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PLAUTO
Nacque a Sarsina, città allora umbra dell'Appennino romagnolo, tra il 255 e il 250 a.C. e morì a Roma nell'anno in cui divenne censore Catone, il 184 a.C. Non molti anni prima della nascita di Plauto, Sarsina era stata sconfitta e conquistata dai consoli di Roma (266 a.C). Si ignora se, analogamente al campano Nevio, che militò nella prima guerra punica, e al "semigreco" di Puglia Ennio, che fu centurione nella seconda, il sarsinate Plauto partecipasse alla guerra contro i Galli Boi e Insubri (culminata col trionfo di Claudio Marcello a Casteggio nel 222): ma non si può escludere che fosse proprio tale circostanza a favorirne -come appunto nei casi di Nevio e di Ennio - l'abbandono della città natale e il trasferimento a Roma. Si pensa che tale trasferimento sia avvenuto almeno un decennio dopo gli inizi dell'attività teatrale di Nevio, posti da Gellio (Noctes Atticae 21, 45) nel 235, e almeno un decennio prima dell'arrivo nella capitale di Ennio (che avvenne nel 204, per iniziativa di Catone: Cornelio Nipote, Catone 1, 4).
Il più antico codice plautino conservato (il cosiddetto "palinsesto Ambrosiano", datato tra la fine del IV e gli inizi del V secolo d.C.) riporta chiaramente per l'autore i tre nomi caratteristici dell'uso romano: Titus Maccius Plautus. Mentre però i tre nomi canonici comportano una successione praenomen-nomen-cognomen questi plautini sembrano piuttosto il risultato di un aggiustamento, realizzato in epoca sicuramente posteriore, tra un prenome (Titus) e due cognomi, cioè soprannomi: in Maccius è facile riconoscere un ingentilimento dell'assai meno nobile Maccus (il Matto, lo Sciocco), nome famoso di una delle quattro o cinque maschere di base dell'atellana, mentre Plautus sembrerebbe rinviare ad una caratterista fisica ben precisa, all'aver avuto cioè «i piedi piatti».
Di fatto, in entrambi i casi potremmo aver a che fare con due "nomi d'arte". Maccus potrebbe risalire ai primi tempi romani di Plauto, all'attività che egli avrebbe svolto nella capitale come attore di atellane. Plautus, se davvero designava, come dice il lessicografo Festo, persona «dai piedi piatti» (pedibus planis), potrebbe invece riferirsi, più che alla piattezza dei piedi, all'esser stato egli un planipes in senso tecnico. Vale a dire un attore di farsa, un attore che recitava «a piedi nudi», non calzato del coturno (l'alto calzare della tragedia) o del socco (il sandalo della commedia). Ma non si può escludere che il riferimento fosse anche ad un particolare modo di tenere i piedi durante la recitazione, un pò legnosa e farsescamente caricata di Plauto stesso.
Gli antichi non avevano dubbi sugli esordi come attore del futuro commediografo. Secondo Varrone, stando a quanto riferisce Aulo Gallio (Notes Atticae III, 3, 14), Plauto, dopo aver perso nel commercio tutto il denaro guadagnato facendo l'attore ed esser stato costretto a girare la macina in un mulino, proprio in tale condizione aveva cominciato a scrivere le sue prime commedie. E l'immagine del poeta costretto all'umiliazione di girare la mola era talmente diffusa che, ancora nella prima metà del III secolo d. C., l'apologeta Minucio Felice usa l'espressione "di schiatta platina" (Plautinae prosapiae homo) per indicare persona di umilissime origini (Octavius 14, 1).
Un Plauto declassato da commediografo a scrittore di farse è quello attaccato da Orazio nell'Epistola ad Augusto (Il, 1, 170-176). A parere di Orazio, i parassiti di Plauto hanno modi farseschi; i suoi innamorati, i suoi padri di famiglia, i suoi ruffiani sono molto approssimativi e lui stesso, Plauto, è come un attore che non sappia calzare il socco con la necessaria eleganza. Il fatto è che egli ha un solo pensiero: accumulare denaro, piacere al popolo, foss'anche al prezzo di far rappresentare una commedia slegata, inverosimile, bassamente farsesca. Al limpido e aristocratico Orazio l'arcaico Plauto, con la sua verbosità disinvoltamente "eccessiva", i suoi espedienti ad effetto, la sua ricercata teatralità, appariva rozzo e letterariamente disattento.
In realtà, qualcosa di umile e di farsesco c'era stato nella vita di Plauto: dovette trattarsi, per via dei due nomi d'arte Maccus e Plautus, di un'esperienza diretta del teatro, appunto, farsesco. Ma che avesse continuato a recitare anche dopo aver intrapreso la carriera di commediografo, cioè di scrittore di palliatae, magari interpretando il ruolo del suo personaggio preferito, il servo furbo, come s'è creduto a lungo anche in età moderna, è supposizione senza fondamento, come senza fondamento è la supposizione che nella descrizione del servo furbo Pseudolo nella commedia omonima («capelli rossi, una bella pancia, polpacci bene in carne, colorito bruno, testa grande, occhi acuti come spilli, faccia rubiconda, piedi grandi assai», vv. 1217-1221) Plauto avesse voluto dare un ritratto di se stesso: del Plauto reale, tra l'altro, si diceva avesse i piedi piatti, e non, anche, «grandi assai»!
Quanto alla notizia riportata da Gellio (Noctes Atticae III, 3, 14) che Plauto avrebbe scritto durante la servitù al mulino un Addictus e un Saturio, essa appare facilmente spiegabile a partire dalle venti commedie superstiti. Il meccanismo sarà stato quello di sempre, particolarmente attivo nel biografìsmo antico: la convinzione cioè che il poeta parli, nella propria opera, solo di ciò e ha esperito e che conosce. Nel caso di Plauto si cominciò col supporre che dovesse aver personalmente conosciuto la schiavitù per debiti: del resto, era forse vero che proprio lo schiavo era al centro del suo mondo poetico?
Si continuò, poi, collocando quell'esperienza nello scenario crudo e umiliante del mulino: non erano infatti assai frequenti nelle sue commedie i riferimenti ai vari tipi di punizione e tortura inflitti agli schiavi: frusta, croce, lavoro nelle cave, lavoro, appunto, alla macina? D'altra parte, un titolo Saturio, il «Panciapiena», dimostrava, insieme alle numerosissime tirate dei molti parassiti plautini (uno dei quali, nel Persa, si chiama proprio che, al contrario, Plauto doveva aver sperimentato, dal vivo e duramente le torture causate da una pancia vuota. Se poi si volevano conferme anche sull'avidità di Plauto e sul suo spericolato tentativo di speculazione commerciale, era ben noto che il tema del «guadagnare» (lucrum facere) e del «guadagno» era, nelle sue commedie, tra i più frequenti; così come fitta era la rappresentanza di mercanti d'ogni sorta.
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