercito giovasse lo star fermo, e che anzi le marce e i cambiamenti di zona facessero acquistare in mobilità e in salute. Le marce, tuttavia, duravano quanto lo permetteva l'inverno non ancora concluso.

All'inizio della primavera Fabio lasciò la seconda legione a Chiusi - un tempo chiamata Camars - e, affidato l'accampamento a Lucio Scipione coi gradi di propretore, rientrò a Roma per tenervi un consiglio di guerra. Questo sia che vi si fosse recato di sua spontanea volontà dopo aver constatato di persona che la guerra era più delicata di quanto non lasciassero intuire le notizie arrivate dal fronte, sia che fosse stato convocato da un decreto del senato: le fonti riferiscono entrambe le versioni dei fatti. Secondo alcune a farlo convocare sarebbe stato il pretore Appio Claudio, che di fronte al senato e al popolo esagerò la gravità del conflitto in Etruria, come per altro aveva sempre fatto nelle sue relazioni dal fronte: sosteneva che per tener testa a quattro popoli non sarebbero bastati un unico generale e un unico esercito. Sia che essi avessero fatto pressione con le forze congiunte, sia che avessero gestito la guerra separatamente, c'era il rischio che un unico comandante non riuscisse a far fronte contemporaneamente a tutti. Egli aveva lasciato laggiù due legioni romane, e agli ordini di Fabio erano arrivati meno di 5.000 tra fanti e cavalieri. La sua idea era che il console Publio Decio raggiungesse quanto prima il collega in Etruria, e che le operazioni nel Sannio venissero affidate a Lucio Volumnio. Se il console preferiva recarsi sul fronte assegnatogli, allora era meglio che Volumnio partisse per l'Etruria e raggiungesse il console con una regolare formazione consolare. A quanto pare, mentre il discorso del pretore aveva convinto la maggior parte degli uomini, Publio Decio propose invece di lasciare piena libertà operativa e strategica a Fabio, fino al giorno in cui si fosse presentato di persona a Roma (qualora fosse stato in grado di farlo senza danneggiare il paese), oppure avesse inviato uno dei suoi luogotenenti, tramite il quale il senato avrebbe potuto rendersi conto dell'effettiva gravità della guerra in Etruria e di quanti uomini e quanti comandanti fossero necessari per condurla.

Non appena Fabio arrivò a Roma, tanto in senato quanto di fronte al popolo in assemblea non si sbilanciò nei discorsi che tenne, in maniera da dare l'impressione di non ingrandire né diminuire le proporzioni del conflitto e, nel caso in cui avesse associato al comando un altro generale, di farlo più per assecondare le paure altrui che evitare a se stesso e al paese una situazione di pericolo. E poi, se davvero volevano assegnargli un aiuto per la guerra e un compagno da associare al comando, come avrebbe potuto dimenticare il console Publio Decio, che aveva sperimentato come collega in tante magistrature condotte insieme? Di tutti non c'era nessuno che preferisse avere a fianco: con Decio le truppe sarebbero state sufficienti e i nemici non sarebbero mai stati troppi. Se però il collega aveva altre preferenze, gli assegnassero allora come collaboratore Lucio Volumnio. Tanto il popolo quanto il senato e lo stesso collega lasciarono ogni decisione finale a Fabio: e poiché Decio si era detto pronto a partire sia per il Sannio sia per l'Etruria, la gioia e il compiacimento generale furono tali, che già la gente pregustava la gioia della vittoria, e si aveva l'impressione che ai consoli non fosse stata affidata la guerra ma decretato il trionfo.

In alcuni autori ho trovato che Fabio e Decio partirono alla volta dell'Etruria sùbito dopo essere entrati in carica, senza però alcun accenno al sorteggio delle zone di operazione e ai dissapori tra i colleghi di cui ho già parlato. Altri invece non soltanto riferiscono di questi scontri verbali, ma parlano anche di accuse mosse da Appio di fronte al popolo contro la persona di Fabio (che al momento era assente), e di una tenace ostilità da parte del pretore verso il console quando questi rientrò a Roma, e di altri contrasti tra i colleghi, dovuti al fatto che Decio pretendeva che ciascuno rispettasse gli esiti del sorteggio nell'assegnazione delle campagne. Le versioni cominciano a coincidere dal momento in cui entrambi i consoli si trovano al fronte.

Ma prima che i consoli arrivassero in Etruria, nei pressi di Chiusi comparve una massa di Galli Senoni, le cui intenzioni erano di attaccare l'esercito e l'accampamento romani. Scipione, che aveva il comando del campo, volendo sopperire all'inferiorità numerica con il favore della posizione, fece salire l'esercito su un'altura che si trovava tra la città e l'accampamento. Ma dato che nella fretta non aveva potuto fare controllare il percorso, raggiunse una cima che era già stata occupata dal nemico, salito dalla parte opposta. Così la legione, schiacciata da ogni parte dai nemici, fu presa alle spalle e sopraffatta. Alcuni autori sostengono che quel contingente fu completamente annientato, al punto che non rimase in vita un solo soldato in grado di riferire la notizia della disfatta, e che i consoli, essendo ormai nei pressi di Chiusi, non ricevettero alcuna informazione su quel disastro fino al momento in cui non videro coi propri occhi i cavalieri dei Galli che portavano le teste dei romani uccisi appese al petto dei cavalli e conficcate sulle lance, e si esibivano nei loro caratteristici canti di trionfo. Stando ad altri autori, i nemici sarebbero stati Umbri e non Galli, e la sconfitta avrebbe avuto altre proporzioni: a rimanere circondato sarebbe stato un reparto di soldati addetti al foraggiamento agli ordini del luogotenente Lucio Manlio Torquato, e il propretore Scipione sarebbe intervenuto con rinforzi dall'accampamento, e dopo aver riequilibrato le sorti della battaglia avrebbe piegato gli Umbri già vincitori, togliendo di nuovo dalle loro mani i prigionieri e il bottino. Tuttavia è più aderente alla verità dei fatti che a infliggere questa disfatta ai Romani siano stati i Galli e non gli Umbri, perché - come già successo molte altre volte in passato - anche quell'anno Roma venne invasa da un'ondata di panico dovuto alla minaccia gallica. Così, mentre entrambi i consoli erano già partiti alla volta del fronte con quattro legioni, un massiccio contingente di cavalleria romana, 1.000 cavalieri campani forniti per quel conflitto, e un esercito di alleati e di Latini numericamente superiore a quello romano, non lontano da Roma altri due eserciti vennero collocati di fronte all'Etruria, uno nel territorio dei Falisci, l'altro nell'agro Vaticano. I propretori Gneo Fulvio e Lucio Postumio ricevettero la disposizione di accamparsi stabilmente in quelle zone.

Valicato l'Appennino, i consoli raggiunsero i nemici nel territorio di Sentino, e si accamparono a circa quattro miglia da loro. Tra i nemici ci furono quindi riunioni, nelle quali venne deciso di non mescolarsi in un unico accampamento e di non dare battaglia tutti insieme. I Galli vennero aggregati ai Sanniti, gli Umbri agli Etruschi. Fu stabilita la data della battaglia, e lo scontro fu affidato ai Sanniti e ai Galli. Gli Etruschi e gli Umbri ebbero invece l'ordine di attaccare l'accampamento romano nel corso della battaglia. Questi piani li mandarono a monte tre disertori di Chiusi, i quali di notte si presentarono in segreto al cospetto del console Fabio e lo informarono dei progetti messi a punto dal nemico. Dopo averli ricompensati, Fabio li congedò, rimanendo d'accordo con loro che si sarebbero informati accuratamente su ogni nuova iniziativa e sarebbero poi venuti a riferirgli. I consoli inviarono una lettera rispettivamente a Fulvio e a Postumio: le disposizioni erano di abbandonare la zona di Faleri e l'agro Vaticano, e di portare i loro eserciti a Chiusi, mettendo a ferro e fuoco con la massima violenza il territorio nemico. La notizia di queste incursioni costrinse gli Etruschi a lasciare la zona di Sentino per andare a proteggere il proprio paese. Fu allora che i consoli cercarono in ogni modo di arrivare allo scontro, sfruttando la loro assenza. Per due giorni istigarono i nemici a venire alle armi, ma in quell'arco di tempo non si registrarono operazioni degne di nota. Da entrambe le parti ci furono poche perdite, e gli animi dei combattenti furono spinti ad affrontare una battaglia campale, senza però che si arrivasse mai allo scontro decisivo. Il terzo giorno i due eserciti scesero in campo dispiegando tutte le forze in loro possesso.

Mentre erano schierati in ordine di battaglia, dalle alture scese di corsa una cerva inseguita da un lupo, andando ad attraversare nella sua fuga il pianoro che si apriva tra i due opposti schieramenti. Di lì i due animali rivolsero la loro corsa in direzioni opposte, la cerva verso i Galli, il lupo verso i Romani. Il lupo ebbe via libera tra le file, mentre la cerva venne trafitta dai Galli. Allora un soldato romano dell'avanguardia disse: «La fuga e il massacro sono avvenuti là dove ora vedete a terra l'animale sacro a Diana. Da questa parte il lupo vincitore caro a Marte, sano e salvo, ci ha richiamato alla memoria la nostra discendenza da Marte e il nostro fondatore».

I Galli andarono ad occupare l'ala destra, i Sanniti la sinistra. Di fronte ai Sanniti, all'ala destra romana, Quinto Fabio schierò la prima e la terza legione, mentre contro i Galli alla sinistra Decio schierò la quinta e la sesta. La seconda e la quarta, agli ordini del proconsole Lucio Volumnio, erano utilizzate nella spedizione contro il Sannio. Al primo scontro l'equilibrio tra le forze opposte fu tale, che se solo fossero intervenuti gli Etruschi e gli Umbri rivolgendo le proprie truppe in una qualunque delle direzioni - o verso l'accampamento o sul campo di battaglia -, per i Romani la disfatta sarebbe stata inevitabile.

D'altra parte, pur essendo incerto l'esito dello scontro, e non ostante la fortuna non avesse ancora fatto capire verso quale delle due parti avrebbe inclinato la sua bilancia, tuttavia all'ala destra e all'ala sinistra il combattimento non aveva affatto la stessa intensità. Dalla parte di Fabio i Romani difendevano più che attaccare, e lo scontro si stava trascinando fino alle ultime luci del giorno, perché il console era fermamente convinto che i Sanniti e i Galli erano irruenti al primo urto, ma che poi era sufficiente resistervi: se la battaglia si protraeva, a poco a poco l'ardore dei Sanniti veniva meno, e il fisico dei Galli, incapaci più di ogni altro popolo di sopportare fatica e calura, perdeva vigore col passare delle ore, e mentre all'inizio dello scontro erano qualcosa più che degli uomini, alla fine risultavano essere meno che donne. Per questo egli cercava di conservare intatte quanto più a lungo possibile le energie dei suoi, fino a quando il nemico cominciava a dare segni di cedimento. Decio, più irruente per l'età che per temperamento, impiegò sùbito nel primo scontro tutte le forze che aveva. E poiché l'azione della fanteria gli sembrava eccessivamente statica, buttò nella mischia la cavalleria, e mescolatosi lui stesso a quella schiera di giovani valorosi incitò il fiore della gioventù a lanciarsi con lui all'assalto del nemico: la loro gloria sarebbe stata doppia, se i primi segni della vittoria fossero arrivati dall'ala sinistra e dalla cavalleria. Per due volte costrinsero la cavalleria gallica a indietreggiare; la seconda si spinsero più avanti, mentre stavano già combattendo in mezzo alle schiere di fanti, e rimasero sconcertati da un tipo di battaglia mai vista prima: arrivarono nemici armati in piedi su cocchi e carri, con un grande frastuono di ruote e cavalli che terrorizzò i cavalli dei Romani non abituati a quel rumore. Così la cavalleria romana, che aveva già la vittoria in pugno, venne dispersa dal panico, con cavalli e uomini che rovinavano a terra in una fuga precipitosa. Pertanto anche le linee della fanteria risentirono dello sbandamento, e molti uomini delle prime linee vennero travolti dall'impeto dei cavalli e dei carri lanciati in mezzo alle file. Non appena la fanteria dei Galli comprese che i nemici erano in preda al panico, si fece sotto senza lasciar loro il tempo di riprendere fiato e di rimettersi in sesto. Decio chiedeva urlando dove stessero fuggendo e che cosa sperassero nella fuga: si parava di fronte ai fuggitivi e richiamava quelli già dispersi. Poi, rendendosi conto di non essere in grado di mantenere uniti i suoi uomini ormai allo sbando, invocando per nome il padre Publio Decio, disse: «Perché ritardo il destino della mia famiglia? È questa la sorte data alla nostra stirpe, di esser vittime espiatorie nei pericoli dello Stato. Ora offrirò con me le legioni nemiche in sacrificio alla Terra e agli dèi Mani!». Pronunciate queste parole, ordinò al pontefice Marco Livio, al quale aveva ingiunto di non allontarsi da lui mentre scendevano in campo, di recitargli la formula con cui offrire in sacrificio se stesso e le legioni nemiche per l'esercito del popolo romano dei Quiriti. Si consacrò in voto recitando la stessa preghiera, indossando lo stesso abbigliamento con cui presso il fiume Veseri si era consacrato il padre Publio Decio durante la guerra contro i Latini, e avendo aggiunto alla formula di rito la propria intenzione di gettare di fronte a sé la paura, la fuga, il massacro, il sangue, il risentimento degli dèi celesti e di quelli infernali, e quella di funestare con imprecazioni di morte le insegne, le armi e le difese dei nemici, e aggiungendo ancora che lo stesso luogo avrebbe unito la sua rovina e quella di Galli e Sanniti - lanciate dunque tutte queste maledizioni sulla propria persona e sui nemici, spronò il cavallo là dove vedeva che le schiere dei Galli erano più compatte, e trovò la morte offrendo il proprio corpo alle frecce nemiche.

Da quel momento in poi sembrò che la battaglia non dipendesse troppo da forze umane. I Romani, perso il proprio comandante - ciò che di solito in altri casi crea scompiglio -, riuscirono a bloccare la fuga e cercarono di riequilibrare le sorti della battaglia. I Galli, in particolar modo quella parte di essi che stava intorno al cadavere del console, tiravano frecce a caso e fuori bersaglio, come avessero perso l'uso della ragione. Alcuni erano come paralizzati e non riuscivano a concentrarsi né sul combattimento né sulla fuga. Dalla parte opposta il pontefice Livio, cui Decio aveva affidato i littori dandogli disposizione di sostituirlo nel comando, urlava che i Romani avevano vinto, perché con la morte del console si erano liberati del debito nei confronti degli dèi: i Galli e i Sanniti appartenevano ormai alla madre Terra e agli dèi Mani, Decio trascinava con sé richiamandolo l'esercito che aveva votato in sacrificio con la propria persona, e i nemici erano in preda al panico e alle furie. Poi, mentre già quelli stavano riequilibrando la battaglia, dalle retrovie arrivarono con rinforzi Lucio Cornelio Scipione e Gaio Marcio, inviati dal console Quinto Fabio in aiuto al collega. Lì essi appresero la fine di Publio Decio, che era un grande incitamento a osare qualunque tipo di azione in nome dello Stato. Poi, visto che i Galli serravano i ranghi tenendo gli scudi attaccati al corpo per proteggersi, e il corpo a corpo non sembrava facilmente praticabile, i luogotenenti ordinarono di raccogliere le aste che si trovavano al suolo in mezzo ai due schieramenti, e di scagliarle contro la formazione a testuggine dei nemici. La maggior parte delle aste andarono a conficcarsi negli scudi e solo poche punte trafissero la carne, ma la formazione nemica perdette compattezza, perché molti, pur non avendo ricevuto un graffio, stramazzarono a terra storditi.

All'ala sinistra romana furono queste le alterne vicende che si verificarono. Alla destra Fabio - come già detto in precedenza - temporeggiando era riuscito a protrarre lo scontro. Quando ebbe l'impressione che sia le urla e l'animosità dei nemici sia i loro colpi non avessero più la stessa intensità, ordinò ai prefetti della cavalleria di guidare le ali ai fianchi dei nemici, per assalirli di lato con il maggior impeto possibile al segnale convenuto. Ai fanti ordinò invece di avanzare per gradi, stanando il nemico dalle posizioni in cui era attestato. Quando si rese conto che gli avversari non opponevano resistenza e che davano evidenti segni di spossatezza, raccolti tutti i riservisti (tenuti in serbo per quel preciso momento), lanciò la fanteria all'assalto e diede ai cavalieri il segnale della carica contro il nemico. I Sanniti non ressero l'urto: superato nella foga della ritirata lo schieramento dei Galli, abbandonarono gli alleati nella mischia, correndo a perdifiato verso l'accampamento. I Galli, da parte loro, riformarono la testuggine, e non si disunirono. Fu allora che Fabio, saputo della morte del collega, ordinò ai 500 cavalieri che formavano l'ala campana di abbandonare la linea del combattimento e di aggirare lo schieramento dei Galli per prenderli alle spalle. Ai principes della terza legione ordinò di seguirli, e, là dove si fossero imbattuti in reparti nemici scompigliati dall'assalto della cavalleria, di incalzarli massacrandoli mentre erano in preda al panico. Egli poi, promesso in voto un tempio e le spoglie nemiche a Giove Vincitore, si diresse verso l'accampamento sannita, dove stava convergendo tutta la massa sbandata. Proprio sotto la trincea, poiché le porte non erano ampie abbastanza per far passare una tale quantità di armati, gli uomini rimasti chiusi fuori cercarono ancora una volta di ricorrere alla battaglia: lì cadde Gello Egnazio, il comandante in capo delle forze sannite. I Sanniti vennero poi ricacciati al di là della trincea, e dopo un brevissimo scontro l'accampamento venne conquistato e i Galli raggiunti alle spalle. In quella giornata vennero uccisi 25.000 nemici, mentre i prigionieri catturati ammontarono a 8.000. Ma la vittoria non fu certo priva di perdite, visto che tra gli uomini di Decio vi furono 7.000 caduti, tra quelli di Fabio più di 1.700. Questi fece cercare il corpo del collega, e bruciò in onore di Giove Vincitore una catasta fatta con le spoglie dei nemici. Per quel giorno non si riuscì a trovare il corpo del console, perché giaceva sepolto sotto i cumuli di Galli ammassati l'uno sull'altro. Fu rinvenuto il giorno successivo e riportato indietro accompagnato dalle lacrime copiose dei soldati. Fabio, lasciando da parte ogni altra incombenza, rese gli onori funebri al collega, che onorò in ogni modo e cui rivolse un meritato elogio.

In quegli stessi giorni, anche in Etruria il propretore Gneo Fabio condusse la campagna attenendosi ai piani convenuti, e oltre a danneggiare il nemico devastandone le campagne, combatté pure con successo, uccidendo più di 3.000 Perugini e abitanti di Chiusi e catturando circa venti insegne militari. Mentre erano in fuga attraverso il territorio dei Peligni, le truppe sannite furono circondate dai Peligni stessi, e dei 5.000 originari ne vennero uccisi grosso modo 1.000.

Anche per chi non si discosta dalla realtà dei fatti, la gloria di quella giornata in cui ebbe luogo lo scontro di Sentino è grandissima. Ma alcuni autori, a forza di esagerazioni, hanno superato i limiti del credibile, arrivando a scrivere che tra le file nemiche vi erano 330.000 fanti, 46.000 cavalieri e 1.000 carri (ivi inclusi Umbri ed Etruschi, che a loro detta avrebbero preso parte anch'essi alla battaglia). Per poi aumentare pure le forze romane, ai consoli associano come comandante il proconsole Lucio Volumnio, unendo alle legioni consolari l'esercito di quest'ultimo. Nella maggior parte degli annali, però, la vittoria viene attribuita soltanto ai due consoli: nel frattempo Volumnio era occupato nella spedizione nel Sannio e, dopo aver costretto l'esercito sannita a riparare sul monte Tiferno, lo travolgeva costringendolo alla fuga, senza lasciarsi mettere in soggezione dalla natura impervia del terreno.

Quinto Fabio, lasciato a Decio il cómpito di presidiare l'Etruria col proprio esercito, riportò a Roma le sue legioni e ottenne il trionfo su Galli, Etruschi e Sanniti. I soldati lo seguivano nella sfilata, e nei rozzi canti militari la valorosa morte di Decio venne celebrata non meno della vittoria di Fabio, e tra le lodi rivolte al figlio venne richiamata la memoria del padre, il cui sacrificio e i cui successi in campo pubblico erano stati adesso eguagliati. Dal bottino raccolto in guerra ogni soldato ricevette ottantadue assi di rame, un mantello e una tunica, che in quel tempo erano riconoscimenti militari non certo disprezzabili.

Pur avendo conseguito questi successi, né in Etruria né nel Sannio c'era ancora la pace: infatti, dopo il ritiro dell'esercito voluto dal console, i Perugini avevano riaperto le ostilità e i Sanniti erano scesi a compiere saccheggi in parte nel territorio di Vescia e di Formia, e in parte nella zona di Isernia e nella valle del Volturno. A fronteggiarli venne inviato il pretore Appio Claudio con l'esercito di Decio. Fabio, ritornato in Etruria per il riaccendersi delle ostilità, uccise 4.500 Perugini e ne catturò circa 1.740, che vennero riscattati al prezzo di 310 assi a testa: il resto del bottino raccolto venne lasciato ai soldati. Le truppe sannite, delle quali una parte aveva alle calcagna il pretore Appio Claudio mentre l'altra Lucio Volumnio, raggiunsero l'agro Stellate; lì si accamparono nei pressi di Caiazia le forze sannite riunite, mentre Appio e Volumnio allestirono un unico accampamento. Si combatté con estremo accanimento, perché i Romani erano spinti dal risentimento per un popolo che si era già tante volte ribellato, mentre i Sanniti si battevano ormai per salvare le poche speranze residue. Vennero uccisi 16.300 Sanniti, e 2.700 fatti prigionieri. Tra i Romani i caduti furono 2.700.

Se quell'anno fu fortunato per i successi in campo militare, a funestarlo e a turbarne la serenità furono una pestilenza e una serie di prodigi. Arrivò infatti la notizia che in molti luoghi era piovuta terra e che numerosi soldati dell'esercito di Appio Claudio erano stati colpiti da fulmini: per queste ragioni vennero consultati i libri sibillini. Quell'anno Quinto Fabio Gurgite, figlio del console, condannò al pagamento di un'ammenda alcune matrone riconosciute colpevoli, al cospetto del popolo, del reato di adulterio, e col denaro ricavato fece edificare il santuario di Venere che sorge accanto al Circo Massimo.

Erano ancora in corso le guerre contro i popoli del Sannio, delle quali stiamo parlando già da quattro libri e per la durata di quarantasei anni, a partire dal consolato di Marco Valerio e Aulo Cornelio, che furono i primi a guidare le legioni nel Sannio. E per non passare in rassegna le disfatte subite da una parte e dall'altra e i disagi sopportati - che però non riuscirono a fiaccare quei temperamenti tenaci -, basterà ricordare che nel corso dell'ultimo anno i Sanniti erano stati sconfitti a Sentino, nel territorio dei Peligni, sul Tiferno e nell'agro Stellate, o da soli o insieme con altri popoli, ad opera di quattro eserciti e quattro comandanti romani; che avevano perso il loro comandante più capace, che vedevano Etruschi, Umbri e Galli, i loro alleati, ridotti nelle stesse condizioni in cui essi stessi versavano; che ormai non erano in grado di sostenersi né con le proprie forze né con quelle degli altri. Eppure non volevano rinunciare allo scontro. Tanto lontani erano dal rinunciare a difendere la propria libertà, anche se con scarso successo, e preferivano uscire battuti piuttosto che abbandonare un tentativo di successo. Chi mai potrebbe stancarsi, scrivendone o leggendone, della lunghezza di quelle guerre, che non riuscirono a stancare gli uomini che le combatterono?

A Quinto Fabio e Publio Decio seguirono come consoli Lucio Postumio Megello e Marco Atilio Regolo. Vennero entrambi inviati nel Sannio, perché correva voce che i nemici avessero arruolato tre eserciti, e cioè uno per ritornare in Etruria, uno per riprendere a devastare le terre della Campania e uno per difendere il proprio territorio. Postumio venne trattenuto a Roma da una malattia. Atilio, ligio alle decisioni prese dal senato, partì invece immediatamente per piegare la resistenza dei nemici prima che uscissero dal Sannio. Quasi ci fosse stato un accordo preliminare, i Romani incontrarono i nemici in un punto in cui era loro sbarrato l'accesso in territorio sannita, ma nel quale impedivano ai Sanniti di scendere verso le zone assoggettate e nei territori degli alleati del popolo romano. Accampatisi gli uni a ridosso degli altri, i Sanniti ebbero il coraggio di mettere in pratica - questo è il grado di temerarietà cui spinge la disperazione! - ciò che avrebbero a malapena osato i Romani già tante volte vincitori, cioè un attacco all'accampamento nemico. E un'iniziativa tanto audace, pur non avendo raggiunto gli scopi prefissati, tuttavia non fu del tutto priva di efficacia. Fino a giorno inoltrato ci fu una nebbia così spessa da rendere quasi nulla la visibilità, impedendo di vedere non soltanto ciò che avveniva al di là della trincea, ma anche quelli che poco più in là vi si avvicinavano procedendo gli uni accanto agli altri. I Sanniti, sfruttando questa nebbia come una copertura alla loro imboscata, alle prime e incerte luci dell'alba (per di più offuscata dalla caligine), arrivarono nei pressi della garitta dove la sentinella vigilava con scarsa attenzione la porta. Sorpresi dall'attacco improvviso, i Romani non ebbero né la prontezza di riflessi né la forza sufficienti per opporre resistenza. Alle loro spalle ci fu un'irruzione attraverso la porta decumana, che portò così alla cattura della tenda del questore e all'uccisione del questore stesso, Lucio Opimio Pansa. Fu allora che venne dato l'allarme.

Svegliato dalle grida, il console ordinò a due coorti di alleati - una composta di Lucani e l'altra di Suessani - che casualmente erano le più vicine, di difendere il pretorio, e si mise a capo dei manipoli delle legioni sulla via principale. Dopo aver cinto in qualche modo le armi, gli uomini si inquadrarono nei reparti, riconoscendo i nemici più con l'udito che con la vista, senza che fosse possibile valutarne la consistenza numerica. Sulle prime indietreggiarono, non riuscendo a rendersi conto di quanto stava succedendo, e lasciarono che il nemico penetrasse fino al centro dell'accampamento. Ma poi, siccome il console gridando chiedeva se aspettassero di farsi cacciare dalla trincea per poi espugnare quello che era il loro accampamento, dopo aver levato il grido di battaglia, profondendo il massimo delle sforzo riuscirono sulle prime a resistere, poi ad avanzare e premere il nemico. Una volta respintolo, senza lasciargli il tempo di riprendersi dalla sorpresa, lo risospinsero fuori della porta e della trincea. Poi, mancando loro il coraggio di gettarsi all'inseguimento, dato che la mancanza di visibilità faceva temere il rischio di un agguato nei pressi, soddisfatti di aver liberato l'accampamento, si ritirarono all'interno della trincea. Avevano ucciso circa 300 nemici. Le perdite romane ammontarono a circa 730 unità, fra gli uomini del primo posto di guardia e quelli sorpresi intorno alla tenda del questore.

Questo episodio non certo privo di efficacia ridiede coraggio ai Sanniti, che non solo impedirono ai Romani di avanzare, ma anche di andare a rifornirsi di viveri nel loro territorio: gli uomini addetti al vettovagliamento erano costretti a tornare indietro nella zona assoggettata di Sora. La notizia dell'episodio, descritto a Roma in termini più allarmanti di quanto in realtà non fosse, spinse il console Lucio Postumio appena uscito dalla malattia a partire dalla città. Comunque, prima di mettersi in marcia, dopo aver dato ordine ai soldati di concentrarsi a Sora, inaugurò il tempio della Vittoria, che aveva fatto edificare in qualità di edile curule usando il denaro ricavato dalle ammende. Ricongiuntosi poi con l'esercito a Sora, di lì raggiunse il campo del collega nel Sannio. I Sanniti allora si ritirarono, non avendo più speranze di poter fronteggiare con successo i due eserciti, e i consoli si misero in marcia in direzioni diverse con l'intento di mettere a ferro e fuoco le campagne e di attaccare i centri abitati.

Postumio cercò in un primo tempo di impossessarsi con la forza di Milionia. Poi, vedendo che questa tattica non dava grossi risultati, ricorse a dispositivi d'assedio e alla fine riuscì a conquistarla appoggiando vigne alle mura. Lì, non ostante la città fosse già occupata, si continuò a combattere in tutti i settori dalle dieci fino quasi alle due del pomeriggio, e l'esito fu a lungo incerto; ma alla fine i Romani si impadronirono della cittadella. I Sanniti uccisi furono 3.200, quelli fatti prigionieri 4.700; venne raccolto altro bottino.

L'esercito fu poi condotto a Feritro, i cui abitanti erano usciti di nascosto nel cuore della notte attraverso la porta opposta, portando con sé quanto poteva essere trasportato. Di conseguenza il console, non appena arrivò nei pressi della città, cominciò ad avvicinarsi con l'esercito schierato e pronto a sostenere una battaglia simile a quella affrontata a Milionia. In un secondo tempo, notando che in città regnava un profondo silenzio e vedendo che sulle torri e sulle mura non c'erano né armi né uomini, per non cadere incautamente in un tranello, trattenne i soldati che non vedevano l'ora di scalare le mura deserte, e ordinò a due squadroni di cavalieri latini di esplorare accuratamente tutta la cinta muraria. I cavalieri videro spalancate una porta e lì accanto un'altra nella stessa zona, e sulle vie che le attraversavano riconobbero le tracce della fuga notturna dei nemici. Cavalcarono poi con prudenza attraverso le porte, e si resero conto che le vie cittadine si potevano percorrere in assoluta tranquillità. Riferirono al console che la città era stata abbandonata, come era evidente dall'assenza di abitanti, dalle tracce recenti della fuga e dai cumuli di oggetti abbandonati alla rinfusa nel trambusto della notte. Ascoltato questo rapporto, il console guidò l'esercito verso la zona dove erano entrati i cavalieri latini. Fatte fermare le truppe non lontano dalla porta, ordinò a cinque cavalieri di entrare in città, predisponendo che dopo una limitata perlustrazione all'interno tre rimanessero in quello stesso punto (se tutto sembrava tranquillo), e due tornassero a riferire l'esito della missione. Quando i cinque rientrarono riferendo di essere arrivati fino a un punto da dove si poteva spingere lo sguardo in tutte le direzioni e di aver di lì ovunque constatato solitudine e silenzio, il console ordinò sùbito ai reparti armati alla leggera di entrare in città, dando nel frattempo agli altri disposizione di fortificare l'accampamento. Entrati in città e abbattute le porte delle abitazioni, i soldati trovarono soltanto pochi vecchi e invalidi, insieme con le sole cose che, essendo troppo difficili da trasportare, erano state abbandonate. Se ne impossessarono, e dai prigionieri vennero a sapere che in molte città dei dintorni era stato deciso per volontà comune l'evacuazione dei residenti; che i loro concittadini erano partiti nel cuore della notte, e che probabilmente avrebbero trovato lo stesso deserto anche in molti altri centri. Si prestò fede alle parole dei prigionieri, e il console occupò le città deserte.

Per l'altro console, Marco Atilio, la campagna non fu certo altrettanto facile. Mentre era alla guida delle legioni sulla strada per Luceria - che aveva saputo attaccata dai Sanniti -, gli si parò innanzi il nemico ai confini del territorio di Luceria. Fu la rabbia a rendere pari le forze in campo: la battaglia si svolse nell'incertezza e a fasi alterne, ma il verdetto finale fu più pesante per i Romani, sia perché non erano abituati alla sconfitta, sia perché all'atto di allontanarsi dal campo, più ancora che nel pieno dello scontro, si accorsero quanto fossero numericamente superiori le loro perdite e i loro feriti. Perciò tra i soldati al rientro al campo ci fu una tale ondata di sconforto, che se solo li avesse colti nel corso della battaglia li avrebbe portati a una pesante sconfitta. La notte fu ugualmente carica di tensioni, perché i Romani erano convinti che i Sanniti attaccassero di lì a poco l'accampamento, o che altrimenti alle prime luci del giorno si dovesse ricominciare a combattere col nemico reduce dalla vittoria. Gli avversari avevano subito perdite minori, anche se non potevano contare su un morale più alto. Non appena fu giorno, volevano andarsene senza combattere, ma c'era una sola strada e passava proprio vicino al nemico. Così, essendosi messi in marcia attraverso quella via, diedero ai Romani l'impressione di essere diretti ad attaccare l'accampamento. Il console diede disposizione agli uomini di armarsi e di seguirlo al di là della trincea, e ordinò ai luogotenenti, ai tribuni e ai prefetti alleati ciò che ciascuno di essi avrebbe dovuto fare. Tutti si dissero pronti a eseguire ogni ordine, ma rilevarono che i soldati erano demoralizzati, dopo aver passato una notte insonne tra le ferite e i lamenti dei moribondi. Se i nemici si fossero avvicinati all'accampamento romano prima del sorgere del sole, la paura sarebbe stata così grande da far abbandonare agli uomini i posti di combattimento. Al momento a trattenerli dalla fuga era solo la vergogna, ma per il resto erano come degli sconfitti.

Quando il console udì queste parole, decise di andare in giro di persona a parlare ai soldati, e appena arrivava presso i vari reparti rimproverava sùbito quelli che indugiavano a vestire le armi, e domandava quale fosse il motivo di tutti quei tentennamenti e quelle esitazioni. Diceva che i nemici sarebbero entrati nell'accampamento, se essi non ne fossero usciti, e che si sarebbero trovati a combattere di fronte alle proprie tende, se non volevano andare a combattere al di là della trincea: la vittoria - ricordava - è sì incerta per chi prende le armi e va a combattere, ma quelli che attendono il nemico disarmati e senza difendersi sono destinati alla schiavitù o alla morte. Di fronte a queste aspre rampogne, gli uomini replicavano di essere stremati per la battaglia del giorno prima, di non avere più a disposizione né forze né sangue, e di aver l'impressione che il numero dei nemici fosse ancora superiore rispetto alla giornata precedente. Nel frattempo l'esercito nemico si stava avvicinando, e quando lo si poté distinguere per il diminuire della distanza, gli uomini cominciarono a dire che i Sanniti avevano con sé i paletti per la trincea, e che avrebbero certamente circondato l'accampamento con una palizzata. Allora il console gridò che era indegno accettare una simile vergognosa umiliazione da un nemico vile più di ogni altro, e aggiunse: «Dunque ci lasceremo assediare anche all'interno dell'accampamento, e moriremo di fame con ignominia, piuttosto che valorosamente - se sarà necessario - a colpi di spada?». Ciascuno si regolasse nel modo che gli sembrava più degno di sé (e che gli dèi lo aiutassero): il console Marco Atilio, se nessun altro lo voleva seguire, avrebbe marciato contro il nemico anche da solo cadendo in mezzo alle insegne dei Sanniti, piuttosto che vedere l'accampamento romano circondato da una palizzata. I luogotenenti, i tribuni, tutti gli squadroni di cavalleria e i centurioni dei reparti scelti salutarono con un applauso le parole del console.

Allora i soldati, toccati nell'onore, si armarono contro voglia, uscirono contro voglia dal campo schierati in una fila lunga e rarefatta, e con l'aria di chi era già battuto marciarono contro il nemico che non aveva certo né il morale più alto né maggiori speranze di vittoria. E così, non appena i Sanniti videro le insegne romane, dalle prime file alle ultime cominciò sùbito a correre voce che i Romani - come essi temevano - stavano uscendo dall'accampamento per impedire loro il passaggio. Quindi non c'era più alcuno sbocco aperto nemmeno per la fuga, ed era inevitabile cadere lì o uscire vivi passando sui corpi dei nemici stesi a terra.

Accatastati i bagagli nel mezzo, si armarono e si disposero in ordine di battaglia nei rispettivi reparti. Lo spazio tra i due eserciti era ormai molto ridotto, ed entrambi erano fermi nell'attesa che i nemici levassero il grido di battaglia e si lanciassero all'assalto. Ma da una parte e dall'altra non c'era alcuna inclinazione allo scontro, e si sarebbero allontanati in direzioni opposte intatti e illesi, se solo non avessero temuto che il nemico si avventasse su quanti si stavano ritirando. Fra quei soldati poco ispirati e incerti la battaglia iniziò meccanicamente e in sordina, con un grido né unanime né convinto, e con nessuno che si muovesse dal proprio posto.

Allora il console romano, per suscitare le energie, spedì fuori dalle file alcuni squadroni di cavalleria. Ma poiché buona parte di essi vennero sbalzati da cavallo e altri gettati nello scompiglio, dallo schieramento sannita ci fu chi accorse per finire i cavalieri caduti, e dalla parte romana intervennero in aiuto dei compagni. La battaglia prese allora vigore. Ma i Sanniti erano accorsi più numerosi e con maggiore determinazione, e i cavalieri romani trascinati dai cavalli imbizzarriti calpestavano quegli stessi compagni arrivati in loro soccorso. Da quel momento cominciò la fuga, che coinvolse l'intero schieramento romano. E i Sanniti stavano già attaccando alle spalle i fuggitivi, quando il console andò a cavallo di fronte alla porta dell'accampamento, vi lasciò una guarnigione di cavalieri cui diede il cómpito di trattare da nemici chiunque - romano o sannita - si fosse avvicinato alla trincea, e quindi andò anch'egli a sbarrare la strada ai suoi uomini che stavano cercando di raggiungere disordinatamente l'accampamento, rivolgendo loro parole minacciose: «Dove andate, soldati? Anche lì vi troverete di fronte armi e uomini, e finché il vostro console sarà vivo, non entrerete nell'accampamento se non da vincitori: scegliete se preferite scontrarvi con dei concittadini o con dei nemici».

Mentre il console pronunciava queste parole, i cavalieri circondarono i fanti brandendo le lance, e ingiunsero loro di tornare a combattere. A venire in aiuto non fu solo il valore del console, ma anche il destino, perché i nemici non affondarono l'inseguimento, e ci fu così il tempo per voltare le insegne e per rivolgere il fronte dall'accampamento al nemico. I Romani si misero allora a incitarsi l'uno con l'altro e a rigettarsi nella mischia: i centurioni strappavano le insegne agli alfieri e le portavano avanti, gridando ai compagni che i nemici erano pochi e venivano allo sbaraglio con i reparti allo sbando. Nel frattempo il console, levando le mani al cielo e alzando la voce in modo che tutti lo potessero sentire, promise in voto un tempio a Giove Statore, se l'esercito romano avesse smesso di fuggire e si fosse lanciato nella mischia travolgendo le legioni sannite. In ogni parte dello schieramento tutti fecero quanto era nelle loro possibilità per riequilibrare le sorti della battaglia - comandanti, soldati semplici, fanti e cavalieri. Si ebbe l'impressione che a fianco dei Romani intervenisse anche una volontà divina, tanto facilmente venne capovolta la situazione: i nemici furono allontanati dall'accampamento e immediatamente risospinti verso il punto in cui la battaglia era iniziata. Lì furono costretti a fermarsi perché la strada era sbarrata dai bagagli accatastati nel mezzo: allora, per impedire che i Romani vi mettessero mano, formarono un cerchio di uomini armati intorno ai bagagli stessi. Ma davanti erano pressati dalla fanteria, e alle spalle avevano i cavalieri. Così, presi nel mezzo, furono uccisi o fatti prigionieri. I prigionieri ammontarono a 7.800, che vennero spogliati dal primo all'ultimo e fatti passare sotto il giogo. I caduti toccarono il numero di 4.800. Ma anche per i Romani quella vittoria non fu una festa: quando infatti il console fece contare i soldati che mancavano all'appello dopo quei due giorni di scontri, gli venne riferito che le perdite raggiungevano le 7.800 unità.

Mentre in Apulia si verificavano questi eventi, l'altro esercito dei Sanniti tentò di conquistare Interamna, una colonia romana situata sulla via Latina, ma non riuscì nell'impresa. Allora il nemico mise a ferro e fuoco le campagne. Mentre però i Sanniti stavano trascinando via gli uomini - tra i quali c'erano dei coloni fatti prigionieri - e le bestie rastrellate, si imbatterono nel console che tornava vincitore da Luceria, e non si limitarono a perdere il bottino, ma finirono per essere massacrati perché procedevano in una formazione lunga e sfilacciata. Il console fece proclamare un bando col quale venivano convocati a Interamna i legittimi proprietari per riconoscere e riprendersi le rispettive cose, e lasciando lì l'esercito si spostò a Roma per presiedere le elezioni. Richiese il trionfo ma non gli fu accordato, perché aveva perduto tutte quelle migliaia di uomini, e perché aveva fatto passare i prigionieri sotto il giogo, senza però porre delle condizioni.

Postumio, l'altro console, visto che nel Sannio non aveva più materia di guerra, guidò il suo esercito in Etruria, e in un primo tempo mise a ferro e fuoco il territorio dei Volsinii. Poi, a breve distanza dalle mura, si scontrò coi nemici usciti in campo aperto per difendere le proprie terre. Vennero uccisi 2.800 Etruschi; gli altri scamparono grazie alle città che si trovavano nei dintorni. L'esercito venne poi portato nel territorio di Ruselle, e lì non ci si limitò a saccheggiare le campagne, ma venne anche espugnata la città. Più di 2.000 uomini vennero fatti prigionieri, mentre di poco inferiori per numero furono quelli uccisi lungo le mura. Ciò non ostante la pace ottenuta in Etruria fu maggiore motivo di gloria e più determinante rispetto alla guerra portata quell'anno: tre città potentissime, tra le più in vista dell'Etruria - ossia Volsinii, Perugia e Arezzo -, chiesero la pace, e dopo essersi accordate col console nel garantire vestiti e viveri all'esercito purché fosse loro concesso di inviare ambasciatori a Roma, ottenero una tregua quarantennale. A ciascuna venne comminata un'ammenda di 500.000 assi, da pagare in contanti.

Poiché il console, più per abitudine che per speranza di ottenerlo, aveva chiesto al senato il trionfo per questi successi, vedendo che alcuni erano propensi a non concederglielo perché aveva impiegato troppo tempo a uscire dalla città, mentre altri si opponevano perché si era trasferito dal Sannio in Etruria senza la relativa autorizzazione del senato - e si trattava o di suoi nemici o di amici del collega decisi a consolarlo con un identico rifiuto -, disse: «Io non sarò, o senatori, tanto rispettoso della vostra autorità, da scordarmi della mia carica di console. In virtù della stessa autorità con la quale ho condotto le guerre, portandole a termine con esito positivo, dopo aver sottomesso il Sannio e l'Etruria, e aver ottenuto la vittoria e la pace, celebrerò il trionfo». E dopo aver pronunciato queste parole, abbandonò il senato. Ne nacque una controversia tra i tribuni della plebe: alcuni sostenevano che avrebbero posto il veto, per evitare che quel suo trionfo venisse a costituire un pericoloso precedente, mentre altri dichiararono che avrebbero fatto ricorso al diritto di intercessione in favore del trionfatore contro i loro colleghi. La questione venne sottoposta al giudizio del popolo e fu chiamato il console: questi, dopo aver ricordato che i consoli Marco Orazio e Lucio Valerio, e poco tempo prima Gaio Marcio Rutulo, padre del censore in carica, avevano trionfato per volere del popolo e non per decreto del senato, dichiarò che anche lui avrebbe presentato la cosa al giudizio del popolo, se solo non avesse saputo che certi tribuni della plebe al servizio degli ottimati si sarebbero opposti alla proposta. Per lui, in quel preciso momento e per i giorni a venire, la volontà e il favore del consenso popolare avrebbero contato più di qualunque decreto. Il giorno successivo, con il sostegno di tre tribuni della plebe contro il veto di sette e la volontà del senato, il console celebrò il proprio trionfo con un grande concorso di popolo.

Anche sulle vicende di quell'anno la tradizione storica non è concorde. Claudio sostiene che Postumio, conquistate alcune città del Sannio, venne poi sconfitto e sbaragliato in Apulia, e costretto a rifugiarsi ferito e con pochi uomini a Luceria. A condurre la campagna in Etruria sarebbe stato Atilio che avrebbe riportato il trionfo. Fabio scrive invece che entrambi i consoli combatterono nel Sannio e presso Luceria, e che l'esercito venne poi portato in Etruria, senza però specificare da quale dei due consoli; che presso Luceria le perdite furono gravi da entrambe le parti, e che il tempio a Giove Statore venne promesso in voto durante quella battaglia. Il tempio l'aveva promesso già Romolo in passato, ma fino a quel momento era stato consacrato solo lo spazio sui cui doveva sorgere il sacrario: quell'anno finalmente il senato, già vincolato per la seconda volta dallo stesso voto e preso come fu da uno scrupolo di natura religiosa, decretò che il tempio venisse effettivamente edificato.

L'anno che seguì ebbe un console, Lucio Papirio Cursore, famoso sia per la gloria conquistata dal padre sia per quella personale, nonché una grossa guerra e una vittoria sui Sanniti quale nessuno fino a quei giorni - salvo Lucio Papirio, padre appunto del console - aveva mai riportato. E il caso volle che i nemici preparassero la guerra con lo stesso sforzo e lo stesso spiegamento di mezzi, arricchendo le truppe di armi più sfarzose e ricche che mai. E avevano cercato anche il sostegno degli dèi, iniziando, per così dire, i soldati con un antico rito sacramentale: in tutto il Sannio venne bandita la leva militare con una legge inusitata, in virtù della quale qualunque giovane in età non si fosse presentato alla chiamata dei comandanti o avesse lasciato il paese senza autorizzazione sarebbe stato maledetto e consacrato a Giove. La convocazione per tutti gli effettivi venne fissata ad Aquilonia, dove convennero circa 40.000 soldati, che rappresentavano il meglio di tutte le forze sannite.

Lì, al centro dell'accampamento, venne tracciato un recinto delimitato da picchetti e assicelle e ricoperto con una tela di lino, che misurava circa duecento piedi tanto in lunghezza quanto in larghezza. All'interno del recinto celebrò i sacrifici attenendosi alle indicazioni di un antico libro rilegato in lino il sacerdote Ovio Paccio, un uomo molto avanti con gli anni, che sosteneva di aver desunto quel rito da un'antica usanza sannita, praticata un tempo dagli antenati quando avevano concepito il progetto di strappare Capua agli Etruschi. Concluso il sacrificio, il comandante in capo ordinò a un banditore di convocare gli uomini più in vista per ascendenti e valore, facendoli venire uno per volta. L'intero apparato della cerimonia era allestito in modo da suscitare negli animi timore religioso: contribuivano a questo effetto soprattutto gli altari al centro del recinto integralmente coperto, le vittime sgozzate intorno agli altari e i centurioni in cerchio con le spade in pugno. I convocati venivano fatti avvicinare agli altari, più come vittima che come effettivo partecipante al sacrificio, e dovevano giurare di non rivelare quanto avevano visto o sentito in quel punto. Mediante una formula intimidatoria venivano costretti a giurare che sarebbero state maledette le loro persone, la famiglia e la stirpe, qualora non fossero scesi in campo là dove i comandanti li guidavano, o avessero abbandonato il campo di battaglia, o ancora vedendo qualcuno darsi alla fuga non lo avessero ucciso su due piedi. All'inizio alcuni che non accettavano di prestare questo giuramento vennero passati per le armi davanti agli altari, e i loro cadaveri distesi tra le vittime servirono poi da monito agli altri affinché non si tirassero indietro. Quando poi i nobili sanniti si furono vincolati con questo giuramento, il comandante fece i nomi di dieci di loro e ordinò che ciascuno di essi scegliesse un altro uomo, e questi un altro ancora fino a raggiungere la cifra di 16.000. Quella legione, dalla copertura del recinto all'interno del quale la nobiltà aveva consacrato se stessa, venne chiamata linteata. A quanti ne facevano parte vennero consegnate armi sfavillanti ed elmi crestati, in modo da distinguerli in mezzo a tutti gli altri. Il resto dell'esercito ammontava a poco più di 20.000 uomini che, quanto a forza fisica, valore militare e armamento, non erano inferiori alla legione linteata. Tutti questi effettivi, il meglio delle forze del Sannio, si accamparono nei pressi di Aquilonia.

I consoli partirono da Roma: il primo fu Spurio Carvilio, cui erano state assegnate le vecchie legioni, lasciate l'anno prima dal console Marco Atilio nella zona di Interamna. Marciando alla volta del Sannio alla testa di queste legioni, mentre i nemici tenevano riunioni segrete impegnati nelle loro pratiche di iniziazione, conquistò con la forza la città di Amiterno togliendola ai Sanniti. In quel luogo caddero 2.800 uomini, i prigionieri furono 4.270. Arruolato un nuovo esercito come era stato stabilito, Papirio espugnò la città di Duronia. Catturò meno uomini del collega, uccidendone però un numero più alto. In entrambe le zone venne conquistato un ricco bottino. I due consoli poi, dopo aver effettuato scorrerie ad ampio raggio nel Sannio, e devastato in particolar modo la zona di Atina, arrivarono Carvilio a Cominio, e Papirio ad Aquilonia, dove si era concentrato il grosso delle truppe sannite. Lì, per alcuni giorni, le due parti, pur senza astenersi del tutto da azioni militari, non arrivarono mai però a uno scontro vero e proprio: provocavano il nemico se era inattivo, tornavano sui propri passi se opponeva resistenza, e ingannavano il tempo rendendosi minacciosi più che attaccando battaglia. Qualunque fosse l'operazione intrapresa o sospesa, ogni decisione in merito, anche la più insignificante, veniva rinviata da un giorno all'altro. L'altro esercito romano, che si trovava a venti miglia di distanza, e il collega lontano partecipavano col pensiero alla gestione di tutte le operazioni, e Carvilio era più concentrato su Aquilonia di quanto non lo fosse Cominio che la stava assediando.

Lucio Papirio, preparata ormai ogni cosa per il combattimento, inviò un messaggero al collega per dirgli che era sua intenzione, se gli auspici fossero stati favorevoli, di attaccare battaglia il giorno successivo: era necessario che anche Carvilio attaccasse Cominio con la maggior forza d'urto possibile, perché i Sanniti non avessero più modo di inviare dei rinforzi ad Aquilonia. Il messaggero ebbe un giorno di tempo per compiere il tragitto: ritornò nella notte riferendo che il collega approvava il piano. Inviato il messaggero, Papirio aveva sùbito convocato un'assemblea, durante la quale tenne un lungo discorso sull'arte di gestire le guerre in generale, e in particolare sulle attrezzature che al presente i nemici potevano vantare, e che risultavano più belle a vedersi di quanto non fossero efficaci all'atto pratico: infatti non erano certo i cimieri a procurare le ferite e il giavellotto romano era in grado di trapassare anche gli scudi colorati e carichi d'oro, e quell'esercito sfavillante per il candore delle tuniche si sarebbe sporcato di sangue, quando fossero entrate in azione le spade. In passato suo padre aveva fatto a pezzi un altro esercito sannita tutto oro e argento, e quelle spoglie aveva garantito maggiore rinomanza al nemico vittorioso che ai Sanniti stessi. Forse era destino che la sua gens e il suo nome si opponessero agli sforzi maggiori dei Sanniti, e riportassero quelle spoglie che rappresentavano uno straordinario ornamento anche per i luoghi pubblici. Gli dèi immortali erano dalla parte dei Romani, dopo che i patti tante volte richiesti erano stati altrettante volte violati. E se era mai possibile penetrare nei disegni della mente divina, gli dèi non erano mai stati tanto avversi a nessun esercito quanto a quello che, dopo essersi macchiato con un rito sacrilego in cui il sangue umano era stato mescolato a quello delle bestie, avviato a una duplice ira divina, temendo da una parte l'ira degli dèi testimoni dei patti conclusi coi Romani, e dall'altra le maledizioni legate al giuramento pronunciato, aveva giurato contro la propria volontà, odiava il giuramento, ed era intimorito contemporaneamente dagli dèi, dai concittadini e dai nemici.

Esposte queste cose - di cui era venuto a conoscenza tramite le rivelazioni dei disertori - di fronte a uomini già infiammati dal risentimento, questi ultimi, pieni di speranze sia negli dèi sia negli uomini, chiesero all'unisono battaglia, rammaricandosi che lo scontro fosse rinviato al giorno successivo e trovando intollerabile il ritardo di un giorno e di una notte. Passata la mezzanotte, quando gli venne riferita la risposta del collega, Papirio si alzò in silenzio e ordinò all'aruspice addetto ai polli di trarre gli auspici. Nel campo non c'era un solo uomo che non ardesse dal desiderio di combattere, e dai gradi più alti a quelli più subalterni tutti avevano dentro la stessa fiamma: il comandante guardava alla determinazione dei soldati, i soldati a quella del comandante. Questo diffuso spirito venne trasmesso anche a quanti stavano passando in rassegna gli auspici: infatti, anche se i polli non stavano affatto mangiando, l'aruspice giunse a falsare l'auspicio e annunciò al console un pasto quanto mai favorevole. Felicissimo il console riferì ai suoi che gli auspici erano eccellenti e che avrebbero combattuto col favore degli dèi; diede così il segnale di battaglia. Mentre stava già per uscire dall'accampamento, un disertore riferì che venti coorti sannite di circa 400 uomini l'una erano partite alla volta di Cominio. Il console inviò sùbito un messaggio al collega per informarlo della cosa; ordinò poi di accelerare le operazioni. Distribuì i riservisti nelle posizioni più adatte e assegnò loro i rispettivi ufficiali. A capo dell'ala destra piazzò Lucio Volumnio, alla sinistra Lucio Scipione, affidando la cavalleria ad altri luogotenenti, Gaio Cedicio e Tito Trebonio. A Spurio Nauzio diede disposizione di far togliere i basti ai muli e di portarli in fretta, insieme ad alcune coorti di ausiliarii, su un'altura ben visibile; gli ordinò di farsi notare, a combattimento iniziato, alzando un polverone quanto più fitto possibile.

Mentre il comandante sbrigava queste disposizioni operative, tra gli aruspici sorse una controversia circa gli auspici tratti quel giorno, e la lite arrivò alle orecchie di alcuni cavalieri romani che, pensando non fosse una questione priva di rilievo, ne riferirono a Spurio Papirio, figlio del fratello del console, dicendogli che erano sorte contestazioni sugli auspici. Quel giovane, nato prima della dottrina che insegna a disprezzare gli dèi, si informò sui fatti, per evitare di riferire solo dicerie prive di fondamento, poi riportò la cosa al console. Questi gli rispose così: «Onore alla tua virtù e al tuo zelo. Però, se quanti traggono gli auspici dànno falsi annunci, essi attirano su di sé la maledizione divina. A me è stato annunciato un pasto consumato con grande voracità, ciò che rappresenta un ottimo auspicio per l'esercito e il popolo romano». Ordinò così ai centurioni di schierare gli aruspici nelle prime file. Anche i Sanniti fecero avanzare le loro insegne, seguite dagli uomini con le loro armature splendenti, uno spettacolo straordinario anche per i nemici. Prima dell'urlo di guerra e dell'inizio delle ostilità, l'aruspice addetto ai polli, colpito da un giavellotto lanciato a caso, cadde nelle prime file. Quando la cosa venne riferita al console, questi commentò così: «Gli dèi sono presenti sul campo di battaglia: il colpevole è stato punito». Mentre il console pronunciava queste parole, un corvò gracchiò ad alta voce lì davanti a lui. Felice per questo segno beneagurante, il console ordinò di suonare il segnale di attacco e di alzare il grido di guerra, affermando che mai in passato gli dèi erano intervenuti con maggior tempestività nelle vicende umane.

La battaglia venne combattuta con estremo accanimento, anche se lo spirito con cui i contendenti la affrontarono era di gran lunga differente: a trascinare in battaglia i Romani, assetati di sangue nemico, erano la rabbia, la speranza e la determinazione; buona parte dei Sanniti, costretti dalla necessità e dalle fobie religiose più a resistere che ad attaccare, combatteva invece contro voglia. E certo non avrebbero retto al primo grido di guerra e al primo assalto dei Romani - abituati com'erano alla sconfitta da ormai molti anni -, se a trattenerli dalla fuga non fosse stata un'altra più forte paura, relegata nel loro intimo. Avevano infatti ancora davanti agli occhi tutto l'apparato di quel rito segreto - i sacerdoti armati, cadaveri di uomini e bestie ammassati alla rinfusa, gli altari lordi di sangue pio ed empio, la terribile professione di fede e l'invocazione delle furie, a maledire la stirpe e la famiglia. Erano questi gli ostacoli che impedivano la fuga ai Sanniti, intimoriti più dalla loro gente che dai nemici. La pressione dei Romani si esercitava sia sulle due ali sia sul centro, portandoli a seminare la strage tra i nemici attoniti per il timore degli dèi e degli uomini. Resistevano senza troppa convinzione, come uomini cui soltanto la codardia impedisca di darsi alla fuga.

Il massacro era già arrivato quasi alle insegne, quando da un lato si alzò un gran polverone, come di solito succede per il passaggio di un esercito in marcia. Era Spurio Nauzio (anche se alcuni autori sostengono si trattasse di Ottavio Mecio), a capo delle coorti ausiliarie. Il polverone che sollevavano era molto più consistente di quanto non comportasse il loro numero, perché gli uomini in groppa ai muli trascinavano rami frondosi. Davanti, attraverso l'aria resa torbida dal polverone, si scorgevano le insegne e le armi: poco più dietro il pulviscolo più spesso e denso faceva pensare che a chiudere la marcia fosse la cavalleria, e il trucco non ingannò soltanto i Sanniti ma anche i Romani. Il console diede consistenza all'errata interpretazione, gridando ad alta voce nelle prime file - in modo che le sue parole arrivassero anche ai Sanniti - che Cominio era stata presa, e che il collega reduce dalla vittoria si stava avvicinando: quindi si impegnassero a fondo per la vittoria prima che il merito toccasse interamente all'altro esercito. Gridò queste parole dritto sul cavallo, poi diede ordine ai tribuni e ai centurioni di aprire il passaggio per la cavalleria (in precedenza aveva già avvisato Trebonio e Cedicio che, non appena lo avessero visto vibrare l'asta in alto, lanciassero i cavalieri a caricare il nemico con la maggiore violenza possibile). Al segnale convenuto tutto si svolse come era stato concertato: tra le file della fanteria venne lasciato libero il passaggio, i cavalieri si lanciarono avanti e caricarono lancia in resta le schiere nemiche, sfondandone i ranghi dovunque irrompevano. Volumnio e Scipione incalzavano seminando la morte tra i nemici in ritirata.

Fu allora che, non potendo più nulla la minaccia degli dèi e degli uomini, le coorti linteate vennero travolte, senza distinzione tra quanti avevano prestato giuramento o meno, non temendo più nient'altro se non il nemico. I fanti scampati alla battaglia ripararono nell'accampamento o ad Aquilonia, mentre i nobili e i cavalieri fuggirono a Boviano. I cavalieri romani inseguirono la cavalleria, i fanti la fanteria. Le due ali si mossero in direzioni differenti: la destra verso l'accampamento sannita, la sinistra verso la città. Volumnio prese l'accampamento molto prima, mentre dalle parti della città Scipione incontrò maggiore resistenza, non certo perché gli sconfitti avessero più coraggio, quanto perché una cinta muraria è certo più indicata di una trincea a respingere un assalto armato. E gli assediati, scagliando pietre dalle mura, tenevano lontani i nemici. Scipione, convinto che se non si fosse giunti a una soluzione rapida - prima che gli animi si riprendesso dalla sorpresa -, l'assedio di quella città fortificata sarebbe andato troppo per le lunghe, chiese ai soldati se accettavano di buon grado di essere ricacciati dalle porte della città, pur avendo vinto la battaglia, mentre l'altra ala si era impossessata dell'accampamento. Tutti protestarono a gran voce; allora Scipione, sollevato lo scudo sopra la testa, si avviò per primo verso la porta. Gli altri si inquadrarono a testuggine e irruppero in città. Cacciarono i Sanniti occupando la cinta nei pressi della porta, senza però avere il coraggio di addentrarsi ulteriormente, visto il numero esiguo della loro formazione.

Il console in un primo tempo non era al corrente di questi avvenimenti ed era impegnato a chiamare a raccolta gli uomini, perché il sole stava ormai per tramontare e l'imminente oscurità rendeva tutto insidioso e pieno di pericoli, anche per il vincitore. Spintosi un po' più avanti, vide sulla sua destra che l'accampamemnto nemico era stato occupato, mentre dalla sinistra sentì arrivare dalla città un boato misto di urla di battaglia e grida di terrore. Proprio in quel momento infuriava la battaglia presso la porta. Avvicinatosi in sella al cavallo, non appena vide i suoi uomini sulle mura e si rese conto di non avere più la situazione sotto controllo, perché l'imprudenza di pochi gli offriva il destro per portare a termine una grande impresa, diede ordine di richiamare le truppe già raccolte, e ingiunse loro di avanzare verso la città. Entrati dalla parte più vicina, vi si fermarono perché stava calando la notte. Nel corso della notte i nemici si ritirarono.

In quella giornata furono uccisi, nella zona di Aquilonia, 20.340 Sanniti, 3.870 furono fatti prigionieri e vennero catturate novantasette insegne militari. Stando a quanto è stato tramandato, pare che non si fosse mai visto un comandante tanto allegro nel corso di una battaglia, sia per la sua naturale disposizione di carattere, sia per la fiducia che aveva nel successo dell'impresa.

In virtù di questa determinazione, non riuscì a trattenerlo dall'attaccare battaglia nemmeno l'auspicio controverso, e proprio nel pieno dello scontro, quando di solito si promettono in voto i templi agli dèi, egli promise a Giove Vincitore che in caso di vittoria sull'esercito nemico gli avrebbe offerto un bicchierino di vino al miele, dopo un'abbondante libagione personale di vino puro. La promessa andò a genio agli dèi, che rivolsero in bene gli auspici.

La stessa fortuna ebbe l'altro console nelle operazioni intorno a Cominio. Alle prime luci del giorno, avvicinate le truppe alle mura, circondò l'intero perimetro della città e fece rinforzare le guarnigioni intorno alle porte, per evitare ogni genere di sortita. Stava già per dare il segnale di battaglia, quando arrivò trafelato il messaggero inviatogli dal collega con l'annuncio che le venti coorti nemiche si stavano avvicinando. La notizia lo trattenne dal lanciarsi all'assalto, costringendolo a richiamare parte delle truppe già schierate e pronte ad attaccare la città. Al luogotenente Decimo Bruto Scevola diede ordine di scagliarsi contro i rinforzi nemici con la prima legione, dieci coorti e la cavalleria: doveva bloccarli e trattenerli dovunque vi si fosse imbattuto, arrivando a scendere in battaglia se le circostanze lo richiedevano, in maniera tale che quelle forze non raggiungessero Cominio. Personalmente fece quindi accostare le scale alle mura in ogni settore della città, avvicinandosi alle porte dopo aver inquadrato i suoi in formazione a testuggine: nello stesso istante vennero abbattute le porte e scalate le mura. I Sanniti, se prima di vedere sulle mura dei soldati con le armi in pugno mantennero il coraggio necessario per fronteggiare i Romani, ora che lo scontro non avveniva più a distanza né con armi da lancio, ma corpo a corpo, e i Romani, saliti a fatica sulle mura, una volta superato lo svantaggio naturale della posizione (era questo che temevano di più), combattevano in scioltezza e a parità di condizioni con un nemico inferiore, abbandonarono le torri e le mura, e si andarono ad ammassare tutti nel foro, dove per qualche tempo diedero vita a un estremo tentativo di risollevare le sorti della battaglia. Alla fine deposero però le armi, arrendendosi senza condizioni al console in numero di circa 11.400. I caduti erano stati invece circa 4.880.

Fu questo l'andamento delle operazioni a Cominio e ad Aquilonia. Nella zona tra le due città, dove si prevedeva ci sarebbe stata una terza battaglia, non ci si imbatté nei nemici: richiamati indietro dai compagni quando erano a sette miglia da Cominio, non parteciparono a nessuna delle due battaglie. Stava quasi per calare la notte, e mentre vedevano già sia l'accampamento sia Aquilonia, il frastuono che giungeva da entrambe le parti li fece fermare. Poi la vista delle fiamme, segnale inequivocabile della disfatta, che si levavano per largo tratto dall'accampamento incendiato dai Romani, li trattenne dall'avanzare ulteriormente. Dopo essersi stesi disordinatamente a terra là dove si trovavano, con le armi indosso, trascorsero nell'angoscia l'intera nottata, attendendo terrorizzati la luce del giorno. All'alba, quando non sapevano da che parte dirigersi, avvistati dai cavalieri, che sulle tracce dei Sanniti usciti nottettempo dalla città avevano individuato una massa di uomini sprovvista di protezioni difensive e di guarnigioni armate, si diedero immediatamente alla fuga. Quel gruppo di soldati era stato avvistato anche dalle mura di Aquilonia, nonché da reparti di fanteria messisi sulle loro tracce. I fanti non riuscirono però a raggiungere i fuggiaschi, mentre i cavalieri eliminarono circa 280 uomini della retroguardia. Nel panico i nemici abbandonarono molte delle armi e diciotto insegne militari. Il resto della schiera arrivò sano e salvo a Boviano, per quanto fu possibile in tutta quella confusione.

La gioia di ciascuno dei due eserciti romani aumentò per il successo ottenuto dall'altro. Dopo essersi consultati tra loro, i consoli permisero che le due città fossero saccheggiate dai soldati, facendovi appiccare il fuoco una volta svuotate da cima a fondo. Aquilonia e Cominio vennero distrutte dalle fiamme lo stesso giorno, e i consoli unirono i due accampamenti, tra l'entusiasmo e le reciproche felicitazioni delle legioni e dei comandanti stessi. Di fronte ai due eserciti Carvilio coprì di elogi i suoi uomini per i meriti dei singoli, mentre Papirio, sotto il cui comando si era combattuto in più punti diversi - sul campo di battaglia, nei pressi dell'accampamento nemico e in città -, diede in premio dei braccialetti e delle corone d'oro a Spurio Nauzio, il nipote di Spurio Papirio, a quattro centurioni e a un manipolo di hastati: a Nauzio per l'azione con cui aveva seminato il panico tra i nemici dando l'impressione che ci fosse un grosso esercito in marcia; al giovane Papirio per quanto aveva fatto con la cavalleria sia durante la battaglia sia nel corso della notte, disturbando la fuga dei Sanniti usciti da Aquilonia di nascosto; ai centurioni e ai soldati perché avevano occupato per primi la porta e le mura di Aquilonia. A tutti i cavalieri, per l'opera valorosa prestata in diversi punti del fronte, venne consegnato un distintivo onorifico da mettere sull'elmo e un braccialetto d'argento.

Ci fu poi una riunione per decidere se fosse già arrivato il momento di ritirare i due eserciti, o almeno uno di essi, dal Sannio. La cosa migliore sembrò però quella di insistere portando fino in fondo ciò che restava delle operazioni militari con tanto più ostinata determinazione quanto maggiore era l'indebolimento della potenza sannita, in modo tale che ai consoli dell'anno a venire si potesse consegnare il Sannio interamente domato. Poiché non c'era più un esercito nemico apparentemente in grado di poter affrontare una battaglia in campo aperto, l'unica forma di guerra che restava era l'espugnazione delle città, la cui distruzione poteva garantire ai soldati un arricchimento, e l'annientamento definitivo del nemico che lottava ormai soltanto per sopravvivere. Così, inviato al senato e al popolo romano un rapporto dettagliato sulle operazioni portate a termine, i consoli guidarono le legioni in diverse direzioni: Papirio si rivolse verso Sepino, mentre Carvilio puntò su Velia.

La lettura del rapporto trasmesso dai consoli fu motivo di grande entusiasmo in senato e nell'assemblea del popolo, e l'esultanza generale venne resa solenne da quattro giorni di festosi ringraziamenti, che videro una grande partecipazione di popolo. Per i cittadini romani questa vittoria non fu soltanto di grande prestigio, ma arrivò anche al momento più adatto, perché proprio in quel momento giunse la notizia che gli Etruschi avevano riaperto le ostilità. Occorreva pensare a come si potesse sostenere il peso di una guerra contro l'Etruria se le cose nel Sannio non fossero andate per il meglio, visto che l'Etruria, imbaldanzita dall'insurrezione generale nel Sannio, vedendo i due consoli e tutte le forze impegnate sul fronte sannita, aveva pensato che questa fosse un'occasione propizia per riprendere le armi. Gli alleati inviarono ambasciatori, che furono introdotti in senato dal pretore Marco Atilio; lamentavano che le loro campagne venissero devastate e incendiate dagli Etruschi, solo perché essi non avevano voluto staccarsi dai Romani, e per questo scongiuravano i senatori di proteggerli dalla tracotanza e dalle offese dei nemici comuni. Agli ambasciatori venne risposto che il senato avrebbe fatto il possibile perché gli alleati non dovessero pentirsi della propria fedeltà: presto agli Etruschi sarebbe toccata la stessa sorte dei Sanniti. Eppure la campagna contro gli Etruschi non sarebbe stata condotta con la stessa determinazione, se non fosse giunta la notizia che i Falisci, da lungo tempo amici dei Romani, avevano unito le proprie forze agli Etruschi. La vicinanza di questa popolazione aumentò la preoccupazione del senato, che decise di inviare i feziali a chiedere soddisfazione dell'accaduto. La richiesta fu respinta, e così su proposta del senato, approvata dal popolo, venne dichiarata guerra ai Falisci, e i consoli ricevettero disposizione di sorteggiare chi dei due avrebbe dovuto trasferirsi dal Sannio in Etruria.

Carvilio aveva già conquistato le città sannite di Velia, Palombino ed Ercolaneo: Velia nel giro di pochi giorni, Palombino lo stesso in cui si era presentato sotto le mura. A Ercolaneo dovette invece affrontare una battaglia in campo aperto dall'esito incerto, subendo più perdite di quelle inflitte ai nemici. Dopo essersi accampato, costrinse il nemico a trincerarsi all'interno delle mura, e la città venne conquistata con la forza. In questi tre centri vennero catturati o uccisi circa 10.000 uomini (il numero dei prigionieri superò di poco quello dei morti). Il sorteggio tra i due consoli destinò l'Etruria a Carvilio, com'era nei desideri dei soldati, che ormai non reggevano più il rigido freddo del Sannio. Nei pressi di Sepino i Sanniti opposero maggiore resistenza a Papirio: a più riprese, o in campo aperto, o durante la marcia, o ancora nei pressi della città, egli dovette rintuzzare le sortite dei nemici. Più che un assedio era una guerra vera e propria, perché i Sanniti non erano protetti dalle mura più di quanto le mura non lo fossero dalle armi e dai soldati. Ma alla fine, a forza di combattere, il console costrinse i nemici a subire un assedio in piena regola, concludendolo con l'espugnazione della città, conquistata con il ricorso a macchine da guerra. Presa la città, la tensione portò a un massacro ancora più sanguinoso: gli uccisi ammontarono a 7.400, mentre i prigionieri furono meno di 3.000. Il bottino raccolto, ricchissimo perché i Sanniti avevano concentrato le loro cose in poche città, fu lasciato ai soldati.

La neve aveva ormai coperto tutto il paese, e fuori dalle abitazioni non era possibile resistere al freddo. Per questo il console ritirò le truppe dal Sannio. Al suo rientro a Roma il consenso unanime del popolo gli fece tributare il trionfo. Lo celebrò mentre era ancora in carica, in maniera fastosa per le abitudini dei tempi. I cavalieri e i fanti procedevano e cavalcavano con indosso le decorazioni ottenute: si vedevano anche molte corone civiche, vallari e murali. Oggetto di grande ammirazione erano le spoglie sannite, paragonate per splendore e bellezza a quelle riportate dal padre, che avevano un aspetto familiare perché ornavano molti luoghi pubblici. Nel corteo dei prigionieri vi erano membri dell'aristocrazia sannita, famosi per le imprese compiute da loro o dai loro padri. Sfilarono 2.530.000 assi di rame da una libbra - si diceva fosse la somma ricavata dalla vendita dei prigionieri di guerra -, e 1830 libbre d'argento razziate nelle città. Tutto il rame e l'argento vennero versati nell'erario, senza che ai soldati venisse concesso alcunché del bottino. Questa decisione accrebbe il malcontento della plebe, perché in aggiunta venne imposto un tributo per pagare gli stipendi ai soldati, là dove, rinunciando al nobile gesto di versare nell'erario il denaro ricavato dal bottino di guerra, sarebbe stato possibile concedere ai soldati parte della preda e utilizzarne parte per pagare la diaria ai militari. Il console inaugurò il tempio di Quirino - anche se in nessun autore ho trovato che egli lo avesse promesso in voto durante la guerra, né per Ercole avrebbe mai potuto portarne a termine la costruzione in un tempo così esiguo - promesso in voto dal padre dittatore, ornandolo con le spoglie nemiche, che erano tanto ricche da permettere non solo di decorare il tempio e il Foro, ma di essere anche distribuite agli alleati e alle colonie circostanti perché le utilizzassero per abbellire templi e luoghi pubblici. Dopo il trionfo Papirio portò l'esercito a trascorrere l'inverno nella zona di Vescia, infestata dai Sanniti.

Nel frattempo in Etruria il console Carvilio si preparò a espugnare Troilo, e dopo aver concesso a 400 tra i cittadini più ricchi di uscirne dietro pagamento di una grossa somma di denaro, ebbe la meglio con la forza del resto della popolazione e della città stessa. Espugnò poi cinque villaggi fortificati che si trovavano in posizioni ben protette, e vi uccise 2.400 nemici, facendo meno di 2.000 prigionieri. Ai Falisci che si presentarono a chiedere la pace egli concesse un anno di tregua, a condizione che pagassero 100.000 assi pesanti e le diarie militari di quell'anno. Portate a termine queste operazioni, partì per celebrare il trionfo, che fu meno fastoso di quello del collega sul versante sannita, ma lo eguagliò con le vittorie conquistate in Etruria. Versò nell'erario 380.000 assi pesanti, e col resto del ricavato dalla vendita del bottino diede in appalto la costruzione del tempio della Forte Fortuna, situato accanto al santuario di quella stessa dea consacrato dal re Servio Tullio. Ai suoi uomini assegnò 102 assi a testa presi dal bottino, mentre per i centurioni e i cavalieri la somma fu doppia, e la donazione risultò ancora più gradita perché messa a confronto con la grettezza del collega. Il favore del console servì a garantire la protezione del popolo al suo luogotenente Lucio Postumio che, citato in giudizio dal tribuno Marco Scanzio, riuscì a sottrarsi al giudizio del popolo - come dicevano le voci - grazie alla sua carica di luogotenente; e così l'accusa nei suoi confronti venne soltanto presentata, senza però aver séguito.

Alla fine dell'anno erano entrati in carica i nuovi tribuni della plebe. Solo che per irregolarità intercorse nella nomina cinque giorni dopo vennero sostituiti con altri. Nel corso dell'anno i censori Publio Cornelio Arvina e Gaio Marcio Rutilio tennero il censimento: furono censiti 262.321 cittadini. I censori erano i ventiseiesimi entrati in carica da quando era iniziata la censura, e quello fu il diciannovesimo censimento. Lo stesso anno, per la prima volta, gli uomini che avevano ricevuto delle decorazioni militari nelle campagne poterono assistere ai giochi romani con la corona sul capo, e ugualmente per la prima volta venne concessa ai vincitori la palma del trionfo, secondo un'usanza introdotta dalla Grecia. Ancora in quell'anno gli stessi edili curuli che avevano organizzato i giochi, servendosi del denaro ricavato dalle ammende inflitte ad alcuni appaltatori di pascoli, fecero lastricare la strada del tempio di Marte fino a Boville.

Lucio Papirio presiedette le elezioni consolari, e proclamò eletti Quinto Fabio Gurgite figlio di Massimo e Decimo Giunio Bruto Sceva. Papirio stesso ottenne la nomina a pretore.

I molti eventi positivi di quell'anno bastarono appena per consolare gli animi di un'unica sciagura, un'epidemia che prostrò sia le città sia le campagne. E poiché la calamità era il segno di una volontà soprannaturale, vennero consultati i libri sibillini, per conoscere quale fossero la fine o l'eventuale rimedio concessi dagli dèi a quella sciagura. Dalla consultazione emerse che era necessario far venire Esculapio da Epidauro a Roma. Ma per quell'anno non si fece nulla, perché i consoli erano impegnati nella guerra, e ci si limitò a offrire a Esculapio una giornata di suppliche.

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