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Leggi anche appunti:Libro secondoLIBRO SECONDO I 1 Mi sono chiesto e ho molto e lungamente Angius mirae magnitudinis exercitum romanum terretANGIUS MIRAE MAGNITUDINIS EXERCITUM ROMANUM TERRET TESTO ORIGINALE Atilius VirgilioVirgilio - Georgiche I, 461-514 - Denique quid vesper serus vehat, |
Mentre le passioni civili imperversavano, e gli odi, le stragi e i sospetti di sempre nuove calamità avvolgevano nel terrore i cittadini, uno spirito ardente e infiammato dall'ansia di svelare ai contemporanei le condizioni per vivere in pace e in felicità, si levava in mezzo a loro, ad ammonirli dell'errore in cui si perdevano, a liberarli da tutte le superstizioni dalle quali erano ingannati e sviati, a indirizzarli alla giusta considerazione delle cose umane, che la sola filosofia sarebbe stata in grado di rivelare. Di tale missione si sentì investito un poeta, che volle
essere guida dei propri concittadini alla saggezza e alla verità. ed ambì farsene banditore entusiasta e ardente col mezzo della parola più persuasiva ed immaginosa, che convincesse e affascinasse.
Fu uno dei maggiori scrittori non solo dell'età cesariana, ma addirittura di tutta la letteratura latina e del mondo, emulatore (in tutt' altro campo ed espressione) del contemporaneo Catullo: Tito Lucrezio Caro, autore del poema filosofico De rerum natura («La natura »).
La filosofia, alla quale egli chiedeva di compiere la nobile rivelazione, non era nessuna di quelle per cui aveva simpatizzato Cicerone, ma proprio quella di cui questi era stato il più accanito avversario: l'epicureismo. La dottrina che proponeva il piacere quale sommo bene fisico e spirituale, che spiegava in modo meccanicistico e sensistico la natura, che considerava gli uomini disancorati dal cielo e fine a sè stessi nella mortalità dell'anima composta come il corpo di elementi fisici, non appariva veramente la più atta all'indole e alle esigenze tradizionali romane, per cui l'individuo e lo Stato erano inscindibile unità. Ma se la dottrina del filosofo greco, fondata sulla fine del secolo IV in Atene, appariva poco congeniale all'indole conservatrice e anti-individualistica dello Stato romano tradizionalista, essa si presentava proprio come un antidoto e un'evasione in mezzo al suo sovvertimento, in un'epoca particolarmente oppressa dai mali politici e civili: miraggio e oasi di pace e di rinascita nel colmo della bufera.
Le circostanze erano veramente propizie al diffondersi in Roma di una credenza che in altri tempi vi avrebbe incontrato incompatibilità. Ma una dottrina che auspicasse il placarsi delle passioni in mezzo al loro più sfrenato infuriare, che insegnasse a considerare nel giusto valore, senza esaltazione nè ripudio, le cose mortali, che spegnesse il dolore e liberasse dagli incubi da cui è gravata la breve esistenza terrena, doveva trovare la sua temperie più conveniente nel colmo delle lotte fratricide, delle proscrizioni e degli intrighi, delle violenze d'una situazione politica sanguinaria e tumultuosa, se insegnava che la meta del vivere è invece la perfezione e la pace dello spirito e risiede nella conoscenza della verità che non illude nè delude. La liberazione dal dolore e dall'errore: tale la meta che la poesia doveva rendere accessibile alle menti sviate con il miracolo della parola. Lucrezio considerava se stesso l'apostolo della grande missione.
La patria da alcuni si vorrebbe che fosse Pompei; la data di nascita, per testimonianza di S. Gerolamo (il quale dovrebbe averla dedotta da Svetonio) s'aggirerebbe intorno al 95 0 94 a.C., quella di morte al 51 o aI 50, press'a poco sui quarantacinque anni. Senonchè il grammatico Donato, nella biografia di Virgilio da lui scritta, fa coincidere l'anno di morte di Lucrezio col 15 ottobre del 53, giorno in cui avrebbe preso la toga virile il poeta dell' Eneide. Per cui essendo Virgilio nato nel 70 a.C., e per il fatto che la toga virile era indossata a sedici anni, bisognerebbe anticipare la data di morte al 54, spostando l'anno di nascita al 99-98 o, quanto meno, contrarre la durata della vita del poeta a soli quarant'anni.
La sua esistenza si sarebbe agitata in uno stato di morbosa esaltazione a motivo di un filtro amoroso da lui bevuto impossibile ed anzi non insolita e che il poema sarebbe venuto alla luce per insania, cioè nei momenti di tregua concessigli dalla pazzia.
La conclusione più probabile sul mistero del dramma di Lucrezio pare debba essere dunque che il grande solitario, ammiratore fino all'idolatria dei precetti di Epicuro, ritiratosi in una specie di ascetica solitudine per assolvere la sua missione rivelatrice, ne fosse preso a tal punto da esserne oppresso, donde la tragica soluzione della morte violenta.
DE RERUM NATURAE
Il fondamento concettuale dell'opera lucreziana è senz'altro il trattato omonimo "Della natura" di Epicuro, pur non mancando di attingere ad altre fonti minori, quali Empedocle, Senofane, Parmenide. Attinge all'opera originale del filosofo greco oa qualche posteriore sviluppo della stessa ad iniziativa di epigoni
Il De rerum naturae, dedicato a Caio Memmio, si offre come
successione di sei vaste partiture sinfoniche, rispondenti a un criterio architettonico e armonico assai lucido, benché più artistico che logico. I sei libri del poema sono organizzati in tre serie abbinate. Così il I e il II espongono, quale premessa, la trattazione della teoria atomica, nel cui meccanico determinarsi si crea e si dissolve la vita universale; il III e il IV sono dedicati al problema dell'uomo: alla inseparabilità del corpo dall'anima, alla conseguente caducità di questa, con la dimostrazione materialistica delle sensazioni (il sonno, i sogni, le cognizioni, le funzìoni fisiologiche, tra cui l'amore); nel V e nel VI, a prova della natura mortale del mondo, si fa la storia dell'origine della vita animale e lo svolgersi dell'uomo dalla ferinità alla vita sociale e civile; indi si tratta delle cause fisiche da cui si generano i fenomeni di natura, fulmini, terremoti, epidemie, ecc., e si con-chiude con la raccapricciante descrizione della famosa peste di Atene, trattata anche dallo storico greco Tucidide. Ogni libro presenta un fervido squarcio introduttìvo e conclusivo.
LETTURE CRITICHE DELLA GARBARINO: LA QUESTIONE DEL GENERE
Ciò che interessa nel poema non è la sostanza filosofica di per sè, ma l'arte: cioè la poesia. Di fronte alla propria materia epicurea e meccanicistica, Lucrezio dovette risolvere lo stesso problema affrontato dal cantore per eccellenza della fede cristiana, Dante. Nell'intento, il primo di distogliere, l'altro di condurre a Dio, ebbero a vincere entrambi l'aridità di una materia astratta e concettuale, uno schema di pura logicità, che sarebbe rimasto freddo e inerte, se l'animo di ambedue i creatori non fosse stato sovranamente ispirato da immaginazioni e sentimenti umani e universali. Animato anche Lucrezio da una fede a modo suo apostolica pur nel suo stesso materialismo, sommamente poeta prima che filosofo, allo stesso modo di Dante, creatore di possente fantasia prima che teologo.
La fede, l'entusiasmo, l'ardore della verità rivelatrice, sono la grande linfa della poesia lucreziana. Nessun confronto giova a intendere l'humus lirico del canto di Lucrezio quanto l'accostamento ai frammenti originali di Epicuro: due posizioni nettamente distinte: l'una puramente logica, l'altra fantastica; da una parte lo schema, dall'altro la vita del sentimento e della fantasia infuse nella sua astrattezza. Nel filosofo c'è l'idea pura. nel poeta l'armonia suadente che nasce dalla metamorfosi della stessa in concretezza, in commozione a volte persino religiosa, in immaginosa e visiva trasfigurazione.
Una materia arida di per se stessa monotona e deduttiva, come per contrasto, è immersa in larghe correnti di sentimentò e di affetto, rischiarata da sovrane immaginazioni che ne fecondano la freddezza sistematica sì da raggiungere una meravigliosa consonanza di scienza e di poesia. L'ardore quasi fanatico della verità viene acquistando corpo e sensi di creatura vivente, di contro alla superstizione demoniaca; la « religio» assume figura di nemica dichiarata e odiata quale provocatrice di crudeltà e stoltezza (tale il sacrificio di Ifigenia); la morte diventa un mostro orrendo che va strappato per sempre, davanti agli occhi terrorizzati dei mortali; l'amore è un altro tremendo nemico più fieramente odiato per la sua subdola arte ingannatrice. Un solo maestro di verità inconfutabile, un solo dio esiste degno che l'umanità gli si inchini davanti, ma non sugli altari della superstizione come per gli altri numi: Epicuro, al quale perciò vanno gli alati inni di lode del poeta nei proemi e nei finali dei diversi libri. Importante è la sua rinuncia all'atteggiamento miracoloso e l'utilizzo del sublime che, pur ricco di ambivalenze (terrore e disagio, angoscia e paura), stimola ad a un atteggiamento agonistico e all'abbandono della passività.
Lucrezio possiede in grado sovrano la più alta virtù poetica del sentire in concretezza di immagini e in commozione di sentimenti (molto in ciò vicino a Dante): ne esce un'espressione improntata al tempo stesso liricamente e drammaticamente, intima e cosmica, mossa e commossa, nell'affetto infuso nell'immaginazione
Ci sono anche qui versi non perfetti, sforzature espressive, momentanee durezze e inerzie, eccezioni che stanno a confermare la regola.
Ma tuttavia sono molto scarse le indulgenze e gli artifici, in quest'arte severa e sublime, intermedia fra l'arcaismo enniano e la perfezione virginiana. E veramente Lucrezio appare il ponte di passaggio fra il venerando epico delle origini, da cui pure il poeta della natura in parte procede, e il grande cantore della romanità L'eredità infatti del poeta rivelatore del mistero della vita e della morte, ateo e a suo modo religioso, con così scarso consenso accolta dai contemporanei, trovò invece nei posteri il suo più meritato riconoscimento e la più fortunata continuità augustea, che Lucrezio ebbe a fonte e maestro.
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