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Lucrezio (De Rerum Natura) e Plinio il Vecchio
Lucrezio (De Rerum Natura)
Introduzione
Lucrezio Caro, Tito (98 ca. - 55 ca. a.C.), poeta latino. I pochi dati biografici sono tramandati da san Gerolamo, al quale si deve anche la notizia della follia e del suicidio di Lucrezio, oggi perlopiù ritenuta inattendibile.
Il "De rerum natura" (tradotto dal latino letteralmente è Sulla natura delle cose, ma va inteso in senso traslato 'sulla natura dell'universo' o più semplicemente 'Sulla natura') è un poema epico didascalico (= a scopo didattico, o istruttivo) di Tito Lucrezio Caro. L'opera fu scritta in esametri e si suddivide in sei libri, comprese in tre parti: il primo e il secondo libro trattano la teoria degli atomi (argomenti fisici); il terzo e il quarto l'anima e le modalità con cui avviene la conoscenza (argomenti antropologici); il quinto e il sesto sviluppano la dottrina del mondo (argomenti cosmologici). Probabilmente non fu finita o, in qualsiasi caso, manca di una revisione. Il poema di Lucrezio è dedicato a Gaio Memmio, che fu amico e patrono di Catullo e Cinna. San Girolamo asserisce che il "De rerum natura" fu rivisto e pubblicato da Cicerone pochi anni dopo la morte di Lucrezio.
La data di composizione non è sicura: probabilmente fu composta nel periodo successivo al 58, anno in cui fu pretore Memmio.
Struttura
Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato di Sicione e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.
Ciascun libro ha un suo proemio, variandosi in ciascuno di essi dalla lode dell'inventore, Epicuro, maestro della umana saggezza, alla lode della filosofia, rasserenatrice della vita umana; il famoso inno a Venere, forza genitrice della natura, a cui sorride e germina l'universo in mille vite, protettrice di Roma e della gente di Memmio, al quale il poema è dedicato, posto all'inizio del primo libro, come introduzione generale dell'opera, arricchisce di vividi lumi di poesia queste parti, nelle quali si ferma il travaglio del poeta, e in cui si rispecchia l'altezza da lui già raggiunta e alla quale vuole guidare altri con la chiara esposizione della dottrina.
Scopo dell'opera
Scopo del poeta è l'esposizione delle dottrine di Epicuro riguardo al mondo e all'uomo. Secondo la fisica epicurea, che recupera le teorie atomistiche di Leucippo e Democrito, l'universo vive del moto incessante degli atomi, che si aggregano e disgregano originando una serie infinita di mondi e di composti materiali; l'anima non è un'entità incorporea, ma anch'essa una combinazione fortuita di atomi che cessa di vivere insieme col corpo; il criterio di verità è determinato dall'esperienza sensibile, intesa come fondamento del sapere e misura dell'attendibilità dei processi conoscitivi; la morte non deve causare turbamento perché 'non è nulla per noi', ponendo fine alle sensazioni; tutti i fenomeni terreni hanno cause naturali e non conoscono intervento divino: gli dei non si devono temere poiché non si preoccupano delle vicende umane. La paura del soprannaturale non ha quindi alcun fondamento razionale. Questa esposizione delle dottrine epicuree non è freddamente intesa come fine a se stessa e come solida struttura di un sistema interpretativo dei fenomeni dell'universo, ma vera e poetica interpretazione di essa, contemplata nell'armonioso e fatale comporsi e dissolversi delle cose e della posizione dell'individuo, parte di un tutto destinato a perire senza dispersione. Questa è l'"essenza" della 'poesia' lucreziana, che traspare ovunque, anche nel tessuto dei versi più duri, trepida e commossa alla profondità dei misteri, che la sapienza del maestro rivela all'occhio stupito del mortale; si allontanano le tenebre fitte, crollano le mura del mondo, lo sguardo del poeta arriva alla vista degli dei e alle sedi tranquille, che non sono scosse né da venti né procellosi nembi aspergono di piogge né gelida neve offende, ma sempre un aere puro e senza mutamento avvolge, sorridente, per largo spazio, di diffusa luce; nulla più, in nessun tempo può attentare alla pace dell'animo che ha superato i misteri, ugualmente paurosi, della vita e delta morte.
1. Le fonti del poema
Tutta l'opera è un omaggio a Epicuro, che con le sue verità razionali illuminò l'animo dissolvendo le superstizioni e la paura della morte e degli dei, e aiutandolo a raggiungere l'atarassia, cioè l'imperturbabilità, che è il presupposto essenziale della felicità: l'uomo felice è colui che riconosce come canone dell'esistenza il piacere, inteso come soppressione del dolore, soddisfazione dei bisogni naturali e limitazione dei desideri. Per questo il proemio del De rerum natura si apre con un'invocazione a Venere, simbolo dell'amore e del piacere cui tendono naturalmente tutti gli esseri viventi. Oltre a quella di Epicuro, si avverte nell'opera di Lucrezio l'influenza di altre fonti: di Ennio, padre dell'epica latina, di Empedocle, del teatro greco e di Tucidide, modello primario per il grandioso affresco della peste di Atene con cui si chiude il sesto libro. In tutto il poema Lucrezio si mostra interessato al problema del linguaggio e, cosciente della carenza di termini filosofici nella lingua latina, si impegna costantemente a chiarire il significato delle parole, anche le più comuni.
(Primo libro)
Il primo libro si apre con un lungo proemio che contiene l'Inno a Venere e l'Elogio di Epicuro, Il Sacrificio di Ifigenia ed altri temi cari a Lucrezio. Non è facile spiegare perché l'autore nell'Inno a Venere, che pur intende demolire la religione tradizionale, abbia sentito il bisogno di invocare una divinità tra le più tipiche del patrimonio mitologico, la quale oltretutto, è simbolo di quell'amore che la filosofia epicurea condanna in maniera inequivocabile. La spiegazione va cercata nell'ampio ventaglio di significati allegorici che essa si prestava ad assumere in sé. Venere, infatti, può significare sia la potenza creatrice della natura, sia il piacere in movimento che produce la ricomposizione degli atomi, sia il piacere in riposo, sia la forza dell'amore che si contrappone a quella dell'odio, impersonata nel poema da Marte. Nell'Elogio di Epicuro, Lucrezio critica la superstizione ed il timore per gli Dei perché vuole dimostrare che essa ha spinto gli uomini a commettere in suo nome i delitti più nefandi. Nei passi successivi, Lucrezio si addentra nella dottrina epicurea, descrivendo la teoria atomica attraverso la dimostrazione che nulla nasce dal nulla né si trasforma in nulla. La realtà è eterna, le cose si formano senza intervento divino, ma mediante un processo di aggregazione e disgregazione degli atomi della materia.
(Secondo libro)
Il secondo libro comincia dal determinare il processo di formazione e dissoluzione dei corpi; argomento svolto in tutti i suoi particolari; movimento, forma degli atomi dimostrata nel senso che l'uomo ha delle cose: ciò che accarezza i sensi ha una levigatezza primordiale, ciò che è aspro e molesto ha durezza di materia. Molte, poi, sono le figure e infinite le somiglianze; nella terra sono gli atomi, onde si formano elementi e mezzi di vita, idonei a conservare le diversità delle razze. I quali atomi non hanno colore per la loro stessa immutabilità; ma rendono con la varietà delle forme varie impressioni; in conclusione, sono privi di colore, come di odore, di succo, di temperatura. Resta al poeta da spiegare il nascere del sensibile dall'insensibile, dimostrato questo dai vermi nascenti dallo stereo, dal passaggio di materia a formare altra materia e da altra lunga serie di prove apparenti e sostenuto contro diverse teorie. Il libro si chiude con l'accenno all'infinità dei mondi e come questi debbano formarsi nell'infinito universo atomico e formarsi per una forza loro: incrementi e graduale deperimento del mondo nostro sono la visione ultima, piena di profondo vigore poetico.
(Terzo libro)
Il terzo libro si apre con una solenne celebrazione di Epicuro. Lucrezio tratta poi dell'anima e della sua natura mortale: Scopo del poeta è liberare gli uomini dalla paura della morte, che stende un'ombra funesta sulla loro vita. Lucrezio dimostra con una lunga serie di argomentazioni, tipiche della dottrina Epicurea, la natura materiale e mortale sia dell'anima (principio vitale diffuso in tutto il corpo) sia dell'animus (la mente, sede delle facoltà razionali): essi sono composti, come tutta la realtà, di atomi, destinati a disperdersi, come quelli che compongono il corpo, al momento della morte. Nel momento in cui l'organismo umano si dissolve, cessa ogni forma di coscienza e sensibilità e non ci può più essere per l'individuo sofferenza alcuna.
(Quarto libro)
Nel quarto libro, Lucrezio, svolge la teoria delle sensazioni, provocate, secondo l'Epicureismo, da aggregazioni di atomi sottilissimi che si staccano dagli oggetti e dai corpi e che vanno a colpire i sensi.
(Quinto libro)
Il quinto libro dopo un nuovo elogio di Epicuro, tratta dell'universo, che non è eterno: esso, come l'uomo, ha avuto un principio e avrà una fine; non è stato creato dagli dei, ma si è formato in seguito alla casuale aggregazione degli atomi. Il poeta descrive poi la terra e il cielo, tratta dei movimenti dei corpi celesti e descrive una sintesi grandiosa della storia dell'umanità.
(Sesto libro)
Anche l'ultimo libro si apre con un elogio: di Atene e di Epicuro. Sono descritti poi i fenomeni metereologici e naturali come i terremoti, i vulcani, le piene del Nilo. L'ultima parte del libro è dedicata alle epidemie e alle loro cause; e il poema si chiude con un'ampia e particolareggiata descrizione della terribile peste di Atene del 430 a.C.
2. La fortuna
Molto amato in età romana, il testo non ebbe fortuna nel Medioevo cristiano; rivalutato dagli umanisti per le sue qualità poetiche, entrò nel pensiero filosofico moderno con i filosofi naturalisti italiani del Cinquecento come Giordano Bruno, con i materialisti francesi del Seicento, con Giambattista Vico e con il sensismo nel Settecento, trovando infine nuova fortuna nel positivismo ottocentesco e nelle più recenti dottrine che si richiamano al materialismo storico.
Plinio il Vecchio
Gaio Plinio Cecilio Secondo nacque a Como nel 23 d.c. Da giovane militò nell'esercito, in Germania, per due lunghi periodi. Le campagne germaniche suggerirono a Plinio la composizione di un'opera storica molto importante: i Bella Germaniae. Dopo la morte dell'imperatore Claudio, Plinio si ritira a vita privata, preferendo astenersi da impegni e cariche pubbliche. Scrive di retorica e linguistica, un suo manuale il Dubius sermo, si occupava dei problemi dell'uso linguistico ed ebbe un grande successo. Quando Vespasiano sale al trono, Plinio torna alla ribalta con numerosi incarichi di rilievo, componendo anche un'altra opera storica, il libro A fine Aufide Bassi, che non ci è conservata. Verso il 77-78 si conclude anche la colossale fatica della Naturalis historia, unica opera di Plinio pervenutaci, e dedicata a Tito. Il 24 agosto del 79 entra in eruzione il Vesuvio. Plinio è poco lontano, al comando della flotta di stanza a Miseno, e si dirige sul luogo della tragedia per organizzare i soccorsi. Ma si spinge troppo vicino, e viene soffocato dai gas del vulcano. In tutia la cultura romana della prima età imperiale, è evidente uno sforzo di sistemazione del sapere, e si esprime soprattutto in opere di tipo manualistico. La Roma imperiale conosce una grande espansione dei ceti che noi chiameremmo tecnici e professionali: medici, architetti, agronomi ed amministratori. Crescenti capacità tecniche sono richieste anche ai politici. C'è, in tutti questi ceti, una crescente richiesta d'informazione e divulgazione scientifica, la quale si afferma anche sotto forma d' intrattenimento e consumo. I cosidetti 'paradossografi', sono colto che hanno conseguito i maggiori successi, con le loro raccolte di paradossi e mirabilia (cose stupefacenti). Essi si presentano come viaggiatori, e le loro opere contengono aneddoti, favole e notizie antropologiche. Nei frammenti del più famoso trai i paradossografi, il generale Licino Muciano,si parla di conchiglie, fontane prodigiose, elefanti ammaestrati e degli effetti che la luna ha sulle scimmie. La gigantesca opera erudita di Plinio è la realizzazione più compiuta di queste tendenze della cultura romana. Essa si configura come enciclopedia, come inventario del mondo La cultura romana aveva già conosciuto grandi e piccole opere di sintesi, ma nessuno di questi autori trattò di tutto lo scibile,nè esistevano opere greche in qualche modo paragonabili ad essa. Plinio leggeva di continuo, prendeva appunti e sosteneva di non aver mai letto un libro privo di qualche utilità,offrendoci addirittura la registrazione esatta del numero dei dati raccolti. Il risultato finale fu un'opera destinata ad organizzare tutte le conoscenze acquisite dall'uomo: la Naturalis historia, formata da 37 libri. Plinio dice di averla composta al fine di giovare l'umanità. La filantropia di Plinio ha radici stoiche, e la sua adesione a questa filosofia è più evidente nella cosmologia, che è il secondo libro dell'opera, in cui la natura viene vista come un tutt'uno organico senza discontinuità. Stilisticamente, Plinio è considerato da molti critici il peggior scrittore latino perchè la folle ampiezza dell'opera non era compatibile con un processo di regolare elaborazione stilistica. Inoltre il più grande enciclopedista romano Varrone , utilizza uno stile sciatto e inelegante. La Naturalis historia era troppo lunga per essere letta difilato e per essere usata nelle scuole, anche se gli indici del primo libro facilitano la consultazione. Per questo motivo l'opera ha subito delle manipolazione, come le riduzioni, che trattano di singoli argomenti e le antologie in cui si accentuava il gusto per il curioso, che però non impediranno la diffusione del testo originale . Essa continuò ad essere copiata tutto il Medioevo, accrescendo sempre di più la fama di Plinio. Oggi Plinio rappresenta per noi una fonte inestimabile per la storia dell'arte, del folclore, e in generale di tutte la 'cultura materiale'. Anche gli stessi difetti di Plinio, diventano preziosi, come la sua tendenza a salvare tutto il conoscibile che garantisce un inventario confuso, ma molto ampio della cultura antica.
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