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MICIONE fratello di Demea, padre adottivo di Eschino.
DEMEA fratello di Milione, padre naturale di Ctesifone e di Eschino.
SANNIONE lenone
ESCHINO figlio di Demea adottato da Micione.
GETA servo di Sostrata.
SOSTRATA madre di Panfila.
PANFILA meretrice amata da Eschino.
SIRO, DROMONE, PARMENONE E STEFANIONE servi di Micione.
Il vecchio Demea ha un fratello, Micione, e due figli, Ctesifone ed Eschino. Decide, poiché il fratello non ha moglie, di lasciargli in adozione suo figlio Eschino e di permettere a lui di accudirlo. Eschino cresce sotto la permissiva politica del padre adottivo, che lo lascia libero di agire senza, però, dimenticare di consigliarlo nelle peggiori situazioni. Ctesifone, invece, viene accudito con severità dal suo vero padre, che lo porta a lavorare i campi, ad essere metodico e rispettarne le leggi. La vicenda è strutturata sul rapimento di una flautista da parte di Eschino, che essendo generoso e sicuro di sé, intraprende un'azione di forza in favore del timido fratello, che si è innamorato della flautista rapita, Bacchide. Il figlio di Milione ama, però, una meretrice, Panfila, che durante una festa e dopo tanto vino fu stuprata e messa incinta da lui stesso. Egli decise prenderla in sposa, non solo per amore, ma anche per riparare al danno creato. La povera Panfila, venuta a conoscenza del rapimento, vede, quindi, profilarsi un futuro tutto nero per sé e il figlioletto che dovrà accudire senza la presenza di un padre. E' proprio quando Demea, appreso del misfatto, crede di aver accudito suo figlio meglio che Micione, che giunge quest'ultimo a riparare alla situazione creata dal figlio. Racconta a tutti le reali motivazioni del rapimento, riappacifica gli animi di Panfila ed Eschino e dà il suo consenso affinché si sposi con la meretrice. Per ciò che riguarda Demea, egli si sente sconfitto e tenta di cambiare atteggiamento, diventando meno duro e più permissivo, soprattutto nei confronti di suo figlio Ctesifone, cui permette di frequentare Bacchide. Ma la liberalità (quasi eccessiva) da lui sfoggiata in questo suo "nuovo corso" non è del tutto spontanea. Demea rinuncia, infatti, ai suoi principi per tattica, non per convinzione, e nel finale prova una vera ebbrezza nel vendicarsi del troppo popolare fratello; ingenuamente spalleggiato da Eschino, costringe Micione, sin qui scapolo convinto e incallito, a prendere in moglie la vecchia madre di Panfila, a regalare un vasto podere al povero amico Egione, che ha aiutato i protagonisti a scoprire la verità, a dare la libertà al servo Siro e alla sua compagna Frigia e ad anticipare, sotto forma di prestito, una somma iniziale per le prime necessità dei due nuovi liberti. Alla fine, Micione, alquanto frastornato, non può esimersi dal chiedergli ragione dell'improvviso mutamento. Demea risponde di aver voluto dimostrare che è facile riuscire simpatici ai giovani quanto ai figli praticando l'arrendevolezza e l'indulgenza; ma bisogna, comunque, fare molta attenzione agli insegnamenti che solo un padre può dare. TERENZIO
LARE DOMESTICO protettore del focolare domestico e della famiglia.
EUCLIONE padre di Fedria e vicino di Megadoro.
STAFILA serva di Euclione.
FEDRIA figlia di Euclione.
LICONIDE figlio di Eunomia e nipote di Megadoro.
CONGRIONE uno dei cuochi di Megadoro.
Le vicende narrate si svolgono ad Atene, e lo scenario ricorrente è la piazza sulla quale si affacciano le case di Euclione e Megadoro. La commedia è aperta dalla narrazione dal Lare Domestico a cui il nonno di Euclione aveva offerto un tesoro in monete d'oro. Fu per gratitudine verso Fedria, la figlia di Euclione, particolarmente devota, che il dio concesse proprio a lui di ritrovare il tesoro, seppellito in mezzo al focolare. Custodendolo, però, il vecchio Euclione finì per perdere la ragione, tormentato continuamente dall'idea che il tesoro potesse essere rubato. Nel frattempo Liconide, un giovane d'alto rango violentò Fedria durante una festa in onore della dea "Cerere".
Da qui le vicende iniziano ad intrecciarsi: infatti, Euclione maltratta chiunque sia, secondo lui, un potenziale ladro della sua pentola piena d'oro; fra questi la più tartassata è la sua serva, Stafila, che costretta a tenere in ordine la misera casa del padrone, viene anche sgridata e malmenata per ammonimento a non rubare il tesoro della pentola di cui lei non era, però, a conoscenza. Un giorno si presenta da lui il suo vicino di casa, il ricco Megadoro che, spinto dalla sorella Eunomia, vuole chiedere la mano di Fedria. Euclione, pensando che il vecchio fosse a conoscenza del suo segreto, riesce con risolutezza a far giurare a Megadoro di non pretendere alcuna dote dalla sua futura moglie. A queste condizioni il vecchio avaro accetta, preservando comunque qualche dubbio sulla lealtà di Megadoro, che per sdebitarsi del favore, accetta di accollarsi tutte le spese, ordinando ai suoi cuochi di preparare un banchetto degno di un re a casa di Euclione. Questi vedendosi la casa piena di estranei e temendo per il suo oro, decide di trovare un altro nascondiglio per la sua fortuna. Senza farsi notare da altre persone, porta la pentola al tempio della Buona Fede. Purtroppo per lui ad aspettarlo al tempio c'è il servo di Liconide, nipote di Megadoro, che involontariamente lo vede e decide rubargli l'oro. Euclione, però, si accorge del servo e decide, dopo aver avuto con lui un battibecco, di nasconderlo in mezzo ad un campo incolto; ma viene nuovamente pedinato dallo schiavo che, dopo aver atteso che Euclione se ne fosse andato, ruba la pignatta. Nel frattempo Liconide, avendo saputo delle imminenti nozze di Fedria e Megadoro, fa sapere allo zio della gravidanza di lei e con l'aiuto della madre Eunomia convince lo zio a lasciare a lui il privilegio di sposare Feria. Megadoro se pur a malincuore accetta e decide di festeggiare ad ogni modo il matrimonio per suo nipote e Feria quello stesso giorno.
Alla fine, dopo una seria di equivoci, Liconide otterrà la pentola dal servo in cambio della sua libertà e la restituirà ad Euclione. Qui il racconto s'interrompe, ma, molto probabilmente, l'oro della pentola verrà usato come dote di Feria.
PLAUTO
Entrambi i racconti sono simpatici e divertenti, ma a mio giudizio è stato molto più interessante la storia di Terenzio.
A parte il linguaggio, molto semplice in entrambi i casi, la commedia di Plauto è meno movimentata rispetto a quella di Terenzio; la vicenda si svolge intorno alle due case di Euclione e Megadoro e più che altro nella piazza sulla quale queste due abitazioni si affacciano. I dialoghi, pur essendo rapidi e formati da domanda e risposta senza molti dilungamenti, sono abbastanza statici per ciò che riguarda i personaggi che ne fanno parte; si svolgono, infatti, quasi sempre tra Megadoro ed Euclione, che è presente nella maggior parte delle scene della commedia.
La storia di Terenzio, invece, credo sia molto più dinamica; si svolge tra le case di Sostrata e Micione, ma si parla anche della campagna di Demea, non moto lontano dal paesino, del foro di Atene e allude ad un possibile itinerario che lo stesso Demea compie all'interno della città alla ricerca di suo fratello. Al racconto prendono parte molti più personaggi che, quindi, movimentano l'andamento della vicenda più che nel testo di Plauto.
Entrambi raccontano dell'amore di un uomo verso una donna che egli stesso ha violentato; questo amore è, però, meno visibile in Liconide che in Eschino; infatti, quest'ultimo, davanti alla casa de Panfila, si mette quasi a piangere, o almeno questa è la sensazione che ho percepito, mentre parla con il padre di un possibile matrimonio tra la sua amata e un parente.
Anche se penso che sia più veritiera la storia di Plauto sull'avarizia che quella di Terenzio sull'adozione di un nipote, la commedia di Terenzio, come precedentemente accennato, mi ha molto divertito, per l'ironia della situazione e per i continui fraintendimenti tra alcuni dei personaggi; è stato comico come Siro riusciva a prendere facilmente per i fondelli Demea e come questi al termine del racconto si sia preso gioco di suo fratello.
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