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Seneca - tragedie




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Seneca

TRAGEDIE


Delle tragedie di Seneca non si conosce la cronologia, né la destinazio­ne. Non si sa se furono scritte per la scena, o per pubbliche recitatio­nes, o solo per letture private. Ci sono giunte attraverso i rami di una tradizione manoscritta bipartita, risalente a un archetipo comune: la recensione A (centinaia di codici del XIII, XIV e XV secolo) e la recensione E, costituita dal codice Laurenziano 37, 13 (l'Etrusco, dell'Xl secolo) e dai suoi due discendenti. L'Etrusco contiene nove tragedie coturnate, in quest'ordine: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Me­dea, Phaedra. Oedipus, Agamernnon, Thyestes, Hercules Qetaeus. La recen­sione A e i discendenti di E contengono, sotto il nome di Seneca, anche una pretesta, l'Octavia.

L'Octavia, che ha tra i personaggi lo stesso Seneca, certamente di Seneca non è. Sospetti di inautenticità ha sollevato  (e solleva tuttora)

anche l'Hercules Oetaeus, tragedia di eccezionale quanto faticosa prolissità. Sicura è invece l'autenticità delle altre tragedie. Le Phoenis­sae (che la recensione A chiama Thebais) ci sono giunte prive di cori e in una redazione molto probabilmente incompiuta. «Agamennone». Agamennone torna a Micene dalla decennale impresa troiana portando con sé, prigioniera e concubina, Cassandra, figlia di Priamo. Ispirata da Apollo, Cassandra predice la morte del re e la propria. Nella reggia Clitemnestra e il suo complice Egisto uccidono Agamennone, mentre Cassan­dra, sulla scena, vede e descrive come fosse presente l'assassinio. Dei figli di Agamennone e Clitemnestra, Oreste fugge ponendosi in salvo, Elettra viene imprigionata. A sua volta condannata a morte, Cassandra predice il destino che attende i complici assassini. È il soggetto dell'Agamennone di Eschilo.

«La pazzia di Ercole». Mentre Ercole compie, scendendo agli Inferi, la sua dodicesima fatica, Lico usurpa il trono di Tebe e cerca di forzare Megara, la moglie dell'eroe, a sposarlo. Megara lo respinge, Ercole ritorna dagli Inferi in compagnia di Teseo e uccide il tiranno. Còlto, per volontà di Giunone, da improvvisa follia, Ercole si rivolta contro la moglie e i figli e li uccide. Torna­te in sé, vorrebbe darsi la morte, ma il padre Anfitrione e l'amico Teseo lo trattengono. È il soggetto dell'Eracle di Euripide.

«Medea». Medea, la maga che tradendo il padre e i suoi ha aiutato gli Argonauti a rubare il vello d'oro e a fuggire dalla Colchide, apprende che Giasone sta per sposare Creusa, la figlia del re di Corinto, Creonte: non le resta che l'esilio. Ottenuto dal re il permesso di restare ancora un giorno a Tebe, Medea dà fondo alle sue arti magiche, provoca la morte di Creonte e li Creu­sa, poi uccide con le sue stesse mani i figli avuti da Giasone e fugge su un carro volante trainato da draghi alati. È il soggetto della Medea di Euripide.

«Edipo». Riguarda i fatti tebani che precedono quelli trattati nelle Phoe nisae. La peste miete vittime a Tebe, il re Edipo apprende dall'oracolo di Apollo che essa è provocata dalla presenza di uno straniero macchiatosi di parricidio. L'ombra di Laio. evocata dall'indovino Tiresia, svela che Edipo è SUO figlio e lo accusa (li avergli usurpato il trono e il letto coniugale. Edipo alla fine capisce che la predizione si è avverata: ha ucciso suo padre. Laio, e ha sposato sua madre, Giocasta. In preda alla disperazione si acceca, mentre Giocasta si uccide con la spada. E la trama, seguita abbastanza fedelmente, dell'Edipo re di Sofocle.

((Fedra». Mentre Teseo discende agli Inferi con Piritoo nel fallimentare ten­tativo di rapire Persefone (toccherà a Ercole di salvarlo dall'ira di Plutone:Hercules furens), la moglie Fedra concepisce un'insana passione per il figliastro Ippolito. Prima servendosi della nutrice come intermediaria, poi diretta­mente, Fedra confessa a Ippolito i suoi sentimenti. Ma Ippolito ha in odio le donne. Respinta una prima e una seconda volta, Fedra si vendica: al ritorno di Teseo, accusa Ippolito (li averle usato violenza. Teseo invoca la morte sul figlio traditore, Poseidone lo esaudisce. In preda al rimorso Fedra si uccide rivelando a Teseo la verità. Anche l'Ippolito di Euripide tratta della passione incestuosa di Fedra, ma le forti differenze fanno capire che Seneca deve avere utilizzato anche altre tragedie, forse dello stesso Euripide.

((Le Fenicie». Il titolo, ripreso dall'omonima tragedia di Euripide, si riferi­sce alle prigioniere fenicie, destinate al servizio di Apollo delfico, che nel modello fungono da coro: ma nella tragedia di Seneca che possediamo ( una serie di scene non compiutamente collegate tra loro ) il coro non c'è. Nella prima parte (vv. 1-362), Edipo e sua figlia Antigone si allontanano da Tebe, diretti sul monte Citerone, dove il re, scopertosi parricida e incestuoso, vor­rebbe darsi la morte: Antigorie lo persuade a desistere, non a tornare cori lei a Tebe, teatro della lotta fratricida tra i suoi fratelli Eteocle e Polinice. Nella seconda parte (vv. 363-664), Giocasta, affiancata a sua volta da Antigone, rie­sce a scongiurare la guerra, non a riportare la pace tra i due figli.

<Tieste». L'ombra di Tantalo, trascinata da una Furia, sale dagli Inferi alla reggia di Micene per istigare il nipote Atreo a vendicarsi del fratello Tieste che gli ha sedotto la moglie Aerope e sottratto con l'inganno l'ariete sacro a di è legato il potere sulla casa dei Tantalidi. Atreo invita con pretesti di pace il fratello a Micene, ne uccide i figli e gliene imbandisce le carni. Alla fine Atreo svela tutto a Tieste, che lo maledice. La faida dei due nipoti di Tantalo è la favorita in tutta la storia della tragedia latina (v. in particolare Ennio e Accio)

((Le Troiane». Ecuba, vedova del re Priamo, e le altre prigioniere troiane piangono la loro sorte infelice. Ma a disgrazia si aggiunge disgrazia: per placa­re gli dèi che ne impediscono la partenza, i Greci dovranno sacrificare Polis­sella, figlia di Priamo, e Astianatte, figlio di Ettore. Davanti agli occhi di Ecuba, Polissena viene immolata sulla tomba di Achille, e Andromaca, vedova di Ettore, tenta vanamente di salvare Astianatte, che viene precipitato da una torre. Trattano di questi fatti tre tragedie di Euripide: Le Troiane, Ecuba e Andromaca.

((Ercole sull'Etna». È la vicenda delle Trachinie di Sofocle. Ercole conquista Ecalia e invia alla moglie Deianira la giovane figlia del re sconfitto, Iole. Ge10 sa della rivale, Deianira fa avere a Ercole la tunica intrisa di sangue che il centauro Nesso, ferito a morte da Ercole, le aveva donato facendole credere che fosse imbevuta di un filtro d'amore. Ma il sangue di Nesso è un tremendo veleno che rapidamente brucia e consuma le carni dell'eroe. Tra dolori atroci Ercole sale sul monte Etna, vi fa erigere un rogo e, dopo aver ordinato al figlio Illo di sposare Iole e dopo aver saputo che Deianira si è uccisa, sale sul rogo e muore davanti agli occhi della madre Alcmena. Ercole è assunto in cielo tra gli dei. Indizi formali (la lunghezza della tragedia. quasi doppia del consueto:1996 versi) e di sostanza (ad esempio, l'ottimismo trionfalistico della conclu­sione, così distante dal disincantato pessimismo delle altre tragedie) farebbe­ro pensare o a un'opera giovanile di Seneca o ad una paternità non senecana. «Ottavia». La scena è la reggia imperiale, l'anno il 62 d.C. Nerone ha ripu­diato Ottavia, moglie e sorellastra adottiva che aveva sposato per volere della madre Agrippina, e ora vuole eliminarla per unirsi a Poppea. Il popolo, che ama Ottavia, è in rivolta e Seneca cerca di dissuaderlo, ma Nerone ha ormai fissato le nuove nozze e, dopo che l'ombra di Agrippina è apparsa in scena a predire la morte del figlio imperatore, Ottavia è deportata nell'isola Pandata­ria per esservi uccisa. Opera di qualche ammiratore ed emulo di Seneca vissu­to nei primi anni dell'età dei Flavi, l'Octaviu è l'unica praetexto integra giun­ta sino a noi. Seneca ha approfondito nelle sue tragedie, con rigore quasi scienti­fico e con forza mimetica e capacità d'immedesimazione veramente sorprendenti, tutto quello che la sua opera filosofica condannava. Il saggio stoico doveva educarsi quotidianamente al controllo delle pas­sioni, al distacco dai beni terreni e dalle lusinghe del potere, alla ricer­ca del giusto e del bene, Lo strumento di questa ricerca della virtù era, come abbiamo visto, la ratio ben applicata (o mens bona). Nelle trage­die di Seneca la virtù, il bene, la giustizia vengono irrisi e calpestati, ogni forma di ragione smarrita, ogni legge umana e divina infranta. Per il saggio stoico lo studio della natura era uno strumento per elevarsi alla conoscenza del divino. Nelle tragedie di Seneca l'unica scienza è la magia nera, il dominio delle forze della natura a scopo malefico. Il Seneca maestro di moralità provava orrore per il sangue, condannava i giochi gladiatori e qualsiasi forma di spettacolo cruento. Nelle sue tragedie non c'è orrore, sevizia, mutilazione o crimine di sangue che non venga illustrato con agghiacciante compiacimento.

Nei Dialoghii e nelle Epistulae Morales è preoccupazione costante di Seneca mostrare come l'anima che assecondi la propria natura non possa che guardare in alto, verso la luce, verso quelle altezze spirituali da cui viene e a cui è destinata a tornare dopo la morte. I personaggi delle tragedie di Seneca rifuggono dalla vista della luce, lanciandosi con voluttà, a capofitto, dentro le buie voragini aperte nella loro anima da ogni sorta di passione o ambizione. Sembra quasi che Seneca abbia voluto mostrare, a se stesso ancor prima che ad altri, quanto in basso potesse arrivare un'anima malata -un'anima che ha perso la ragione - se lasciata in completa balia di se stessa. La tragedia di Seneca è esperienza totale del male. Seneca sa che il mito possiede una forza conoscitiva di grande pro­fondità antropologica, sa che il mito, adeguatamente interrogato, può dare molte risposte su ciò che avviene dentro la mente e il corpo dell'uomo. E Seneca sa interrogare il mito. Egli rinchiude i suoi per­sonaggi in uno spazio ben definito, e facendo appello a qualche pas­sione risveglia il male che è in loro e li costringe ad assecondarlo fino all'autodistruzione. Da quello spazio chiuso e sempre più buio, infat­ti, non si può uscire se non sprofondando, se non facendosi inghiotti­re dall'abisso che porta agli Inferi. In Seneca il passaggio tra il cielo e la terra è ostruito, la luce risplende solo per essere odiata e rifuggita; è facile e ben percorribile invece il passaggio tra la terra e la regione dei morti: spettri di uomini macchiatisi di colpe tremende salgono spesso a profetizzare altre colpe da parte dei loro discendenti. La tra­gedia di Seneca si apre in continuazione al mondo dei morti. All'ini­zio del Thyestes, ad esempio, l'ombra di Tantalo viene a sobillare Atreo contro il fratello Tieste che gli aveva sedotto la moglie e usurpato il potere; all'inizio dell'Agamennon, l'ombra stessa di Tieste, assetata di vendetta per il nefando pasto a cui Atreo lo aveva indotto imbandendogli con l'inganno le carni dei suoi figli, preannuncia l'assassi­nio del nipote Agamennone e il mare di sangue che inonderà la reg­gia di Micene; e nell'Oedipus l'apparizione del fantasma di Laio, evo­cato in un bosco appartato di neri elci e lugubri cipressi da Tiresia, si accompagna, nel racconto fàttole da Creonte (vv. 530-658), a una sce­na apocalittica: la terra mugghiando si spalanca e in un boato l'Ad rigurgita dèi e furie infernali e una folla di anime in pena (una descri­zione del «terzo regno» anche sulla bocca di Teseo nell'Hercules furens vv. 662 ).

Ma queste ombre di trapassati, che ritornano sulla terra a suscitare o a presagire nuovi orrori, altro non sono, a ben vedere, che allucinazio­ni o visioni di uomini senza pace: se abbandoniamo la via della ragio­ne e del bene, vuol dire Seneca, la nostra anima si ammalerà in modo sempre più grave fino a generare quei mostri, fino a provocare quelle apparizioni infernali. In realtà, in una vita in balìa completa del male, neppure per il giusto c'è speranza di una vita dopo la morte.

Nella disperazione più assoluta il coro di Troiane, nella tragedia omonima, si chiede se ci sia una vita per le ombre dei defunti o se invece l'uomo non muoia tutt'intero», e conclude che «dopo la mor­te non vi è nulla, e la stessa morte è nulla» e che «la morte è indivisibile, colpisce il corpo e non risparmia l'anima» e, infine, che dopo la morte torniamo a giacere «dove giacciono le cose non nate» (Troades371-408).

Sebbene si tratti di un coro, cioè della sede più idonea a esprimere il pensiero stesso dell'autore, è improbabile che qui si manifesti il vero pensiero di Seneca. È da credere, semmai, che Seneca abbia volu­to percorrere fino in fondo, immedesimandosi nelle prigioniere, il sentimento della loro disperazione: descrivendo cioè come potrebbe apparire anche al giusto l'esito di una vita che sembra dominata, non da una provvidenza, ma dalla follia e dal male.

Questa immersione nel male conduce Seneca a esperire poetica­mente tutti i nodi, o tabù, antropologici più importanti: incesto, parri­cidio (o altra forma di assassinio di un familiare), cannibalismo. Rara­mente l'infrazione si presenta unica: il più delle volte il nefas, l'atto contro ogni legge umana e divina, è multiplo, come se l'empietà fosSe un mostro a più teste.

L'incesto si unisce al parricidio nella storia di Edipo. Nell'Oedipus di Sene­ca il re di Tebe non passa dalla completa ignoranza alla piena conoscenza dei propri involontari delitti (uccisione del padre Laio, unione con la madre Giocasta) come nell'Edipo re di Sofocle: fin dall'inizio egli si sente dentro un peso

insostenibile, e giunge quasi autonomamente alla tremenda verità, come se nel suo inconscio l'avesse sempre saputa. Importanti novità senecane sono il per­sonaggio di Manto, figlia dell'indovino Tiresia, o la scena in cui Manto, alla presenza di Edipo, descrive al cieco padre, che lo interpreta, ogni minimo particolare del sacrificio ad Apollo. Non si tratta solo del più lungo testo divinatorio che l'antichità ci abbia tramandato, ma anche di uno dei più inte­ressanti, dotato di grande forza simbolica. I segni che accompagnano il sacrifi­cio costituiscono infatti un efficacissimo riassunto dell'intero mito di Edipo: il fumo che sale agli occhi del bue prefigura l'accecamento di Edipo, la giovenca che offre spontaneamente il collo al sacrificio prefigura il suicidio di Giocasta, la fiamma che si divide in due corni il futuro conflitto tra Eteoclo e Polinice, la forma ad arcobaleno della fiamma stessa, coi colori che si attorcigliano e si confondono l'un l'altro, la confusione di ruoli familiari provocata dall'incesto.

Nelle Phoenissae prosegue e si esaspera il tema dell'orrore che Edipo prova per se stesso, in particolare per l'incesto compiuto con la madre e per la conseguente nascita di quei mostri che sono i suoi figli-fratelli, i rivali Eteocle e Polinice. Senza una spada, senza un rogo o un precipizio, senza un'erba velenosa a disposizione, Edipo è pronto a darsi la morte con la nuda mano: a sfondarsi il torace, a strapparsi il cuore, a spezzarsi la gola, a squarciarsi le vene, a riaprire le ferite nelle orbite da cui s'è strappato gli occhi, a inondarle di sangue e infezione. Un'atrocità impetuosa, di grande effetto, che influirà in maniera decisiva sul teatro europeo.

L'incesto fa sentire il suo peso anche nell'Agamennon, dove pure il cuore del dramma è l'assassinio a tradimento del re vittorioso di ritorno in patria, Agamennone, da parte della moglie Clitemnestra. A fianco di Clitemnestra c'è infatti l'usurpatore Egisto, il figlio che Tieste, zio di Agamennone, aveva avu­to da un'unione incestuosa con la figlia Pelopia. Versare il sangue di un con­giunto o contaminarlo col suo stesso sangue, tramite l'Incesto, sono 'due cri­mini che, come abbiamo detto, vanno spesso insieme: significa infatti, in en­trambi i casi, «far camminare a ritroso la natura», come riconosce l'ombra di Tieste nel prologo della tragedia (v. 34 versa natura est retro).

Le infamie contro natura degli avi contaminano tutto il sangue della stirpe. L'infelice casa dei Pelopidi è segnata dal delitto di Tantalo che fa a pezzi il figlio Pelope e lo imbandisce agli dèi. Quel gesto orribile porterà non solo all'incesto di Tieste, ma anche all'ancor peggiore delitto di Atreo, che uccide i figli del fratello e gliene imbandisce le carni, costringendolo ad una sorta di incestuoso cannibalismo. Nel Thyestes, l'incontenibile sete di vendetta e di potere di Atreo contro il fratello, che gli aveva sedotto la moglie e, tempora­neamente, usurpato il trono, rappresenta una sorta di punto d'arrivo della tragedia senecana. Nulla è peggiore di chi non pone più limiti nè alla vendetta né al potere. Da una parte, infatti, Atreo ritiene che non vi sia alcuna misura per chi ha subito un delitto e voglia vendicarsi (((Occorre un limite al delitto quando si commette un delitto, non quando lo si reStituisce», vv. 1052 sgg.), dall'altro che il potere debba essere unico e indivisibile (((Un regno non basta per due re», v. 444). Alla fine, attuata la vendetta e conquistato definitivamen­te il trono del padre, Atreo sente appagata la sua libidine di potenza, sente - o crede - di essersi elevato all'altezza degli astri, di toccare col capo superbo la sommità del cielo» (v. 885). Per il sapiens stoico, tutto vòlto a realizzare il dio che è dentro di lui con l'esercizio della virtù e del bene, non vi è ribalta­mento più grave della natura di quello che Atreo compie cancellando gli dèi e facendosi dio a se stesso: annullando la legge che gli dèi hanno posto nell'ani­ma di ciascuno, violando, da vero artista del crimine e dell'empietà, le più radicate leggi della convivenza civile. Il Thyestes è la tragedia che arriva più vicina a ciò che Seneca deve aver conosciuto e osservato negli appartamenti della corte imperiale.

Ma se Atreo, il tiranno folle del Thyestes, tocca il fondo del male, altrettanto fa, in ambito femminile, la Medea della tragedia omonima («Basterebbe una Medea a fare delle donne una stirpe maledetta», sentenzia Ippolito, Phaedra 563 sgg.). Medea è infatti, per eccellenza, la nemica della luce, la rappresentan­te «del caos dell'eterna notte». Vinta dalla passione per Giasone, ha tradito e derubato suo padre del vello d'oro, è fuggita con lo straniero, ha ucciso e fatto a pezzi il fratello Absirto per impedire che li raggiungesse, a Iolco aveva indotto le figlie di Pelia, lo zio di Giasone usurpatore del trono, a uccidere il padre facendo loro credere che gli avrebbero restituito la giovinezza. Ma adesso Giasone la ricambia sposando Creusa. Il folle amore diventa folle odio («odio e amore fanno causa comune») e in breve trabocca; nessuna forza è pari ad una sposa ripudiata, canta il coro, e Medea si dice decisa ad abbattere e distruggere ogni cosa, ad assalire, analogamente ad Atreo, «perfino gli dèi». Ritiratasi in un antro segreto, Medea con le sue arti magiche piega al suo volere tutte le forze malefiche degli Inferi, della terra e del cielo, e con l'assenso della Tripli­ce dea della notte, che fa avvampare le sacre fiaccole nei tripodi e sugli altari, rende velenose le vesti che invia in dono nuziale a Creusa e al re Creonte suo padre. I due le indossano e muoiono bruciati, inceneriti all'istante. Ma il peggio è quando, in un delirio visionario (appare il fratello Absirto fatto a pezzi), con la spada uccide anche i figli avuti da Giasone, il primo da sola, il secondo in presenza del padre. Fuggendo per gli spazi celesti su un carro tirato da draghi alati, fa dire a Giasone che davvero anche in cielo non esistono dèi.


Gli "eroi" del teatro di Seneca sono in sostanza tutti negativi: e il solo personaggio che sembri fare eccezione è Ercole. Alle sue spalle sta infatti una lunga tradizione mitica che fa di lui l'uccisore dei mo­stri, il liberatore dai mali, addirittura una divinità oggetto di culto, a Roma non meno che nel mondo greco. Ma nella tradizione filosofica Ercole è anche l'eroe della con stantia, la virtù stoica per eccellenza. In queste vesti Ercole compare in Seneca, a illuminare un panorama al­trimenti desolato e perverso. Il trionfalistico finale dell'Hercuies Oe­taeus, con l'eroe che dichiara la sua assunzione in cielo, godrà di grande prestigio nella cultura europea come esempio di virtù premia­ta, di divinità conquistata; ma oggi siamo inclini a pensare che l'umile umanità ferita del furens rinsavito rispecchi più fedelmente la visione del Seneca maturo.

Lo stile tragico di Seneca presenta, esasperate, le stesse caratteristi­che di quello del filosofo. La sobrietà della sintassi, concentrata all'ec­cesso, enfatizza la parola grazie all'incessante ricorso a figure di suono e di senso, ad interrogative retoriche, ad esclamative e ad ogni altro espediente declamatorio. Tanta magniloquenza serve a descrivere sce­nari raccapriccianti, a gridare orrori che altrimenti la parola normale non riuscirebbe nemmeno a pronunciare, ad accompagnare chi legge (o chi ascolta) nelle voragini che si spalancano nell'anima di quegli eroi del male.

Cellula dello stile senecano continua ad essere la sententia, che spesso interviene a salvare, con le sue definizioni o asserzioni fulmi­nanti, anche quella che parrebbe la parte più debole della tragedia, il dialogo. Più brillante, più a suo agio si mostra infatti Seneca nel mo­nologo. Il teatro tragico di Seneca vive non tanto dei contrasti tra i personaggi. quanto di quelli che avvengono dentro i personaggi. I mo­nologhi di Seneca sono lunghe effusioni sentimentali (che raggiungono sovente tratti di intensa lìricità), lunghe confessioni, lunghi dialo­ghi interiori. Ad essi si contrappongono i cori, che tuttavia il più delle volte altro non sono, al modo dei monologhi, che lunghe effusioni e confessioni, lunghi dialoghi interiori dell'autore stesso.Da ricordare infine un particolare strutturale molto importante. Tut­te le tragedie di Seneca risultano divise in cinque atti. Orazio per primo a quanto ci è dato sapere, aveva teorizzato la divisione della fabula in cinque «atti» (o parti: Ars poetica 189 ), forse come rico­noscimento di quella che era diventata, o stava diventando, la prassi corrente dei tragediografi ma quello di Seneca è di fatto l'unico teatro classico a presentare tale principio realizzato: cinque parti costituite da dialoghi o monologhi di personaggio separate l'una dall'altra da quattro parti corali. Nelle drammaturgie classicistiche dell'Europa moderna, l'esempio senecano darà forza di legge pressoché inviolabile alla teoria oraziana esposta nell'Ars.

Sotto il nome di Seneca ci sono giunti, tramite l'Anthologia Latina, anche alcuni epigrammi: esercizi di mera scuola e in stile prevalentemente ovidiano, sulla cui autenticità è ben difficile pronunciarsi.

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