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'Della divinizazione' Cicerone
LIBRO PRIMO
>I 1> È un'opinione antica, risalente ai tempi leggendari e corroborata dal consenso del popolo romano e di tutte le genti, che vi siano uomini dotati di una sorta di divinazione - chiamata dai greci #mantiké# -, cioè capaci di presentire il futuro e di acquisirne la conoscenza. Capacità magnifica e salutare, se davvero esiste, grazie alla quale la natura di noi mortali si avvicinerebbe il più possibile alla potenza degli dèi! E come in altri casi noi romani ci esprimiamo molto meglio dei greci, così anche a questa straordinaria dote i nostri antenati dettero un nome tratto dalle divinità, mentre i greci, come spiega Platone, derivarono il nome corrispondente dalla follia. >2> Non conosco, in verità, alcun popolo, dai più civili e colti fino ai più efferati e barbari, che non creda che il futuro si manifesti con segni premonitori, e che esistano persone capaci di comprenderli e di spiegarli in anticipo. Incominciamo dalle testimonianze più antiche: per primi gli assiri, abitando vasti territori pianeggianti e potendo perciò vedere il cielo aperto fino all'orizzonte in ogni direzione, osservarono assiduamente i passaggi e i moti delle stelle, e, quando li ebbero registrati, tramandarono ai posteri quale presagio costituissero per ciascun individuo. Tra gli assiri, si ritiene che in particolare i caldèi - nome di una gente, non della loro arte - con l'incessante osservazione delle stelle abbiano fondato una scienza che permetteva di predire che cosa sarebbe accaduto a ciascuno e con quale destino ciascuno era nato. La stessa maestria si crede che abbiano raggiunto anche gli egiziani, nel corso di un tempo lunghissimo, durante secoli pressoché innumerevoli. Ancora: gli abitanti della Cilicia e della Pisidia e quelli, confinanti con loro, della Panfilia (genti, tutte, che io ho governato) credono che il volo e il canto degli uccelli servano a predire con la massima certezza il futuro. >3> E la Grecia inviò mai dei propri abitanti a fondar colonie in Eolia, in Ionia, in Asia, in Sicilia, in Italia senza aver prima consultato l'oracolo di Delfi o quello di Dodona o quello di Ammone? E quale guerra fu intrapresa dai greci senza aver consultato gli dèi?
>II> Né è stato praticato un solo genere di divinazione, sia per affari di Stato sia per prendere decisioni private. Anche a prescindere dagli altri popoli, il nostro a quanti tipi di divinazione è ricorso! Innanzi tutto il padre della nostra città, Romolo, non solo fondò Roma dopo aver preso gli auspicii, ma, a quanto si narra, fu egli stesso un ottimo àugure. Dopo di lui, gli altri re consultarono sempre gli àuguri; e dopo la cacciata dei re nessuna decisione riguardante lo Stato, in pace come in guerra, si prendeva senza essere prima ricorsi agli auspicii. E siccome credevano che la scienza degli arùspici avesse grande importanza sia nel cercar di ottenere buoni eventi e nel ricevere buoni consigli, sia nell'interpretare i prodìgi e nello stornare con espiazioni la loro forza malefica, attingevano tutta questa dottrina dall'Etruria, perché nessun genere di divinazione venisse trascurato. >4> E poiché le anime umane, quando non le governano la ragione e il sapere, sono eccitate spontaneamente in due modi, negli accessi di follìa e nei sogni, i nostri antenati, ritenendo che la divinazione manifestantesi nella follìa fosse interpretata soprattutto nei versi sibillini, istituirono un collegio di dieci interpreti di tali libri, scelti fra i cittadini. Riguardo a questo genere di divinazione, credettero spesso di dover dare ascolto anche alle profezie gridate in stato di esaltazione dagl'indovini e dai vati: per esempio, a quelle di Cornelio Culleolo nella guerra di Gneo Ottavio contro Cinna. Né il sommo consesso, il senato, trascurò i sogni, se per la loro importanza sembravano necessari a prender decisioni riguardanti lo Stato. Ancora ai nostri tempi Lucio Giulio, console insieme con Publio Rutilio, per decreto del senato restaurò il tempio di Giunone Sòspita in séguito a un sogno di Cecilia, figlia di Cecilio Baliarico.
>III 5> Gli antichi, a mio parere, credettero alla verità della divinazione più perché impressionati dall'avverarsi delle profezie che per argomentazioni razionali. Ma quanto ai filosofi, sono stati raccolti i loro sottili ragionamenti per dimostrare che la divinazione corrisponde al vero. Tra essi (mi rifaccio dai più antichi), Senofane di Colofone fu il solo che, pur credendo all'esistenza degli dèi, negò ogni fede nella divinazione. Tutti gli altri, eccettuato Epicuro che sulla natura degli dèi disse cose assurde, approvarono la divinazione, ma non nella stessa misura. Socrate e tutti i socratici, Zenone stoico e i suoi seguaci, si attennero alla dottrina dei filosofi più antichi, e dello stesso parere furono l'Accademia antica e i peripatetici; già prima di essi, Pitagora aveva attribuito alla divinazione grande autorità (egli stesso, anzi, si considerava un àugure), e Democrito, filosofo di grande valore, in molti passi delle sue opere dichiarò di credere ai presentimenti del futuro. Invece il peripatetico Dicearco considerò veritieri soltanto i sogni e le profezie gridate in accessi di follìa, negò fede a ogni altro genere di divinazione e il mio intimo amico Cratippo, che io considero pari ai peripatetici più grandi, egualmente credette a quei due tipi di profezie, ripudiò tutti gli altri. >6> Ma avendo gli stoici difeso in generale ogni divinazione (poiché Zenone nelle sue opere aveva, per così dire, sparso qua e là i semi di questa dottrina e Cleante li aveva sviluppati alquanto), ecco sopraggiungere un uomo d'ingegno acutissimo, Crisippo, il quale espose tutta la dottrina della divinazione in due libri, e poi in un altro libro trattò degli oracoli, in un altro ancora dei sogni; dopo di lui scrisse un libro sulla divinazione Diogene di Babilonia suo discepolo, due Antipatro, cinque il mio Posidonio. Ma dagli stoici si discostò il maggior pensatore di quella scuola, Panezio, maestro di Posidonio, scolaro di Antipatro; tuttavia egli non si spinse fino a negare la validità della divinazione, ma dichiarò di dubitarne. Ciò che fu lecito di fare fino a un certo punto a lui, stoico, contro l'aspro dissenso degli altri stoici, gli stoici non concederanno di farlo a noi fino in fondo? Tanto più che ciò di cui Panezio dubita, è considerato più chiaro della luce del sole dagli altri della stessa scuola. >7> Ma questo titolo di merito dell'Accademia ha la conferma del giudizio e della testimonianza di un filosofo di gran valore.
>IV> Io stesso mi sono chiesto quale giudizio si debba dare sulla divinazione, poiché Carneade aveva discusso a lungo contro gli stoici con acutezza e facondia, e ho temuto di dare il mio assenso con troppa facilità a una dottrina falsa o non sufficientemente approfondita. Mi sembra dunque che il meglio sia mettere a confronto più e più volte, con attenzione, gli argomenti a favore e contro, come ho fatto nei tre libri #Sulla natura degli dèi. #In effetti, se in ogni questione è disonorevole la precipitosità nell'aderire a una tesi e l'uscire dalla retta via, tanto più lo è dove si tratta di giudicare quanta autorità dobbiamo attribuire agli auspicii, ai riti, alla religione. C'è infatti il pericolo di cadere o in un'empia aberrazione, se trascuriamo queste cose, o in una superstizione da vecchierelle, se le accettiamo.
>V 8> Di questi problemi ho discusso spesso, ma con particolare impegno recentemente, quando mi trovavo con mio fratello Quinto nella mia villa di Tusculo. Eravamo saliti al Liceo per passeggiare (così son solito chiamare il piano superiore del ginnasio). Egli mi disse: «Ho letto per intero, poco tempo addietro, il terzo libro del tuo #Sulla natura degli dèi, #nel quale la polemica che tu fai pronunciare a Cotta ha scosso la mia opinione, non l'ha tuttavia completamente annientata.» «Giustissimo,» risposi; «in verità Cotta svolge la sua discussione in modo da confutare gli argomenti degli stoici, senza per questo distruggere la religione degli uomini.» E Quinto: «Cotta lo dichiara, anzi lo ripete più volte, allo scopo, credo, di non esser preso per un trasgressore dei principii comuni a tutti; ma a me sembra che, per troppo zelo di polemizzare contro gli stoici, finisca col negare completamente gli dèi. >9> Beninteso, non sento il bisogno di replicare al suo discorso: la religione è già stata difesa a sufficienza nel secondo libro da Lucilio Balbo, la cui trattazione tu stesso consideri più vicina alla verità, come dichiari alla fine del terzo libro. Ma c'è un argomento che è stato tralasciato in quei tre libri, perché, suppongo, hai ritenuto che fosse più opportuno indagarlo e discuterne a parte: la divinazione, cioè la predizione e il presentimento di quelle cose che si considerano effetto del caso. Se sei d'accordo, vediamo quale potere essa abbia e quale natura. Io sono di questa opinione: se sono veritieri quei generi di divinazione che ci sono stati tramandati e che pratichiamo, allora gli dèi esistono; e se, a loro volta, gli dèi esistono, vi sono persone capaci di predire il futuro.»
>VI 10> «Tu difendi la roccaforte degli stoici, Quinto,» io risposi, «se davvero c'è reciproca implicazione tra questi due enunciati: se c'è la divinazione, ci sono gli dèi, e se gli dèi ci sono, c'è la divinazione. Ma né l'uno né l'altro enunciato vien dato per vero con tanta facilità quanto tu credi. Da un lato, il futuro può essere indicato da eventi naturali, senza l'intervento della divinità; dall'altro, anche ammesso che gli dèi esistano, può darsi che essi non abbiano concesso al genere umano alcuna capacità di divinazione. » E Quinto: «Ma per me il fatto stesso che vi siano, a mio giudizio, generi di divinazione chiari ed evidenti costituisce una prova sufficiente dell'esistenza degli dèi e della loro provvidenza nei riguardi delle cose umane. Ti esporrò volentieri il mio parere su tutto ciò, a patto che tu sia libero da altre occupazioni e non abbia qualcosa da anteporre a questa nostra conversazione.» >11> «Per la filosofia,» risposi, «io ho sempre l'animo disposto, caro Quinto; e poiché adesso non ho nient'altro a cui possa dedicarmi volentieri, tanto più son desideroso di sentire il tuo parere sulla divinazione.»
«Non dirò nulla di nuovo,» incominciò Quinto, «né opinioni mie divergenti da quelle altrui: io seguo una dottrina antichissima e, per di più, confermata dal consenso di tutti i popoli e di tutte le genti. Due sono i generi di divinazione, l'uno che riguarda l'arte, l'altro la natura. >12> Quale popolo c'è, d'altronde, o quale città, che non rimanga impressionata dalla predizione degli indagatori delle viscere di animali o degli interpreti dei prodìgi e dei lampi o degli àuguri o degli astrologi o di coloro che estraggono le 'sorti' (questi che ho enumerato si riferiscono all'arte), ovvero dai presagi dei sogni e delle grida profetiche (questi due si considerano naturali)? Di tutto ciò io credo che vadano indagati i risultati piuttosto che le cause. C'è, difatti, una dote naturale che, o dopo lunga osservazione degl'indizi profetici, o per qualche istinto e ispirazione di origine divina, preannuncia il futuro.
>VII> La smetta perciò Carneade di incalzarci (come faceva anche Panezio) chiedendo se è stato Giove a ordinare alla cornacchia di gracidare da sinistra, al corvo da destra. Questi fenomeni sono stati osservati da tempo infinito, si è tenuto conto di ciò che accadeva dopo che si erano manifestati certi segni. Del resto, non c'è nulla che, nel lungo scorrere del tempo, non possa essere chiarito e messo in evidenza mediante il ricordo dei fatti e la consultazione dei documenti scritti. >13> È lecito constatare con lieta meraviglia quali specie di erbe e di radici atte a curare le morsicature delle bestie, le malattie degli occhi, le ferite, siano state scoperte dai medici, senza che la ragione abbia mai spiegato il motivo della loro efficacia: eppure la loro utilità ha dato credito all'arte medica e allo scopritore. Osserviamo un po' quei fenomeni che, pur appartenendo a un genere diverso, sono tuttavia alquanto affini alla divinazione: «E anche il mare gonfio indica spesso l'appressarsi dei venti, quando all'improvviso e fin dal profondo si solleva, e gli scogli biancheggianti, battuti dalla spuma nivea dell'acqua salata, gareggiano con Nettuno nel mandar lugubri voci, o quando un fitto stridore, proveniente dall'alta vetta d'un monte, si accresce, ripercosso dalla barriera degli scogli.»
>VIII> Di questi presagi sono pieni i tuoi #Prognostici#. Ebbene, chi potrebbe scoprire le cause dei presagi? Vero è che lo ha tentato, a quel che vedo, lo stoico Boeto, il quale riuscì in parte a spiegare i fenomeni marini e celesti. >14> Ma chi saprebbe dire con qualche probabilità perché avvengano questi altri fatti?
'Del pari la grigia fòlaga, fuggendo dal gorgo profondo del mare, col suo grido annunzia che incombono orribili tempeste, ed effonde dalla tremula gola alte voci. Spesso anche l'acrèdula fa sgorgare dal petto una nenia tristissima e persiste nel suo canto mattutino: persiste nel suo canto e lancia dalla bocca continui lamenti, appena l'aurora fa cadere la fredda rugiada. E non di rado la nera cornacchia, scorrazzando per la spiaggia, immerge la testa e fa spruzzare i flutti sul collo.'
>IX 15> Vediamo che questi indizi non mentono quasi mai, eppure non vediamo perché ciò accada.
'Anche voi, nutrite di acqua dolce, vedete i segni della tempesta, quando vi apprestate a lanciare vani richiami a gran voce, e con stridule grida turbate le fonti e gli stagni.'
Chi potrebbe immaginare che le ranocchie prevedano la tempesta? Ma è insito nelle ranocchie un potere di presagire qualcosa: un potere difficilmente negabile in quanto tale, anche se non ben comprensibile alla ragione umana.
'E i bovi che incedono lenti, con lo sguardo rivolto al cielo luminoso, aspirano dalle narici l'umido vapore dell'aria.'
Non domando il perché, dal momento che constato che il presagio si avvera.
'Inoltre, sempre verde e sempre carico di bacche, il lentisco, che suole arricchirsi di un triplice frutto, tre volte effondendo la sua messe preannuncia i tre tempi dell'aratura.'
>16> Nemmeno questo chiedo, perché quel solo albero fiorisca tre volte o perché con la fioritura indichi che è tempo di arare; mi accontento di sapere che cosa accada, pur ignorando perché accada. In difesa di ogni genere di divinazione, dunque, darò la stessa risposta che ho dato per quei presagi che ho menzionato.
>X> Quale utilità ha la radice del convolvolo come purgante, quale efficacia ha l'aristolochia contro il morso dei serpenti? (questa pianta si chiama così dal nome del suo scopritore, il quale la trovò in seguito a un sogno); io vedo che ciò è possibile, e mi basta; perché sia possibile, non so. Allo stesso modo non sono in grado di capir bene a quale legge razionale obbediscano i segni annunciatori dei venti e delle piogge, di cui ho parlato prima; ma riconosco, so, constato il loro potere e il risultato che ne consegue. Parimenti, so che significato abbia la fenditura nelle viscere degli animali sacrificati, o la fibra; la causa di questi presagi, non la so. E in tutta la nostra vita ci troviamo in questa condizione: poiché quasi tutti credono agli indizi delle viscere. E possiamo forse dubitare del valore profetico dei fulmini? Fra i tanti esempi di tali miracoli, questo è soprattutto degno di ricordo: l'immagine di Summano, che allora era di argilla, posta in cima al tempio di Giove Ottimo Massimo, fu colpita da un fulmine, né si riusciva a ritrovare in alcun luogo la testa della statua. Gli arùspici dissero che era caduta nel Tevere, e fu trovata nel punto che da essi era stato indicato.
>XI 17> Ma di quale autorità, di quale testimone migliore di te potrei servirmi? Ricordo anche a memoria - e li ricordo con gioia - i versi che la musa Urania dice nel secondo libro del tuo #Consolato#:
'Innanzi tutto Giove, infiammato dal fuoco etereo, ruota e rischiara con la sua luce tutto il mondo, e mira a penetrare il cielo e la terra con la sua mente divina che, chiusa e celata nelle cavità dell'etere eterno, preserva fin nell'intimo i sensi e la vita degli uomini. E se vuoi conoscere i movimenti e i percorsi vaganti delle stelle che si trovano nella zona delle costellazioni, e che, a quanto dicono ingannevolmente i greci e secondo il nome che essi han loro attribuito, vanno errando, ma in realtà si muovono con velocità regolare entro un'orbita determinata, vedrai che tutto ciò ha il contrassegno della mente divina. >18> Giacché, in primo luogo, sotto il tuo consolato, quando compisti i riti lustrali sulle alture nevose del monte Albano e con copioso latte onorasti le Ferie latine, tu stesso vedesti movimenti alati di astri e congiunzioni male auguranti di stelle che splendevano ardendo; vedesti le comete tremolanti di splendente fuoco. E pensasti a grandi sconvolgimenti in una strage notturna, poiché le Ferie latine erano cadute press'a poco in quel tempo nefasto in cui la luna, addensando la sua luce, aveva nascosto il suo volto splendente e tutt'a un tratto era scomparsa nella notte cosparsa di stelle. E che dire della fiaccola di Febo, annunziatrice di triste guerra, che volava con ardore di fuoco a guisa di immane colonna, dirigendosi verso la parte dove il cielo precipita, verso il tramonto? O quando un cittadino, colpito dal terribile fulmine a ciel sereno, abbandonò la luce della vita, o quando la terra tremò col corpo gravido di vapori? E già nelle ore della notte si vedevano vari spettri terribili, e annunziavano guerra e sommosse, e gl'indovini qua e là effondevano dal petto invasato molte profezie che minacciavano tristi eventi; >19> e quei fatti che, dopo lungo trascorrere di tempo alfine accaddero, il padre degli dèi, egli stesso, li preannunziava al cielo e alla terra, ripetendo l'annunzio con segni continui ed evidenti.
>XII> Ed ecco che tutti gli eventi che un tempo, sotto il consolato di Torquato e di Cotta, aveva profetato l'arùspice lidio della gente etrusca, tutti insieme, stabiliti dal fato, li porta a termine l'anno del tuo consolato. Ché il Padre altitonante, ergendosi sull'Olimpo stellato, colpì col fulmine il colle una volta a lui caro e il suo tempio, e appiccò il fuoco alla sua dimora sul Campidoglio. Allora l'antica e venerata effigie bronzea di Natta si abbatté al suolo, e scomparvero le tavole delle leggi di vetusta, sacra autorità, e la vampa del fulmine annientò le immagini degli dèi. >20> Qui c'era la silvestre nutrice marzia della gente romana, che con le turgide mammelle alimentava di rugiada vitale i piccoli nati dalla stirpe di Marte: essa allora, colpita insieme coi fanciulli dal fulmine fiammeggiante, cadde e, divelta dalla base, vi lasciò l'impronta dei piedi. Chi in quel tempo, leggendo e rileggendo gli scritti e i documenti dell'arte divinatoria, non ricavava dalle carte etrusche lugubri presagi? Tutti avvertivano che una grande sciagura per tutta la città, un flagello stava per scatenarsi, per opera di una famiglia nobile; e annunziavano anche, con parole sempre ripetute, la rovina delle leggi e ordinavano soprattutto di sottrarre dalle fiamme i templi degli dèi e la città, e di guardarsi da una strage e da un massacro orribile. Dicevano che queste cose erano immutabilmente fissate da un tremendo destino, a meno che, prima, una sacra immagine di Giove, fatta con arte, collocata su un'alta colonna, fosse rivolta verso la chiara luce d'oriente. Soltanto allora il popolo e il santo senato avrebbero potuto scoprire queste mene occulte, se la statua di Giove, rivolta verso il sorgere del sole, avesse potuto di lì vedere le sedi dei senatori e del popolo. >21> Questa effigie, eseguita con gran ritardo e attesa per molto tempo, finalmente sotto il tuo consolato fu collocata sulla sua alta sede; e in uno stesso momento, stabilito e fissato dal destino, Giove faceva risplendere il suo scettro in cima alla colonna, e la rovina della patria, preparata col ferro e col fuoco, veniva rivelata dalle parole degli Allobrogi ai senatori e al popolo.
>XIII> A ragione, dunque, gli antichi, dei quali voi custodite gli insegnamenti, e che con moderazione e virtù governavano popoli e città, - a ragione anche i vostri compatrioti, la cui religiosità e il cui ossequio ai numi superò tutti e di gran lunga li vinse la loro sapienza, onorarono più che mai gli dèi insigni per potenza. Questi insegnamenti, d'altronde, li intesero a fondo, con indagine sagace, coloro che lieti trascorsero in nobili studi il tempo libero da fatiche quotidiane, 22 e che, nell'ombrosa Accademia e nel luminoso Liceo, diffusero le splendide dottrine del loro ingegno fecondo. Strappato ad essi fin dal primo fiorire della giovinezza, tu fosti collocato dalla patria in mezzo al faticoso mondo delle virtù attive. E tuttavia, dando un po' di tregua alle ansiose preoccupazioni della vita civile, hai consacrato a quegli studi e a noi il tempo che la patria ti lascia libero.'
Tu dunque, che hai fatto quel che hai fatto e hai scritto con la massima esattezza i versi che or ora ho recitato, hai il coraggio di opporti a ciò che io dico sulla divinazione? >23> Perché stai a domandare, Carneade, per qual motivo queste cose avvengano o con quale arte possano essere comprese? Io confesso di non saperlo, ma affermo che tu stesso devi riconoscere che avvengono. 'Per caso', dici tu. Ma davvero può accadere per caso ciò che ha in sé tutti i caratteri della verità? Quattro dadi, lanciati a caso, dànno il 'colpo di Venere'; ma se lancerai quattrocento dadi, e otterrai il colpo di Venere per tutte e cento le volte, crederai che ciò sia dovuto al caso? Dei colori schizzati a caso su una tavola possono produrre i lineamenti di un volto; ma crederai che schizzando colori a caso si possa ottenere la bellezza della Venere di Coo? Se una scrofa col suo grifo avrà tracciato sul terreno la lettera A, la crederai per questo capace di scrivere l'#Andromaca #di Ennio? Carneade immaginava che nelle cave di pietra di Chio, in seguito alla spaccatura di un macigno, fosse venuta in luce per caso la testa di un piccolo Pan: sono disposto a credere che si trattasse di una qualche forma somigliante, ma certamente non tale da potere essere giudicata opera di Scopa. Le cose, non c'è dubbio, stanno così: il caso non può mai imitare perfettamente la verità.
>XIV 24> 'Ma,' si obietta, 'talvolta cose che sono state predette non accadono.' Rispondo: 'Quale arte è immune da questa eventualità?' Mi riferisco, s'intende, a quelle arti che si basano su congetture e sono opinabili. Forse non si deve considerare come un'arte la medicina? Eppure in molti casi cade in errore. E quelli che guidano le navi, non sbagliano mai? Non accadde forse che le truppe achee, con tanti comandanti di navi, ripartissero da Ilio 'guardando, lieti per la partenza, i pesci guizzanti in mare,' come dice Pacuvio, 'né venissero presi da sazietà di godersi lo spettacolo?'.
Ma 'frattanto, quando il sole già sta per calare, il mare incomincia ad agitarsi, il buio si raddoppia, il nero della notte e quello dei nembi acciecano lo sguardo'
Dunque il naufragio di tanti famosissimi condottieri e sovrani ha tolto ogni credito all'arte di pilotare le navi? Oppure l'arte militare non val niente, per il fatto che poco tempo fa un comandante supremo è fuggito lasciando l'esercito sconfitto? O la capacità e l'avvedutezza nel governare lo Stato non esistono, perché in molti errori incorse Gneo Pompeo, in parecchi Marco Catone, in qualcuno anche tu? Uguale è il caso dei responsi degli arùspici, e ogni genere di divinazione è opinabile: si basano su congetture, oltre le quali non è possibile spingersi. >25> Può darsi che talvolta la congettura sia ingannevole, ma spessissimo conduce alla verità: il suo inizio, difatti, si perde nella notte dei tempi, e siccome innumerevoli volte, dopo che si erano manifestati gli stessi presagi, accadevano quasi sempre gli stessi eventi, si è costituita l'arte divinatoria con l'osservare e col registrare più volte le stesse cose.
>XV> Quale valore, poi, hanno i vostri auspicii! 1 quali, invero, attualmente vengono ignorati dagli àuguri romani (non te ne avere a male se lo dico), mentre sono ancora in vigore presso gli abitanti della Cilicia, della Panfilia, della Pisidia, della Licia. >26> Non ho bisogno di rammentare il nostro ospite, il re Deiòtaro, uomo insigne ed eccellente, il quale non fa mai nulla se non dopo aver preso gli auspicii. Una volta egli aveva progettato e iniziato un viaggio. Ammonito dal volo sfavorevole di un'aquila, tornò indietro; ebbene, la stanza nella quale avrebbe sostato se avesse proseguito il suo percorso, crollò la notte seguente. >27> Da lui stesso ho sentito dire che più volte ritornò sui suoi passi dopo aver già compiuto un percorso di molti giorni. E di Deiòtaro è particolarmente splendido ciò che ora dirò. Dopo essere stato punito da Cesare con la perdita della tetrarchia, del regno, di un'ingente somma di denaro, continua a dire che non si lagna di quegli auspicii che gli si rivelarono favorevoli quando partì per unirsi all'esercito di Pompeo: ché le sue armi difesero l'autorità del senato, la libertà del popolo romano, la dignità del suo comando, e perciò gli uccelli per ammonimento dei quali egli seguì la via del dovere e della lealtà gli dettero un buon consiglio: la sua gloria doveva valere di più che i suoi possessi. Lui sì che, a mio parere, ha seguito con spirito di verità l'arte augurale! I nostri magistrati, invece, praticano auspicii forzati: è inevitabile che, offerto il cibo, un pezzetto di esso cada giù dalla bocca del pollo mentre sta mangiando. >28> Ma quanto alla prescrizione dei vostri libri, che è favorevole l'auspicio se dalla bocca dell'uccello cade a terra un pezzo del cibo, voi considerate particolarmente favorevole anche questo auspicio che ho chiamato forzato. Perciò molti augurii, molti auspicii sono stati del tutto obliati o trascurati per negligenza del collegio: di ciò si duole Catone, il nostro saggio antico.
>XVI> Nemmeno quanto agli affari privati, se avevano qualche importanza, si soleva fare alcunché, nei tempi andati, senza ricorrere agli auspicii. Tuttora ciò è indicato dagli 'àuspici delle nozze', i quali, andato in disuso il loro còmpito, mantengono solo il nome. Come ora all'osservazione delle viscere (sebbene anche questa pratica sia alquanto meno in vigore che un tempo), così allora eran soliti, in cose importanti, chiedere consiglio al volo degli uccelli. Perciò, se non ricerchiamo con cura i presagi favorevoli, andiamo soggetti a quelli malauguranti e infausti. >29> Per esempio Publio Claudio, figlio di Appio il cieco, e il suo collega Lucio Giunio persero ingenti flotte, perché avevano preso il mare con auspicii contrari. Parimenti ciò accadde ad Agamennone, il quale, poiché gli Achei avevano incominciato 'a schiamazzare tra loro e a denigrare apertamente l'arte degli scrutatori di viscere, ordina di salpare col plauso delle truppe e con l'ostilità dei presagi.'
Ma a che scopo rievocare fatti remoti? Che cosa sia accaduto a Marco Crasso lo sappiamo, per avere spregiato il divieto dei presagi infausti. In questa circostanza Appio, tuo collega e bravo àugure (come spesso mi hai detto), con scarsa cognizione di causa, in qualità di censore, inflisse un biasimo a Gaio Ateio, ottimo uomo ed egregio cittadino, perché (questa la motivazione) aveva annunziato auspicii falsi. Sia pure, ammettiamo che quello fosse il suo dovere di censore, se giudicava che Ateio avesse trasgredito quel divieto; ma non fece il suo dovere di àugure, dal momento che aggiunse per iscritto che per quella causa il popolo romano aveva subìto una gravissima sciagura. Se, infatti, fu quella la causa della sciagura, la colpa non va attribuita a chi la predisse, ma a chi non obbedì alla dissuasione. Che la dissuasione fosse giusta, come disse Appio, àugure e censore nello stesso tempo, fu dimostrato dagli eventi; se fosse stata falsa, Appio non avrebbe saputo addurre alcuna altra causa della sciagura. E in realtà le predizioni infauste, come gli altri auspicii, presagi, segni, non ci dicono le cause per cui qualcosa avverrà, ma ci annunziano che qualcosa di male avverrà se non correrai ai ripari. >30> La premonizione di Ateio, dunque, non creò la causa della sventura, ma, mostrando il segno infausto, avvertì Crasso di che cosa sarebbe avvenuto se egli non avesse rinunciato ai suoi progetti. Dunque o quell'ammonimento non valeva niente, o, se valeva (e di ciò Appio era persuaso), la colpa doveva essere non di chi aveva ammonito, ma di chi non aveva obbedito.
XVII E quel vostro lituo, che è la più cospicua insegna degli àuguri, donde vi è stato tramandato? Fu con esso che Romolo tracciò le regioni del cielo quando fondò la città. Questo lituo di Romolo - cioè un bastoncino curvo e leggermente piegato nella parte superiore, che derivò questo suo nome dalla somiglianza col lituo, tromba di guerra - era conservato nella curia dei Salii, sul Palatino, e, quando essa fu distrutta dalle fiamme, fu ritrovato intatto. >31> E ancora: c'è qualche scrittore antico che non racconti come, molti anni dopo Romolo, sotto il regno di Tarquinio Prisco, sia stata fatta da Atto Navio una ripartizione delle regioni celesti mediante il lituo? Costui era un povero ragazzo che menava al pascolo le scrofe. Si dice che, avendone perduta una, fece voto a un dio che, se l'avesse ritrovata, gli avrebbe offerto la più bella uva di una vigna che c'era lì. Trovata la scrofa, dicono, sostò in mezzo alla vigna, rivolto verso sud, e divise la vigna in quattro parti. Tre parti ricevettero dagli uccelli segni sfavorevoli; avendo allora distribuita in regioni la quarta parte restante, trovò (lo tramandano gli scrittori) dell'uva di meravigliosa grandezza. La cosa si seppe: tutto il vicinato si rivolgeva a lui per chieder consigli; aveva acquistato grande rinomanza e prestigio. >32> Avvenne quindi che il re Tarquinio Prisco lo mandasse a chiamare. Desideroso di mettere alla prova le sue doti di àugure, il re gli disse che stava pensando a una cosa: gli chiese se questa cosa si poteva fare. Atto, dopo avere compiuto il rito augurale, gli rispose che era possibile. Tarquinio allora disse che aveva pensato alla possibilità di tagliare una cote con un rasoio, e ordinò ad Atto di provare a far ciò. Ed ecco che una pietra, portata nel comizio, alla presenza del re e del popolo fu spaccata con un rasoio. In seguito a ciò Tarquinio assunse Atto Navio come àugure, e il popolo andava a chiedergli consiglio per il da farsi. >33> Quanto a quella pietra e al rasoio, furono deposti in una fossa scavata nel comizio, e tutt'intorno fu innalzato un parapetto: così si narra.
Neghiamo pure tutto ciò, bruciamo gli annali, diciamo che son tutte finzioni, dichiariamo che tutto è possibile tranne che gli dèi si curino delle cose umane. Ma ciò che tu stesso hai scritto quanto a Tiberio Gracco non conferma la dottrina degli àuguri e degli arùspici? Egli per sbadataggine aveva posto la tenda augurale violando le leggi divine, perché aveva attraversato il pomerio senza prendere gli auspicii; e presiedette i comizi per eleggere i nuovi consoli. Che cosa accadde allora, è noto e tu stesso lo hai tramandato nella tua opera. Ma Tiberio Gracco, àugure egli stesso, avvalorò l'autorità degli auspicii confessando il proprio errore, e ne risultò molto accresciuto il prestigio della dottrina degli arùspici, i quali, fatti venire in senato poco dopo che si erano iniziati i comizi, dichiararono che colui che aveva presieduto i comizi non aveva agito secondo le regole.
>XVIII 34> Io sono dunque d'accordo con quelli che hanno sostenuto l'esistenza di due generi di divinazione, l'uno partecipe dell'arte, l'altro estraneo all'arte. Si attengono all'arte coloro che interpretano per congettura i fatti nuovi, conoscono quelli vecchi per le osservazioni del passato. Sono invece privi d'arte coloro che presagiscono il futuro non con ragionamenti e congetture, in base ai segni osservati e registrati, ma in seguito a non so quale eccitazione psichica, per un moto dell'animo libero e sciolto dal raziocinio: ciò accade spesso in sogno, talvolta a quelli che gridano profezie in stato di esaltazione, come Bacide in Beozia, come Epimenide a Creta, come la Sibilla eritrea. Di questo genere sono da considerare anche i responsi degli oracoli, non quelli che vengono dati mediante sorti 'pareggiate', ma quelli che vengono pronunciati per ispirazione e afflato divino. Tuttavia nemmeno le sorti sono da disprezzare, se sono anche autorevoli per la loro antichità, come quelle che, a quanto ci assicurano, sono state estratte dal terreno; se poi, tratte a caso, accade che formino un discorso di senso compiuto, credo che ciò possa attribuirsi a intervento divino. Gli interpreti di tali sorti, come i filologi interpreti dei poeti, sembrano, più di tutti, vicini alla natura di quegli dèi che essi interpretano. >35> Che malizia è questa, dunque, di volere infirmare con cavilli cose che attingono forza dalla loro antichità? 'Non trovo una causa di questi fatti,' ripetono. Probabilmente la causa è ascosa, sepolta nell'oscurità della Natura: ché la divinità non ha voluto che io sapessi queste cose, ma soltanto che me ne servissi. Dunque me ne servirò, e non mi lascerò indurre a credere che, quanto ai presagi delle viscere, l'Etruria tutta sragioni, né che quel popolo si sbagli riguardo ai fulmini, né che interpreti falsamente i prodigi, poiché tante volte i rumori e i boati sotterranei e i terremoti hanno predetto al nostro Stato e alle altre genti molti fatti gravi e veri. >36> E ancora: questo famoso parto di una muta, che viene deriso, non è stato dichiarato dagli arùspici eccezionale parto di sventure, proprio perché in un organo genitale sterile si era formato un feto? E Tiberio Gracco figlio di Publio, che fu due volte console e censore e àugure di grande autorità e uomo saggio e cittadino esemplare, non chiamò forse gli arùspici perché aveva trovato in casa sua una coppia di serpenti? Ce ne ha lasciato notizia scritta suo figlio Gaio Gracco. Gli arùspici risposero che, se avesse lasciato andar via il serpente maschio, entro breve tempo sarebbe morta sua moglie; se la femmina, sarebbe morto lui, Considerò più giusto morire lui, già arrivato vicino al termine della vita, piuttosto che sua moglie, figlia ancor giovane di Publio Scipione Africano: lasciò andar via il serpente femmina, e pochi giorni dopo morì.
>XIX> Deridiamo pure gli arùspici, chiamiamoli ciurmadori e sciocchi, spregiamo la loro dottrina che pur fu dimostrata vera da un uomo di somma sapienza e da ciò che in effetti gli accadde. Condanniamo anche i Babilonesi e coloro che, osservando gli astri dall'alto del Caucaso, coi loro calcoli indagano i movimenti delle stelle. Condanniamoli, dico, per stoltezza o leggerezza o malafede, essi che, per loro stessa dichiarazione, conservano le registrazioni scritte riguardanti 470.000 anni, e sentenziamo che mentiscono e non temono il giudizio che su di loro pronunceranno i secoli futuri. >37> Ma, si dirà, i barbari sono infidi e mentitori. È intessuta di menzogna anche la storia dei greci? Chi non sa - parlo della divinazione naturale - i responsi dati da Apollo delfico a Creso, e poi ancora agli ateniesi, agli spartani, ai tegeati, agli argivi, ai corinzi? Crisippo raccolse innumerevoli oracoli, ciascuno con copiose testimonianze e documenti. Poiché li conosci, non sto a enumerarli. Questa cosa sola voglio asserire: l'oracolo di Delfi non sarebbe mai stato così frequentato e così famoso, né arricchito di così splendidi doni di tutti i popoli e i re, se in ogni tempo non si fosse sperimentata la veridicità dei suoi responsi. >38> 'Ma,' dicono, 'già da tempo non si comporta più così.' Ebbene, come adesso gode minore fama perché la verità delle sue profezie è meno insigne, così allora non avrebbe raggiunto una fama così grande se non in virtù della sua somma veridicità. Può darsi, del resto, che quella potenza, emanante dalla terra, che investiva di afflato divino la mente della sacerdotessa, si sia affievolita col passare del tempo, allo stesso modo in cui vediamo che certi fiumi sono svaporati e si sono inariditi, o hanno cambiato direzione e si sono avviati per un itinerario diverso dal precedente. Scegli pure l'ipotesi che preferisci (poiché si tratta di una questione molto incerta), a condizione che rimanga fermo ciò che non può esser negato se non vogliamo sovvertire tutta la storia: per molti secoli quell'oracolo fu verace.
>XX 39> Ma lasciamo stare gli oracoli, veniamo ai sogni. Nel trattare di essi Crisippo, raccogliendo molti sogni anche di scarsa importanza, segue lo stesso sistema a cui si è attenuto poi Antipatro, cioè indaga quelli che, spiegati mediante l'interpretazione di Antifonte, rivelano, certo, l'acume dell'Interprete; ma meglio sarebbe stato ricorrere a esempi di maggior rilievo. La madre di Dionisio, di quello che fu tiranno di Siracusa, a quanto si legge in Filisto, uomo dotto e accurato e vissuto in quegli stessi tempi, mentre era appunto incinta di Dionisio sognò di aver partorito un satiretto. Gli interpreti dei prodigi, che allora in Sicilia si chiamavano Galeoti, le dissero (ce lo testimonia ancora Filisto) che il figlio che essa stava per dare alla luce sarebbe stato l'uomo più famoso della Grecia e avrebbe avuto una fortuna costante >40> Vuoi che ti rammenti le leggende narrate dai poeti nostri o dai greci? Anche in Ennio quella famosa vestale narra:
'E appena la vecchia, frettolosa, ebbe portato una lucerna con mani tremanti, essa così dice piangendo, svegliatasi spaurita dal sonno: 'O figlia di Euridice, che nostro padre amò, io sento tutto il mio corpo privo di forza e di spirito vitale. Mi pareva, in sogno, che un uomo bello mi rapisse portandomi per ameni filari di salici e per rive e per luoghi mai visti. E così, poi, sola mi sembrava di vagare, sorella mia cara, e di avanzare a passi incerti e di cercare te, ma di non poter raggiungerti nella mia mente: nessun sentiero guidava sicuro il mio piede. >41> Poco dopo, ecco, mi sembra che il padre mi rivolga queste parole: - O figlia, dapprima dovrai sopportare affanni, poi la tua fortuna riemergerà da un fiume -. Come ebbe detto ciò, sorella mia, il padre scomparve d'un tratto, né si mostrò al mio sguardo benché nel mio cuore lo desiderassi: a nulla valse che più volte io tendessi le mani all'azzurra volta del cielo e lo invocassi con tenere parole. Or ora il sonno mi ha abbandonato lasciando il mio cuore afflitto.''
>XXI 42> Anche se tutto ciò è invenzione poetica, non si discosta da tanti altri tipi di sogni realmente accaduti. Ammettiamo pure che sia inventato quel sogno dal quale Priamo rimase turbato, perché 'la madre, Ecuba, mentre era incinta, sognò che partoriva una fiaccola ardente. In seguito a ciò il padre, il re Priamo in persona, preso da timore in cuor suo per questo sogno, afflitto da ansie che si effondevano in sospiri, compiva sacrifici di vittime belanti. Quindi, implorando pace, chiede un responso, scongiura Apollo di fargli sapere a che cosa accennino presagi di sogni così gravi. Allora con voce divina Apollo rispose dall'oracolo: il bambino che per primo nascesse tra breve a Priamo, si guardasse bene dall'allevarlo: sarebbe stato rovina a Troia, sciagura a Pergamo.'
>43> Ammettiamo pure, ripeto, che queste siano leggende immaginarie, e a esse aggiungiamo anche il sogno di Enea, che, come ben sai, negli #Annali #scritti in greco da Fabio Pittore è narrato in modo che tutto ciò che fu poi compiuto da Enea e che gli accadde corrisponda esattamente alle cose a lui apparse mentre era immerso nel sonno.
>XXII> Ma vediamo eventi meno remoti. Che dire del sogno di Tarquinio il Superbo, che egli stesso narra nel #Bruto# di Accio?
>44> 'Dopo che, al cadere della notte, ebbi abbandonato il corpo al sonno, rilasciando nel sopore le membra stanche, mi apparve in sogno un pastore che spingeva verso di me un gregge lanoso di straordinaria bellezza; mi pareva che da quel gregge venissero scelti due arieti consanguinei e che io immolassi il più imponente dei due; poi il fratello dell'ucciso puntava le corna, si avventava per colpirmi e con quell'urto mi abbatteva. Io allora, prostrato a terra, gravemente ferito, alzavo supino gli occhi al cielo e vedevo un fatto immenso e straordinario: il disco fiammeggiante del sole, effondendo i suoi raggi, si dileguava verso destra invertendo il suo cammino nel cielo.'
>45> Ebbene, vediamo quale fu l'interpretazione di quel sogno da parte degl'indovini:
'O re, le cose che nella vita gli uomini sogliono fare, le cose che pensano, curano, vedono, e che da svegli compiono e alle quali s'affaccendano, non c'è da meravigliarsi se accadono a qualcuno in sogno; ma in una circostanza così straordinaria non senza motivo le visioni si presentano. Sta dunque attento, che colui che tu stimi sciocco al pari di una bestia, non abbia una mente munita di ingegno, al di sopra del gregge, e non ti sbalzi dal trono. Ché quello che ti è apparso riguardo al sole, dimostra che avverrà per il popolo un mutamento assai vicino nel tempo. Possa tutto ciò volgersi in bene per il popolo! Il fatto che l'astro più potente abbia intrapreso il suo corso verso destra da sinistra, è un faustissimo augurio che lo Stato romano sarà eccelso.'
>XXIII 46> Suvvia, torniamo ora a fatti di paesi stranieri. Eraclìde Pontico, uomo dotto, uditore e scolaro di Platone, scrive che alla madre di Falàride sembrò di vedere in sogno le immagini degli dèi che essa stessa aveva consacrato nella sua casa. Una di queste, l'immagine di Mercurio, sembrava versasse del sangue dalla coppa che teneva con la mano destra; appena aveva toccato terra, il sangue ribolliva, sì che tutta la casa era un lago di sangue. Questo sogno della madre fu confermato dall'efferata crudeltà del figlio. C'è bisogno che io citi dai #Libri persiani #di Dinone la profezia che i maghi rivelarono a Ciro, quel famoso antico re? Scrive Dinone che, in sogno, parve a Ciro che il sole gli si posasse ai piedi; tre volte Ciro cercò di toccarlo con le mani, ma invano: il sole, girando su se stesso, gli sfuggiva e si allontanava. I maghi - venerati in Persia come una stirpe di sapienti e di dotti - da questo triplice tentativo di afferrare il sole trassero la profezia che Ciro avrebbe regnato per trent'anni. E così avvenne: giunse fino all'età di settant'anni, e il suo regno incominciò quando ne aveva quaranta.
>47> C'è senza dubbio anche nei popoli barbari una capacità di presentimento e di divinazione. L'indiano Callano, recandosi alla morte, nell'atto di salire sul rogo ardente, esclamò: 'Oh, splendida separazione dalla vita! Come accadde a Ercole, dopo che sarà incenerito questo corpo mortale, la mia anima ascenderà al regno della luce.' E siccome Alessandro gli chiese di dire se desiderava qualcosa prima di morire, egli rispose: 'Grazie: fra poco ti rivedrò.' E così avvenne: pochi giorni dopo Alessandro morì a Babilonia. Mi sto allontanando per un poco dai sogni, ai quali presto ritornerò. Si sa che, nella stessa notte in cui fu distrutto dalle fiamme il tempio di Diana Efesia, Olimpiade diede alla luce Alessandro, e appena si fece giorno i maghi si misero a gridare che nella notte allora trascorsa era nata la rovina, la sciagura per l'Asia.
>XXIV 48> Basti ciò quanto agli indiani e ai maghi; ritorniamo ai sogni. Celio Antipatro scrive che Annibale, desideroso di portar via una colonna d'oro che si trovava nel tempio di Giunone Lacinia, ma dubbioso se fosse d'oro massiccio o soltanto dorata all'esterno, la fece trapanare e, accertatosi che era tutta d'oro, decise di asportarla. Durante il sonno gli apparve Giunone e lo ammonì a non farlo, minacciandolo che, se l'avesse fatto, essa gli avrebbe fatto perdere anche l'unico occhio con cui vedeva bene. Quell'uomo sagace non trascurò l'ammonimento e, con quella parte d'oro che era stata tolta nella trapanazione, fece fare una piccola effigie d'una giovenca e la fece collocare in cima alla colonna. >49> Un altro episodio è riferito nella storia, scritta in greco, di Sileno, da cui lo attinse Celio (Sileno narrò con grande accuratezza le imprese di Annibale). Dopo la presa di Sagunto, Annibale sognò che era chiamato da Giove nel concilio degli dèi. Giunto là, si sentì ordinare da Giove di portar guerra all'Italia, e gli venne dato come guida un dio del concilio. Seguendo le indicazioni di costui, incominciò a mettersi in marcia con l'esercito. Quel dio, allora, gli ordinò di non voltarsi a guardare indietro. Ma Annibale non riuscì a resistere a lungo, e, cedendo alla bramosia di vedere, si voltò. Vide una belva enorme e orrenda, cinta da serpenti, la quale, dove passava, abbatteva ogni albero, ogni virgulto, ogni casa. Annibale, stupefatto, chiese al dio che lo guidava che cos'era mai un mostro di quella sorta; e il dio rispose che quella era la devastazione dell'Italia e gli ordinò di continuare il cammino, senza curarsi di ciò che avveniva dietro, alle sue spalle. >50> Nella #Storia# di Agatocle si legge che ad Amilcare cartaginese, mentre assediava Siracusa, parve di udire una voce che gli diceva: 'Domani cenerai a Siracusa.' Appena spuntata l'alba del giorno dopo, nel suo accampamento sorse una grande rissa fra i soldati cartaginesi e quelli siculi. I siracusani se ne accorsero, fecero un'irruzione improvvisa nell'accampamento e presero vivo Amilcare: così i fatti confermarono la verità del sogno. Di esempi analoghi è piena la storia, è addirittura ricolma la vita quotidiana. >51> Esempio più illustre che mai, Publio Decio figlio di Quinto, il primo della famiglia dei Decii che fu eletto console, quando era tribuno militare sotto i consoli Marco Valerio e Aulo Cornelio e il nostro esercito era incalzato dai sanniti, poiché affrontava con eccessiva temerità i pericoli del combattimento e lo ammonivano a esser più prudente, disse - lo narrano le storie - che in sogno gli era parso di morire gloriosissimamente nel folto della mischia. E quella volta rimase incolume e liberò l'esercito dalla morsa dei sanniti; ma tre anni dopo, quando fu console, offri se stesso in sacrifizio agli dèi e, indossate le armi, si lanciò contro l'esercito dei latini. Grazie al suo impeto, i latini furono sconfitti e annientati; e la sua morte fu così gloriosa, che suo figlio volle ottenerne una uguale.
>XXV 52> Ma, se sei d'accordo, passiamo ai sogni dei filosofi. Si legge in Platone che Socrate, trovandosi in carcere, disse al suo amico Critone che gli sarebbe toccato di morire tre giorni dopo: aveva visto in sogno una donna bellissima che, chiamatolo per nome, gli aveva detto un verso press'a poco così, simile a uno di Omero: 'Il terzo giorno di bel tempo ti farà giungere a Ftia.' E si trova scritto che ciò accadde proprio come era stato detto. Senofonte, discepolo di Socrate (quale uomo e di quanto valore!), nel racconto dell'impresa militare che compì sotto Ciro il giovane, riferisce i suoi sogni, che mirabilmente si avverarono. >53> Diremo che Senofonte dice il falso o è fuor di senno? E Aristotele, uomo d'ingegno eccezionale e direi quasi divino, s'inganna o vuole ingannare gli altri quando narra l'episodio che ora riferirò? Eudemo di Cipro, suo intimo amico, durante un viaggio verso la Macedonia, arrivò a Fere, città della Tessaglia, assai rinomata a quei tempi, ma oppressa dalla feroce tirannide di Alessandro. In quella città, dunque, Eudemo si ammalò così gravemente, che tutti i medici disperarono della sua salvezza. Gli apparve in sogno un giovane di bellissimo aspetto, e gli disse che fra breve sarebbe guarito, che entro pochi giorni il tiranno Alessandro sarebbe morto, e che lui, Eudemo, sarebbe ritornato in patria dopo cinque anni. Scrive Aristotele che i primi eventi accaddero subito: Eudemo guarì, il tiranno fu ucciso dai fratelli di sua moglie. Verso la fine del quinto anno, poi, quando quel sogno dava a Eudemo la speranza che dalla Sicilia sarebbe ritornato a Cipro, egli cadde in combattimento sotto le mura di Siracusa. Il sogno, quindi, fu interpretato nel senso che l'anima di Eudemo, liberatasi dal corpo, era ritornata alla sua vera patria. >54> Ai filosofi aggiungiamo un uomo dottissimo, Sofocle, poeta davvero divino. Era stata sottratta dal tempio di Ercole una coppa d'oro massiccio. Sofocle, in sogno, vide proprio Ercole che gli disse chi aveva commesso il furto. Una prima e una seconda volta non si curò del sogno. Ma poiché la stessa apparizione si ripeteva, salì all'Areòpago, denunciò il fatto. Gli Areopagiti ordinano che sia arrestato quel tale di cui Sofocle aveva fatto il nome; costui, sottoposto a interrogatorio, confessò e restituì la coppa. In seguito a ciò quel tempio fu chiamato il tempio di Ercole Rivelatore.
>XXVI 55> Ma a che scopo dilungarsi sui greci? Non so perché, mi piacciono di più le cose nostre. Questo episodio lo raccontano tutti gli storici, come Fabio, come Gellio, ma per ultimo Celio: durante la guerra latina, mentre avvenivano per la prima volta i ludi votivi massimi, improvvisamente tutti i cittadini furono chiamati alle armi; perciò, essendo stati interrotti quei ludi, furono celebrati i 'ludi sostitutivi'. Prima che essi incominciassero, quando già gli spettatori si erano seduti, uno schiavo fu strascinato per il circo, costretto a portar la forca, mentre intanto lo si percuoteva con le verghe, Poco dopo un romano del contado vide in sogno presentarglisi un tale che gli disse che nei ludi il capo dei danzatori sacri non gli era stato ben accetto, e gli ordinava di far noto ciò al senato. Quel tale non osò obbedire al sogno. Una seconda volta egli ricevette in sogno quest'ordine e fu ammonito a non sfidare la potenza di colui che gli appariva; ma nemmeno allora osò obbedire. Dopo di ciò suo figlio morì, e in sogno per la terza volta si ripeté quell'ammonizione. Allora egli, già indebolito, riferì il fatto agli amici, e per loro consiglio fu portato in lettiga nella Curia; e dopo che ebbe raccontato ai senatori il sogno, poté tornarsene a casa a piedi sano e salvo. Accertata la veridicità del sogno, il senato indisse da capo quei ludi: così si narra. >56> Un altro esempio: Gaio Gracco raccontò a molti - lo riferisce il medesimo Celio - che nel periodo in cui aspirava alla questura gli apparve in sogno il fratello Tiberio e gli disse che indugiasse pure quanto voleva, ma sarebbe morto della stessa morte che era toccata a lui. Celio scrive che, prima che Gaio Gracco fosse eletto tribuno della plebe, egli aveva sentito dire ciò da lui stesso, e che lo aveva detto a molti altri. Che sogno si può citare più sicuro di questo?
>XXVII> Chi, poi, può negar fede a quei due sogni che sono tante volte citati dagli stoici? Il primo riguarda Simonide: egli vide il cadavere di uno sconosciuto abbandonato a terra, lo seppellì, e si proponeva poi d'imbarcarsi; quel tale a cui egli aveva dato sepoltura gli apparve in sogno e lo dissuase dal suo proposito: se si fosse imbarcato, sarebbe perito in un naufragio. Simonide allora tornò indietro, gli altri che si erano imbarcati perirono. >57> L'altro sogno, famosissimo, è il seguente: due àrcadi, amici intimi, viaggiavano insieme e arrivarono a Mègara. Uno dei due prese alloggio in casa d'un taverniere, l'altro presso un suo ospite. Cenarono e andarono a dormire. A notte già inoltrata quello dei due che dormiva presso l'ospite vide in sogno l'altro che lo pregava di recargli soccorso, perché il taverniere si apprestava a ucciderlo. In un primo momento egli balzò su, atterrito dal sogno; poi, riavutosi dallo spavento, pensò che a quell'apparizione non si dovesse dar peso, e tornò a letto. Di nuovo, allora, gli apparve in sogno l'amico, e lo pregò che, non avendogli recato aiuto quando era ancora vivo, almeno non lasciasse invendicata la sua morte; il suo cadavere era stato buttato dal taverniere su un carro, e vi era stato sparso sopra del letame; gli chiedeva di trovarsi alla porta della città all'alba, prima che il carro uscisse verso la campagna. Emozionato da questo sogno, egli si recò di buon mattino alla porta, fermò il carrettiere, gli domandò che cosa c'era nel carro. Quello, atterrito, scappò via; il morto fu tratto fuori; il taverniere, venuto in luce il suo delitto, fu condannato a morte. Quale sogno si può considerare più profetico di questo?
>XXVIII 58> Ma a che scopo continuare con altri esempi, ed esempi antichi? Spesso io ti ho raccontato un mio sogno, spesso me ne hai raccontato uno tuo. Io, quando ero, come proconsole, governatore della provincia d'Asia, vidi in sogno te che andavi a cavallo verso la riva di un gran fiume, ti slanciavi d'un tratto e, scivolato giù nel fiume, non ricomparivi più, mentre io, atterrito, ero preso da tremore. Poi, all'improvviso, tu riemergevi con aspetto lieto e, su quello stesso cavallo, risalivi l'altra sponda del fiume, e noi ci abbracciavamo. Era facile l'interpretazione di questo sogno, e in Asia gli esperti mi predissero ciò che poi in effetti accadde. >59> Ed eccomi al tuo sogno: l'ho udito da te direttamente, ma ancor più spesso me l'ha narrato il nostro Sallustio. Quando, in quell'esilio glorioso per noi, rovinoso per la patria, tu ti trovavi in una casa di campagna del territorio di Atina e per gran parte della notte eri rimasto sveglio, verso l'alba, finalmente, ti abbandonasti ad un sonno greve e profondo. E sebbene il tempo stringesse, tuttavia Sallustio ordinò che si facesse silenzio e non permise che ti svegliassero. Quando poi ti svegliasti verso le otto del mattino, gli narrasti un sogno: ti era sembrato che, mentre vagavi mestamente in un luogo deserto, Gaio Mario, coi fasci ornati di alloro, ti domandasse perché eri addolorato; e avendogli tu detto che eri stato con la violenza cacciato via dalla patria, egli ti strinse la mano, ti esortò a star di buon animo, ordinò al littore più vicino a lui di condurti al tempio da lui fatto costruire e ti disse che in quello avresti trovato la salvezza. Sallustio narra di avere allora esclamato che il destino ti riserbava un ritorno prossimo e glorioso, mentre tu stesso apparivi rasserenato da quel sogno. Anche a me fu ben presto riferito che tu, quando apprendesti che nel tempio edificato da Mario era stata presa quella splendida decisione del senato sul tuo richiamo dall'esilio su proposta del console di allora, uomo eccellente e ragguardevolissimo, e che il decreto era stato accolto con incredibili grida di gioia e applausi dal popolo assiepato nel teatro, dicesti che nulla avrebbe potuto accadere di più presàgo di quel sogno che avevi avuto presso Atina.
>XXIX 60> 'Ma molti sogni son falsi.' Piuttosto, forse, sono per noi di difficile comprensione. Ma ammettiamo che ve ne siano di falsi: contro quelli veri che cosa diremo? E risulterebbero veri molto più spesso se ci disponessimo al sonno in perfette condizioni. Ora, ripieni di cibo e di vino, vediamo in sogno cose alterate e confuse. Rammenta le parole di Socrate nella #Repubblica #di Platone. Egli dice: 'Poiché nel sonno quella parte dell'anima che appartiene alla sfera razionale è assopita e debole, quella invece in cui risiede un istinto ferino e una rozza violenza è abbrutita dal bere e dal cibo eccessivo, questa si sfrena e si esalta smoderatamente mentre dormiamo. Ad essa, perciò, si presentano visioni d'ogni genere, prive di senno e di ragionevolezza: si ha l'impressione di unirsi carnalmente con la propria madre o con qualsiasi altro essere umano o divino, spesso con una bestia; di trucidare addirittura qualcuno e di macchiarsi empiamente le mani di sangue; di fare molte altre cose impure e orrende, senza ritegno né pudore. >61> Ma chi, conducendo una vita e una dieta salubre e moderata, si lascia andare al sonno quando quella parte dell'anima che partecipa della ragione è attiva e vigorosa e saziata dal cibo dei buoni pensieri, e l'altra parte dell'anima che è alimentata dai piaceri non è né sfinita dalla fame né gravata da troppa sazietà (l'una e l'altra di queste due condizioni, o che l'organismo sia privo di qualcosa o che ne sovrabbondi, suole offuscare l'acutezza della mente), e infine anche la terza parte dell'anima, nella quale risiede l'ardore delle passioni, è calma e smorzata, - allora accadrà che, essendo tenute a freno le due parti intemperanti dell'anima, la terza parte, quella del senno e della ragionevolezza, rifulga e si disponga a sognare piena di vigore e di acume: quel tale, allora, avrà nel sonno apparizioni tranquille e veritiere.' Ho tradotto proprio le parole di Platone. |#[continua]#|
|#[LIBRO PRIMO, 2]#|
>XXX 62> Daremo retta, dunque, piuttosto a Epicuro? Ché Carneade, per il gusto di polemizzare contro tutti, dice ora questo, ora quello. Epicuro no, dice quel che pensa; ma non pensa mai niente di bello, niente di onorevole. Costui, dunque, lo anteporrai a Platone e a Socrate? I quali, anche se non dimostrassero appieno le loro dottrine, egualmente supererebbero per autorità quei filosofucci. Platone, dunque, prescrive che ci si abbandoni al sonno col corpo in condizioni tali da non arrecare nessun motivo di errore o di turbamento all'anima. Per la stessa ragione si ritiene che anche ai pitagorici fosse vietato di mangiar fave, poiché questo cibo produce una grande flatulenza, dannosa alla tranquillità della mente che ricerca la verità. >63> Quando, dunque, nel sonno l'anima è sottratta all'unione col corpo e al contagio che ne deriva, allora si ricorda del passato, scorge il presente, prevede il futuro: ché il corpo del dormiente giace come quello d'un morto, mentre l'anima è desta e viva. E in questa condizione si troverà tanto più dopo la morte, quando sarà del tutto uscita dal corpo. Perciò, all'approssimarsi della morte, è molto più dotata di virtù profetica. Quelli che sono affetti da malattia grave e mortale questo anzitutto prevedono, l'imminenza della loro morte. A essi di solito appaiono le immagini dei morti, e in quei momenti più che mai desiderano di meritarsi lode, e se sono vissuti in modo sconveniente, allora soprattutto si pentono. >64> Che i morenti abbiano capacità divinatoria lo dimostra anche Posidonio adducendo quel famoso caso: uno di Rodi, in punto di morte, fece i nomi di sei coetanei e disse quale di essi sarebbe morto per primo, quale per secondo, e così di seguito tutti gli altri. In tre modi, del resto, Posidonio ritiene che gli uomini sognino per impulso divino: nel primo, perché l'anima prevede da sé, essendo unita da parentela con gli dèi; nel secondo, perché l'aria è piena di anime immortali, nelle quali i segni della verità appaiono, per così dire, chiaramente impressi; nel terzo, perché gli dèi stessi parlano coi dormienti. E che le anime predicano il futuro avviene più facilmente all'appressarsi della morte, come ho detto or ora. >65> Si comprende così quell'episodio di Callano, a cui ho accennato prima, e quello dell'Ettore omerico, che, morente, predice ad Achille la morte vicina.
>XXXI> Né l'uso avrebbe consacrato a caso quella parola 'presagire', se a essa non corrispondesse proprio alcuna realtà: 'Me lo presagiva il cuore, uscendo di casa, che sarei venuto inutilmente.' #Sagire, #difatti, significa aver buon fiuto; donde si chiamano #sagae #le vecchie fattucchiere, perché pretendono di saper molto, e 'sagaci' son detti i cani. Perciò chi ha la sensazione #(sagit) #di qualcosa prima che accada, si dice che 'pre-sagisce', ossia sente in anticipo il futuro.
>66> C'è dunque nelle anime una capacità di presagire infusa dall'esterno e penetrata per opera della divinità. Se questa capacità s'infiamma con più veemenza, si chiama 'follìa profetica', quando l'anima svincolatasi dal corpo è eccitata da un impulso divino:
(#Ecuba#) 'Ma come mai, d'un tratto, sei apparsa in preda al furore, con gli occhi fiammeggianti? Dov'è più quella saggia, virginale modestia di poco prima?' - (#Cassandra#): 'Madre mia, di gran lunga la migliore donna delle nobili donne troiane, io sono assalita da deliri profetici, e Apollo mi istiga a dire, folle, contro la mia volontà, il futuro. Mi vergogno dinanzi alle fanciulle mie coetanee; ho rossore di ciò che faccio perché disonoro mio padre, uomo eccelso; di te, madre mia, ho compassione; di me stessa mi dolgo. Tu hai partorito a Priamo figli eccellenti, tranne me: è questo che mi addolora: che io sia di danno, essi di aiuto, io riottosa, essi obbedienti!' Oh, brano di poesia dolce, espressivo, delicato! >67> Ma esso non riguarda da vicino il nostro argomento; quello che c'interessa il poeta l'ha espresso in quest'altro passo: come la follìa, di solito, predìca il vero:
'Eccola, eccola la torcia avvolta nel sangue e nelle fiamme! Per molti anni rimase occulta. Cittadini, recate soccorso e spegnetela!'
Non è più Cassandra che parla, ma il dio che è penetrato in un corpo umano.
'E già nel vasto mare una flotta veloce vien costruita; essa trascina uno sciame di sciagure; arriverà, feroce, un esercito su navi volanti con le vele, riempirà le nostre spiagge.'
>XXXII 68> Può sembrare che io spacci per verità finzioni sceniche. Ma proprio da te ho udito un fatto dello stesso genere, non inventato ma effettivamente avvenuto. Gaio Coponio, uomo eminente per saggezza e Cultura, nel tempo in cui comandava la flotta di Rodi con la carica di pretore, venne da te a Durazzo e ti disse che un rematore di una quinquireme dei rodii aveva vaticinato che entro meno di trenta giorni la Grecia sarebbe stata immersa in un bagno di sangue, sarebbero avvenute rapine a Durazzo, molti marinai avrebbero dovuto imbarcarsi e fuggire per mare e, nell'allontanarsi, si sarebbero volti a guardare il tristissimo spettacolo degli incendi; soltanto alla flotta rodia sarebbe stato concesso un prossimo ritorno e rimpatrio. Neppure tu sfuggisti a un grave turbamento, e Marco Varrone e Marco Catone, uomini dotti, che si trovavano lì anch'essi, rimasero gravemente atterriti. Pochissimi giorni dopo arrivò Labieno fuggiasco da Farsàlo, e dopo che ebbe recato l'annunzio della disfatta dell'esercito, in breve tempo si avverarono le altre cose che erano state vaticinate. >69> Il grano sottratto ai depositi e sparso qua e là aveva ricoperto tutte le strade e i vicoli, e voi, atterriti, vi imbarcaste senza indugio, e nella notte, guardando verso la città, vedevate le navi da carico in preda alle fiamme, incendiate dai soldati perché non avevano voluto seguirvi. Quando, infine, foste abbandonati dalla flotta rodia, vi accorgeste che l'indovino aveva detto il vero.
>70> Ho esposto il più brevemente che ho potuto le predizioni del sogno e dell'eccitazione divina, che, come avevo detto, sono estranee all''arte'. Di entrambi questi tipi di divinazione unica è la motivazione, alla quale suole richiamarsi il nostro Cratippo: le anime umane derivano e sono tratte in parte dall'esterno - e da ciò si comprende come vi sia al di fuori di noi un'anima divina, dalla quale è derivata l'umana -; ma quella parte dell'anima umana che consiste in sensazione, in movimento, in appetizione non è separata dall'influsso del corpo; quella, invece, che è partecipe della razionalità e dell'intelligenza è più che mai vivida quando è distanziata il più possibile dal corpo. >71> Pertanto, dopo avere citato esempi di vaticinii e sogni veridici, Cratippo suole argomentare in questo modo: 'Se senza occhi non può svolgersi la funzione e il còmpito degli occhi, e tuttavia può accadere talvolta che gli occhi non adempiano bene al loro còmpito, chi anche una volta sola ha usato gli occhi in modo da scorgere le cose come sono in realtà, possiede il senso della vista capace di percepire la realtà. Allo stesso modo, dunque, se, non esistendo la divinazione, non può svolgersi né la funzione né il còmpito della divinazione stessa, e tuttavia può accadere talvolta che qualcuno, pur dotato di capacità divinatorie, erri e non veda la realtà, è sufficiente a dimostrare l'esistenza della divinazione che anche una volta sola un fatto sia stato divinato in circostanze tali da non sembrare che ciò possa in alcun modo attribuirsi al caso. Ma ci sono esempi innumerevoli di questo genere: bisogna dunque ammettere che la divinazione esiste.'
>XXXIII 72> Quanto a quei segni profetici che vengono spiegati mediante interpretazione oppure risultano osservati e registrati in coincidenza con ciò che accade in séguito, essi, come ho detto sopra, vengono chiamati non naturali ma artificiali; in questo campo si annoverano gli arùspici, gli àuguri, gli altri interpreti. Questi generi di divinazione sono negati dai peripatetici, difesi dagli stoici. Alcuni sono basati sui documenti e sulla dottrina, quale è esposta nei libri aruspicini, fulgorali e rituali degli etruschi, nonché nei vostri libri augurali; altri invece vengono spiegati dagli indovini sull'istante, per interpretazione immediata, come in Omero Calcante, che dal numero dei passeri aveva predetto il numero degli anni della guerra di Troia, o come leggiamo nelle #Memorie #di Silla - e tu stesso fosti presente al fatto - : mentre egli nel territorio di Nola compiva un sacrificio dinanzi al pretorio, dal di sotto dell'altare sbucò all'improvviso un serpente, e allora l'arùspice Gaio Postumio lo esortò a muovere all'offensiva con l'esercito. Silla gli diede ascolto, e dinanzi alla città di Nola espugnò l'accampamento dei sanniti, ben fornito di armi e vettovaglie. >73> Anche a proposito di Dionisio fu fatta una profezia poco prima che salisse al trono. Viaggiava per il territorio di Lentini e fece scendere in un fiume il suo cavallo; travolto dai gorghi, questo sprofondò nelle acque. Dionisio, dopo lunghi e vani sforzi di farlo venir su, si allontanò amareggiato, come narra Filisto. Ma dopo aver camminato per un poco, a un tratto udì un nitrito e si allietò vedendo il cavallo vivo e fremente, sulla cui criniera si era posato uno sciame d'api. L'effetto di questo prodigio fu che Dionisio divenne tiranno di Siracusa pochi giorni dopo.
>XXXIV 74> E ancora: quale presagio toccò agli spartani poco prima della battaglia di Leuttra, quando nel tempio di Ercole le armi risonarono e la statua di Ercole si coprì tutta di sudore! E contemporaneamente, come narra Callistene, a Tebe nel tempio di Ercole i battenti delle porte, chiusi da sbarre, si aprirono da sé all'improvviso, e le armi che erano appese alle pareti furon trovate sul pavimento. E ancora nel medesimo tempo, mentre presso Lebadìa si svolgeva un rito in onore di Trofonio, i galli in tutta quella contrada incominciano a cantare così insistentemente da non smetterla più. Gli àuguri della Beozia dissero allora che la vittoria sarebbe spettata ai tebani, perché i galli sogliono tacere quando son vinti, cantare quando hanno vinto. >75> Frattanto gli spartani ricevevano molti preannunci del disastro nella battaglia di Leuttra. C'era a Delfi una statua di Lisandro, il più famoso degli spartani; sulla testa della statua comparve all'improvviso una corona di erbe spinose e selvatiche; e le stelle d'oro che erano state poste a Delfi dagli spartani dopo la famosa vittoria navale riportata da Lisandro, che segnò la rovina degli ateniesi, giacché si diceva che in quella battaglia Càstore e Pollùce erano apparsi dalla parte della flotta spartana, - le stelle d'oro che ho detto, dunque, poste a Delfi come insegne di quegli dèi, caddero giù poco prima della battaglia di Leuttra e non si ritrovarono più. >76> Ma il prodigio più grave, ancora a danno degli spartani, fu quest'altro: quando chiesero un responso a Giove dodonèo per sapere se avrebbero vinto, e i messi ebbero collocato al suo posto il recipiente in cui si trovavano le sorti, una scimmia, che il re dei molossi aveva molto cara, scompigliò e buttò qua e là le sorti e tutti gli altri oggetti che erano stati portati per compiere il sorteggio. Si narra che allora la sacerdotessa preposta all'oracolo disse che gli spartani avrebbero dovuto pensare alla loro salvezza, non alla vittoria.
>XXXV 77> E nella seconda guerra punica Gaio Flaminio, console per la seconda volta, non trascurò i presagi del futuro, con grande sventura della repubblica? Dopo che ebbe compiuto la cerimonia di purificazione dell'esercito, avendo intrapreso la marcia in direzione di Arezzo per condurre le sue legioni contro Annibale, ecco che egli stesso e il suo cavallo caddero tutt'a un tratto senza alcuna causa dinanzi alla statua di Giove Statore; gli esperti giudicarono che questo segno doveva dissuaderlo dal dare battaglia, ma egli non si fece alcuno scrupolo di ciò. Poi, quando prese gli auspicii mediante il #tripudium#, fu consigliato dal pullario a rimandare il giorno del combattimento. Flaminio allora gli domandò: 'Se nemmeno in seguito i polli avranno voglia di mangiare, che cosa ritieni che si dovrà fare?' Il pullario rispose che si sarebbe dovuto stare ancora fermi. E Flaminio: 'Belli davvero questi auspicii! Quando i polli avranno fame si potrà dar battaglia, quando saranno sazi non si potrà far più nulla.' Ordinò dunque che si svellessero dal suolo le insegne e lo si seguisse. Il portatore dell'insegna del primo manipolo di astati non riuscì a smuovere l'insegna, nemmeno con l'aiuto di parecchi altri; Flaminio, quando ciò gli fu annunziato, secondo il. suo solito non si curò del prodigio. E così in quelle tre terribili ore l'esercito fu trucidato e Flaminio stesso fu ucciso. >78> È importante anche quello che aggiunge Celio: proprio nel tempo in cui si svolgeva quella disastrosa battaglia, vi furono in Liguria, in Gallia, in parecchie isole e in tutta l'Italia terremoti così forti che molte città furono distrutte, in molte località avvennero frane e sprofondamenti del suolo, i fiumi invertirono il loro corso, il mare penetrò nei corsi d'acqua.
>XXXVI> Gli esperti sono capaci di prevedere spesso con certezza il futuro. A quel famoso Mida frigio, ancora bambino, delle formiche ammucchiarono in bocca, mentre dormiva, chicchi di grano. Fu predetto che sarebbe divenuto ricchissimo; e la predizione si avverò. Ma a Platone, da piccolo, delle api si posarono sulle labbra mentre dormiva in culla. Gli indovini dettero il responso che egli sarebbe stato dotato di straordinaria dolcezza di eloquio: così la sua eloquenza futura fu prevista quando era ancora un neonato. >79> E Roscio, da te tanto amato e ammirato, mentiva egli stesso o mentiva per lui tutta Lanuvio? Era ancora in culla ed era allevato nel Solonio, che è una località campestre presso Lanuvio. Di notte, la sua nutrice si svegliò (una lampada accanto faceva luce), e vide che il bambino addormentato era avvolto entro le spire di un serpente. Atterrita da quella vista, lanciò un grido. Il padre di Roscio riferì la cosa agli arùspici, i quali risposero che nulla al mondo sarebbe stato più insigne, più famoso di quel bambino. E questa scena Pasitele la cesellò in argento e il nostro Archia la narrò in poesia.
Che cosa aspettiamo, dunque? Che gli dèi immortali s'intrattengano con noi nel fòro, per la strada, in casa? Certo, essi non si presentano a noi direttamente, ma diffondono per lungo e per largo il loro influsso; e ora lo immettono negli antri sotterranei, ora lo infondono in anime umane. La forza della terra ispirava la Pizia a Delfi, la forza della sua stessa indole incitava la Sibilla. E non vediamo dunque quanto varii siano i tipi di terra? Ve ne sono di mortiferi, come Ampsancto in Irpinia e i #Plutonia# che io ho visto in Asia; vi sono plaghe, alcune pestifere, altre salubri; in alcune nascono uomini di ingegno acuto, in altre ottuso; tutto ciò dipende sia dalla diversità dei climi, sia dalle differenti esalazioni dei terreni.
>80> Avviene anche che spesso per qualche apparizione, spesso per voci profonde o canti, l'animo umano subisca una particolare eccitazione; spesso anche per ansia e timore, come quella 'con l'animo sconvolto, come invasata o scossa dal furore dei riti bacchici, su per i colli, invocando il suo Teucro'.
>XXXVII> E anche quell'esaltazione dimostra che nell'anima c'è una forza divina. Democrito, in effetti, sostiene che nessuno può essere un grande poeta senza una specie di follìa, e la stessa cosa dice Platone. La chiami pure follia, purché ne venga fatto un elogio come nel #Fedro#. D'altronde, i discorsi di voi oratori nei processi, i vostri gesti stessi, possono essere veementi, elevati, eloquenti, se anche l'animo di chi parla non è alquanto commosso? In verità, spesso ho veduto in te, o, per passare a un genere meno solenne, nel tuo amico Esopo un tale ardore di espressioni del volto e di movimento, che si sarebbe detto che una forza misteriosa lo avesse tratto fuori dalla piena consapevolezza di sé.
>81> Spesso anche si presentano alla vista delle immagini che non hanno realtà alcuna, ma ne hanno l'apparenza. Ciò, si narra, accadde a Brenno e ai Galli suoi soldati, quando quel re scatenò un'empia guerra contro il tempio di Apollo delfico. Dicono che allora la Pizia parlò solennemente così dall'oracolo: 'A questo provvederò io, e con me le bianche vergini.'
Accadde allora che delle vergini sembrassero avanzarsi armate, e che in realtà l'esercito dei Galli fosse sepolto sotto la neve.
>XXXVIII> Aristotele riteneva che anche i veri e propri ammalati di pazzia furiosa e i cosiddetti atrabiliari avessero nelle loro anime qualcosa di profetico e divinatorio. Ma io non direi che questa qualità vada attribuita ai biliosi e ai frenetici: la divinazione è dote di anime integre, non di corpi ammalati.
>82> Che davvero la divinazione esista si dimostra con questa argomentazione degli stoici: 'Se gli dèi esistono e non fanno sapere in anticipo agli uomini il futuro, o non amano gli uomini, o ignorano ciò che accadrà, o ritengono che non giovi affatto agli uomini sapere il futuro, o stimano indegno della loro maestà preavvertire gli uomini delle cose che avverranno, o nemmeno gli dèi stessi sono in grado di farle sapere. Ma non è vero che non ci amino (sono, infatti, benèfici e amici del genere umano), né è possibile che ignorino ciò che essi stessi hanno stabilito e predisposto, né si può Ammettere che non ci giovi sapere ciò che accadrà (ché, se lo sapremo, saremo più prudenti), né essi ritengono che CIò non si confaccia alla loro maestà (niente è, difatti, più glorioso che fare il bene), né possono essere incapaci di prevedere il futuro. >83> Dunque, dovremmo concludere, gli dèi non esistono e non predìcono il futuro. Ma gli dèi esistono; dunque predìcono. E se dànno indizi, non è ammissibile che ci precludano ogni mezzo di interpretare tali indizi (ché darebbero gli indizi senza alcun frutto), né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non vi sia la divinazione. Dunque c'è la divinazione.'
>XXXIX 84> Di questa argomentazione si servono Crisippo, Diogene e Antipatro. Che motivo c'è, dunque, di rimanere incerti sull'assoluta verità di ciò che ho esposto, se dalla mia parte stanno la ragione, l'avverarsi dei presagi, i popoli, le genti, i greci, i barbari, i nostri stessi antenati, se insomma a queste cose si è sempre creduto, se vi hanno creduto i più grandi filosofi, i poeti, i saggissimi uomini che istituirono gli stati e fondarono le città? Forse, non bastandoci la concorde autorità degli uomini, aspettiamo che parlino le bestie? >85> Del resto, chi sostiene che i generi di divinazione di cui parlo non hanno alcun valore, obietta soltanto questo: che appare difficile dire quale sia il procedimento razionale, quale la causa di ciascuna divinazione. Che motivo può addurre l'arùspice per cui un polmone che presenta una fenditura, anche se le viscere sono in complesso di buon augurio, debba far sospendere il tempo di un'azione e farla rinviare a un altro giorno? Che motivo ha l'àugure di sentenziare che un corvo che gràcida da destra, una cornacchia da sinistra, sono di buon augurio? Che motivo ha l'astrologo di dire che l'astro di Giove o di Venere in congiunzione con la luna è di buon auspicio per la nascita dei bambini, mentre gli astri di Saturno o di Marte sono infausti? E ancora, perché la divinità ci ammonisce mentre dormiamo, non si cura di noi quando siamo svegli? Che ragione c'è per cui Cassandra veda il futuro in stato di folle esaltazione, e non sia in grado di far ciò Priamo trovandosi perfettamente in senno? >86> Tu chiedi perché ciascuna di queste cose avvenga. Curiosità del tutto legittima; ma qui non di questo si tratta: si discute se quei fatti avvengano o no. Sarebbe come se, dicendo io che la calamita è una pietra che alletta e attrae a sé il ferro ma non sapendo dire perché ciò avvenga, tu negassi senz'altro il fatto. È ciò che fai riguardo alla divinazione, che constatiamo di persona, di cui sentiamo parlare e leggiamo, la cui dottrina ci è giunta dai nostri antenati. E già prima dell'inizio della filosofia, che risale a tempi recenti, l'opinione comune non ebbe alcun dubbio quanto a ciò; e quando si fece avanti la filosofia, nessun filosofo dotato di un minimo di autorità la pensò altrimenti. >87> Ho menzionato Pitagora, Democrito, Socrate; tra i più antichi non ho dovuto far eccezioni per nessuno tranne per Senofane. Ho aggiunto l'Accademia antica, i peripatetici, gli stoici. Dissente solo Epicuro; ma che cosa c'è di più turpe del fatto che il medesimo Epicuro sostiene che non esiste alcuna virtù disinteressata?
>XL> Chi, d'altra parte, non rimane impressionato dall'antichità dei fatti testimoniati e garantiti da documenti di gran valore? Omero dice che Calcante fu l'àugure di gran lunga migliore di tutti, e che guidò le navi greche fino a Ilio, grazie alla sua conoscenza degli auspicii, credo bene, non a quella dei luoghi. >88> Anfiloco e Mopso furono re degli argivi, ma anche àuguri, e fondarono città greche sulla costa della Cilicia. E ciò fecero prima di loro Anfiarao e Tiresia, non gente bassa e ignota, non simili a quelli di cui parla Ennio, 'che per bisogno di guadagnare inventano false profezie', ma uomini famosi e valenti, che interpretando il volo degli uccelli e i segni premonitori dicevano il futuro. Del secondo di essi Omero dice che anche negl'inferi è l'unico ad aver senno, gli altri errano al pari di ombre; quanto poi ad Anfiarao, la fama acquistatasi presso i greci gli procurò tanto onore, che fu considerato un dio e gli si chiedevano oracoli che emanassero dal suo suolo, là dove era stato sotterrato. >89> E Priamo, il re dell'Asia, non aveva due figli capaci di divinazione, Eleno e Cassandra, il primo mediante gli augurii, l'altra per esaltazione e follìa divina? Profeti di questo secondo genere furono presso di noi in tempi antichi (ne abbiamo menzione scritta) certi fratelli Marcii, di famiglia nobile. E Poliido corinzio, non predisse la morte - lo narra Omero - al figlio che partiva per la guerra di Troia, e molte altre cose ad altri? In generale, nei tempi antichi i sovrani erano anche maestri di arte augurale: consideravano come una dote regale la divinazione al pari della sapienza nel governare. Ne è testimone la nostra città, nella quale dapprima furono àuguri i re, poi alcuni privati cittadini, muniti di questa stessa carica sacerdotale, governarono la repubblica con l'autorità promanante dalle credenze religiose.
>XLI 90> Questi procedimenti divinatorii non sono trascurati nemmeno dai barbari. In Gallia vi sono i Druidi: ne ho conosciuto uno anch'io, l'èduo Divizíaco, tuo ospite e ammiratore, il quale dichiarava che gli era nota la scienza della natura, chiamata dai greci #physiología#, e in parte con gli augurii, in parte con l'interpretazione dei sogni, diceva il futuro. Tra i persiani, interpretano gli augurii e profetano i maghi, i quali si riuniscono in un luogo sacro per meditare sulla loro arte e per scambiarsi idee, il che anche voi eravate soliti fare nel giorno delle None; >91> né alcuno può essere re dei persiani se non ha prima appreso la pratica e la scienza dei maghi. È facile, d'altronde, vedere famiglie e genti dedite alla divinazione. In Caria c'è la città di Telmesso, nella quale l'arte degli arùspici si distingue particolarmente; così pure Èlide nel Peloponneso ha due determinate famiglie, quella degli Iàmidi e quella dei Clìtidi, famose più di tutte per l'aruspicìna. In Siria i Caldei eccellono per conoscenza degli astri e per acutezza d'interpretazione. >92> L'Etruria conosce profondamente i presagi tratti dai luoghi colpiti dal fulmine, e sa interpretare il significato di ciascun prodigio e di ciascuna apparizione portentosa. Giustamente, perciò, al tempo dei nostri antenati, quando il nostro Stato era in pieno fiore, il senato decretò che dieci figli di famiglie eminenti, scelti ciascuno da una delle genti etrusche, fossero fatti istruire nell'aruspicìna, per evitare che un'arte di tale importanza, a causa della povertà di quelli che la praticavano, scadesse da autorevole disciplina religiosa a oggetto di traffico e di guadagno. Quanto, poi, ai frigi, ai pisidii, ai cilici, al popolo arabo, essi obbediscono scrupolosamente ai segni profetici dati dagli uccelli; e sappiamo che lo stesso è avvenuto per lungo tempo in Umbria.
>XLII 93> E a me sembra che l'opportunità di praticare i diversi generi di divinazione sia derivata anche dai luoghi che erano abitati dai vari popoli. Gli egiziani e i babilonesi, che abitavano in distese di campi pianeggianti, poiché nessuna altura poteva ostacolare la contemplazione del cielo, posero tutto il loro studio nella conoscenza degli astri. Gli etruschi, poiché, sommamente religiosi, immolavano vittime con zelo e frequenza particolare, si dedicarono soprattutto all'indagine delle viscere; e siccome, per l'aria pregna di vapori, erano frequenti nella loro patria i fulmini, e per lo stesso motivo si verificavano molti fatti straordinari provenienti in parte dal cielo, altri dalla terra, taluni anche in seguito al concepimento e alla generazione degli esseri umani e delle bestie, acquistarono una grandissima perizia nell'interpretare i prodigi. Il cui significato, come tu sei solito dire, è dimostrato dalle parole stesse foggiate sapientemente dai nostri antenati: poiché fanno vedere #(ostendunt), #prognosticano #(portendunt), #mostrano #(monstrant), #predicono #(praedicunt), #vengono chiamati apparizioni miracolose #(ostenta), #portenti #(portenta), #mostri #(monstra), #prodìgi #(prodigia).# >94> Gli arabi, i frigi e i cilici, poiché sono soprattutto dediti alla pastorizia, percorrendo le pianure d'inverno e le montagne d'estate, hanno perciò notato più agevolmente i diversi canti e voli degli uccelli; e per lo stesso motivo hanno fatto ciò gli abitanti della Pisidia e quelli di questa nostra Umbria. E ancora, tutti i carii e in particolare gli abitanti di Telmesso, di cui ho detto sopra, siccome vivono in plaghe ricchissime ed estremamente fertili, nelle quali per la fecondità del terreno molte piante e animali possono formarsi e generarsi, osservarono con accuratezza gli esseri abnormi.
>XLIII 95> Chi, del resto, non vede che in ogni Stato bene ordinato gli auspicii e gli altri tipi di divinazione hanno sempre goduto altissimo credito? Quale re c'è mai stato, quale popolo che non ricorresse alle predizioni divine? E questo non solo in tempo di pace, ma anche, molto di più, in guerra, perché tanto maggiore era la posta in giuoco e in più grave rischio la salvezza. Lascio da parte i nostri, i quali non intraprendono nulla in guerra senza aver esaminato le viscere, nulla fanno in pace senza aver preso gli auspicii; vediamo gli stranieri. Gli ateniesi in tutte le pubbliche deliberazioni ricorsero sempre a certi sacerdoti divinatori che essi chiamano #mánteis, #e gli spartani posero a fianco dei loro re un àugure come consigliere, e vollero, parimenti, che un àugure partecipasse alle riunioni degli anziani (così chiamano il consiglio statale); e così pure, in tutte le questioni importanti, chiedevano sempre responsi a Delfi o ad Ammone o a Dodona. >96> Licurgo, che dette la costituzione allo Stato spartano, volle confermare le proprie leggi con l'approvazione di Apollo delfico; e quando Lisandro le volle riformare, ne fu impedito dal divieto del medesimo oracolo. Non basta: i governanti degli spartani, non ritenendo sufficienti le cure che davano al governo durante il giorno, andavano a giacere, per procurarsi dei sogni, nel tempio di Pasifae, situato nella campagna vicina a Sparta, perché consideravano veritiere le profezie avute nel sonno.
>97> Ecco, ritorno alle cose nostre. Quante volte il senato ordinò ai decemviri di consultare i libri sibillini! In quanto importanti e numerose occasioni obbedì ai responsi degli arùspici! Ogni volta che si videro due soli, e tre lune, e fiamme nell'aria; ogni volta che il sole apparve di notte, e giù dal cielo si sentirono dei rumori sordi e sembrò che la volta celeste si fendesse, e in essa apparvero dei globi. Fu anche annunziato al senato il franamento del territorio di Priverno, quando la terra s'abbassò fino ad una profondità immensa e la Puglia fu squassata da violentissimi terremoti. E da questi portenti erano preannunciate al popolo romano grandi guerre e rovinose sedizioni, e in tutti questi casi i responsi degli arùspici concordavano coi versi della Sibilla. >98> E ancora, quando a Cuma sudò la statua di Apollo, a Capua quella della Vittoria? E la nascita di un andrògino non fu un prodigio funesto? E quando le acque del fiume Atrato si tinsero di sangue? E che dire del fatto che più volte cadde giù una pioggia di pietre, spesso di sangue, talvolta di terra, una volta anche di latte? E quando sul Campidoglio fu colpita dal fulmine la statua di un Centauro, sull'Aventino porte delle mura e uomini, a Tùsculo il tempio di Càstore e Pollùce, a Roma il tempio della Pietà? In tutte queste circostanze gli arùspici non dettero responsi conformi a ciò che poi accadde, e nei libri sibillini non furono trovate le stesse profezie?
>XLIV 99> Non molto tempo fa, durante la guerra màrsica, in seguito a un sogno di Cecilia, figlia di Quinto, il tempio dedicato a Giunone Sospita fu fatto ricostruire dal senato. Sisenna aveva dimostrato che quel sogno corrispondeva mirabilmente, alla lettera, coi fatti; poi, inaspettatamente, credo per influsso di qualche epicureo, si mette a sostenere che non bisogna credere ai sogni. Eppure contro i prodìgi non obietta nulla, e narra che all'inizio della guerra màrsica le statue degli dèi sudarono, e scorsero fiumi rossi di sangue, e che il cielo si spaccò, e si udirono voci misteriose che annunziavano pericoli di guerra, e a Lanuvio alcuni scudi furono rosicchiati dai topi: agli arùspici questo parve un presagio funestissimo. >100> E che dire di ciò che leggiamo negli annali? Durante la guerra contro Veio, essendo cresciute oltre misura le acque del lago Albano, un nobile di Veio passò dalla nostra parte e disse che, secondo i libri profetici che i veienti conservavano, Veio non poteva esser presa finché il lago non fosse giunto a traboccare; ma se le acque, fuoriuscendo, si fossero scaricate in mare secondo il loro deflusso spontaneo, sarebbe stata una rovina per il popolo romano; se invece fossero state incanalate in modo da non poter raggiungere il mare, sarebbe stata la vittoria per i nostri. In seguito a ciò i nostri antenati scavarono quel mirabile canale di scarico dell'acqua del lago Albano. Ma quando i veienti, spossati dalla guerra, mandarono ambasciatori al senato per trattare la resa, allora uno di essi - si narra - disse che quel disertore non aveva avuto il coraggio di dire tutto al senato: ché in quegli stessi libri profetici posseduti dai veienti si diceva che tra breve Roma sarebbe stata conquistata dai Galli: e in effetti, come sappiamo, ciò avvenne sei anni dopo la presa di Veio.
>XLV 101> Spesso anche si narra che nelle battaglie si udirono le voci dei Fauni, e, nel corso di tumulti, parole che predicevano il vero, provenienti chissà da dove. Tra i molti esempi di questo genere, bastino due soli, ma di gran rilievo. Non molto prima che la città fosse presa dai Galli, si udì una voce proveniente dal bosco sacro a Vesta, che dai piedi del Palatino scende verso la Via Nuova: la voce ammoniva che si ricostruissero le mura e le porte; se non si provvedeva, Roma sarebbe stata presa dai nemici. Di questo ammonimento, che fu trascurato allora, quando si era in tempo a evitare il danno, fu fatta espiazione dopo quella terribile disfatta: dirimpetto a quel luogo, fu consacrato ad Aio Loquente un altare, che tuttora vediamo protetto da un recinto. L'altro esempio: molti hanno scritto che, dopo un terremoto, una voce proveniente dal tempio di Giunone sul Campidoglio ammonì che si sacrificasse in segno di espiazione una scrofa gravida: perciò la Giunone a cui era dedicato quel tempio fu chiamata Moneta. Questi fatti, dunque, annunciati dagli dèi e sanzionati dai nostri antenati, li disprezziamo?
>102> Ma i pitagorici consideravano assiduamente non solo le voci degli dèi, ma anche quelle degli uomini, chiamate #òmina. #E siccome i nostri antenati ritenevano che esse avessero valore profetico, ogni volta che dovevano compiere un atto importante incominciavano col dire: 'Sia questa cosa buona, fausta, felice e fortunata'; e nelle pubbliche cerimonie religiose si ordinava che i presenti 'facessero silenzio', e, nel proclamare le ferie, che 'si astenessero da liti e risse'. Così pure, nel fondare con un rito di purificazione una colonia, colui che la fondava sceglieva, perché conducessero le vittime al sacrificio, persone dai nomi di buon augurio; e così faceva il comandante quando purificava l'esercito, il censore quando purificava il popolo. Alla stessa norma si attengono i consoli nella leva: che il primo soldato arruolato abbia un nome di buon augurio. >103> Tu sai bene che, quando sei stato console e comandante militare, hai osservato queste norme con grande scrupolo. Anche riguardo alla centuria che votava per prima nei comizi, i nostri antenati ritennero che per il suo nome essa costituisse un buon auspicio di elezioni conformi alla legge.
>XLVI> Ed io ti rammenterò ben noti esempi di #òmina#. Lucio Paolo, console per la seconda volta, essendogli toccato l'incarico di condurre la guerra contro il re Perse, quando in quello stesso giorno, sull'imbrunire, ritornò a casa, nel dare un bacio alla sua bambina Terzia, ancora molto piccola a quel tempo, si accorse che era un po' triste. 'Che è successo, Terzia?' le chiese; 'perché sei triste?.' E lei: 'Babbo,' disse, 'è morto Persa.' Egli allora, abbracciandola forte, disse: 'Accetto il presagio, figlia mia.' Era morto un cagnolino che si chiamava così. >104> Ho udito raccontare io stesso da Lucio Flacco, flàmine marziale, che Cecilia, moglie di Metello, volendo far sposare la figlia di sua sorella, si recò in un tempietto per ricevere un presagio, secondo l'uso degli antichi. La nipote stava in piedi, Cecilia era seduta; per molto tempo non si sentì nessuna voce; allora la ragazza, stanca, chiese alla zia che le permettesse di riposarsi un poco sulla sua sedia. E Cecilia: 'Certo, bambina mia, ti lascio il mio posto.' E il detto si avverò: Cecilia morì poco dopo, e la ragazza sposò colui che era stato il marito di Cecilia. Lo capisco fin troppo bene: queste cose si possono disprezzare o si può anche riderne; ma disprezzare i segni inviati dagli dèi e negare la loro esistenza, è tutt'uno.
>XLVII 105> E degli àuguri, che dire? È materia di tua pertinenza; a te, dico, deve spettare la difesa degli auspicii. Quando eri console, l'àugure Appio Claudio ti annunziò - avendo giudicato ambiguo l''augurio della salvezza' - che vi sarebbe stata una guerra civile funesta e tempestosa. E pochi mesi dopo scoppiò, e tu la soffocasti in ancor più pochi giorni. Quell'àugure io lo stimo altamente, perché egli solo, dopo molti anni, non si limitò a ripetere le solite formule augurali, ma mantenne in vita l'arte della divinazione. I tuoi colleghi lo deridevano, lo chiamavano àugure di Pisidia o di Sora: essi credevano che negli augurii non vi fosse nessun presentimento, nessuna conoscenza della realtà futura; erano stati accorti, dicevano, quelli che avevano inventato le credenze religiose per darle a intendere agli ignoranti! Ma la realtà è ben diversa: né quei pastori di cui Romolo fu il re, né Romolo in persona poterono essere tanto smaliziati da inventare delle parvenze di religione per trarre in errore la moltitudine. Ma la difficoltà e la fatica d'imparare hanno reso eloquenti i fannulloni: meglio fare forbiti discorsi sul valore nullo degli auspicii, che apprenderne con cura l'essenza. >106> Che c'è di più profetico di quell'auspicio che si legge nel tuo #Mario#? Della tua testimonianza mi piace servirmi più che di ogni altra:
'Allora, d'improvviso, l'alata ministra di Gìove altitonante, ferita dal morso del serpente, lo strappa a sua volta dal tronco dell'albero, trafiggendo con gli artigli spietati il rettile semivivo, guizzante a gran forza col collo variegato. Essa dilania e insanguina col becco il serpente che si divincola; poi, ormai saziata l'ira, ormai vendicato l'aspro dolore, lo lascia cader giù spirante, lo fa precipitare nelle onde già ridotto a brani; ed essa si rivolge dal lato dove il sole tramonta verso il lato donde sorge splendente. Appena Mario, àugure della volontà divina, ebbe visto l'aquila che volava scorrendo per il cielo con le ali veloci, ed ebbe inteso il fausto presagio della propria gloria e del proprio ritorno, ecco che il Padre stesso degli dèi tuonò dalla parte sinistra del cielo. Così Giove confermò lo splendido presagio dell'aquila.'
>XLVIII 107> E quell'augurio ottenuto da Romolo fu un augurio da pastore, non da esperto cittadino, non inventato per dar soddisfazione alle credenze degli ignoranti, ma ricevuto da persone fededegne e tramandato ai posteri. Or bene, Romolo àugure, come leggiamo in Ennio, e suo fratello àugure anche lui, 'procedendo con gran cura, e desiderosi di regnare, si accingono all'auspicio e all'augurio. +Sul monte+ **** Remo si dedica all'auspicio e da solo attende che appaia qualche uccello; dal canto suo, Romolo dall'aspetto divino osserva il cielo sull'alto Aventino, attende la stirpe degli altovolanti. Gareggiavano per decidere se dovessero chiamare la città Roma o Rémora; tutti attendevano ansiosamente chi sarebbe stato il sovrano. Aspettano, come quando il console sta per dare il segnale nella corsa dei carri, tutti guardano avidamente le aperture dei cancelli, >108> attenti al momento in cui lascerà uscire dalle dipinte imboccature i carri: allo stesso modo il popolo aspettava coi volti pallidi nell'attesa degli eventi, chiedendosi a quale dei due sarebbe toccata la vittoria nella gara per il gran regno. Frattanto il sole lucente si calò nelle profondità della notte. Ed ecco, la fulgida luce riapparve raggiante, spinta fuori nel cielo; e nello stesso tempo, lontano, dall'alto, volò un uccello bellissimo, di buon augurio, da sinistra. Appena sorge l'aureo sole, scendono dal cielo dodici corpi sacri di uccelli, si posano su luoghi fausti e bene auguranti. Da ciò Romolo comprese che a lui era stata data la preferenza, che in seguito all'auspicio gli era assicurato il seggio regale e il territorio.'
>XLIX 109> Ma, per ritornare al punto da cui ha preso le mosse il mio discorso, anche se io non fossi per nulla in grado di spiegare perché avviene ciascuno di questi fatti, e dimostrassi soltanto che i fatti che ho menzionato avvengono, sarebbe debole la mia replica a Epicuro e a Carneade? Ebbene, che diremo se esiste anche la spiegazione, facile quella delle profezie ottenute mediante l'arte, alquanto più oscura, in verità, quella delle profezie derivanti da esaltazione divina? Le profezie ricavate dalle viscere, dai fulmini, dai portenti, dagli astri si basano sulla registrazione di osservazioni costanti; e in ogni campo la lunga durata, accompagnata da lunga osservazione, ci procura straordinarie conoscenze. Queste si possono ottenere anche senza l'intervento e l'impulso degli dèi, quando, con frequenti esperienze, si arriva a capire che cosa accada in conseguenza di ciascun segno e quale sia il valore di premonizione di ciascun fenomeno. >110> L'altra forma di divinazione, l'ho già detto, è quella naturale. Essa, con sottili ragionamenti riguardanti la scienza della natura, va riferita all'essenza degli dèi, dalla quale, secondo i pensatori più dotti e sapienti, noi abbiamo tratto le nostre anime, come se le avessimo aspirate o bevute; e poiché il Tutto è compenetrato e riempito di spirito eterno e di intelligenza divina, avviene necessariamente che le anime umane subiscano l'effetto della loro affinità con le anime divine. Ma, nello stato di veglia, le nostre anime devono occuparsi delle necessità della vita, e quindi si disgiungono dalla comunanza con la divinità, impedite come sono dai legami corporei. >111> Soltanto poche persone sono capaci di astrarsi dal corpo e di innalzarsi, mettendo in opera tutte le loro energie, fino alla conoscenza delle cose divine. Le profezie di costoro non dipendono da afflato divino, ma da ragionamento umano: essi prevedono i fenomeni che avverranno per cause naturali, come le alluvioni o quella deflagrazione del cielo e della terra che un giorno avverrà; altri fra costoro, avendo pratica di cose politiche, sanno prevedere con molto anticipo il sorgere di una tirannide, come sappiamo che fece l'ateniese Solone. Questi li possiamo chiamare 'prudenti', cioè 'preveggenti', ma certamente non dotati di divinazione. Lo stesso si può dire di Talete di Mileto, il quale, per mettere a tacere i suoi denigratori e per mostrar loro che anche un filosofo, se gli aggrada, può far guadagni, comprò - si racconta - tutti gli olivi del territorio di Mileto prima che incominciassero a fiorire. >112> Si era forse accorto, per certe sue osservazioni scientifiche, che gli olivi avrebbero dato un ottimo raccolto. Fu anche Talete che, a quanto si dice, previde per primo un'eclissi di sole, che in effetti avvenne sotto il regno di Astiage.
>L> Molte previsioni giuste le fanno i medici, molte i naviganti, molte anche i contadini, ma nessuna di esse io chiamo divinazione: nemmeno quella famosa previsione con cui il filosofo della natura Anassimandro avvertì gli spartani di lasciare la città e le case e vegliare armati nei campi, poiché era imminente un terremoto: e in realtà tutta la città fu rasa al suolo e il contrafforte estremo del monte Taigeto fu divelto come la poppa di una nave. Nemmeno Ferècide, il famoso maestro di Pitagora, dovrà essere considerato come un profeta anziché come un filosofo della natura, per aver detto che erano imminenti dei terremoti dopo che ebbe esaminato dell'acqua attinta da un pozzo perenne. >113> La divinazione naturale, l'anima umana non la compie se non quando è talmente sciolta e libera da non avere assolutamente alcun legame col corpo. Ciò accade soltanto ai vaticinanti e ai dormienti. Perciò questi due generi di divinazione sono ammessi da Dicearco e dal nostro Cratippo, come ho detto. Se essi li ammettono perché derivano dalla natura, diciamo pure che sono i più importanti, purché non gli unici; ma se ritengono che l'osservazione dei segni profetici non valga nulla, sopprimono molti indizi utili per la condotta della vita. Ma poiché concedono qualcosa e non di poco conto [le profezie in stato di esaltazione e i sogni], non c'è alcun motivo, per noi, di discutere violentemente con essi, tanto più che vi sono quelli che non ammettono alcuna divinazione!
>114> Dunque quelli le cui anime, sprezzando il corpo, volano via e trascorrono fuori, infiammati ed eccitati da una sorta di ardore, vedono senza dubbio le cose che dicono nei loro vaticinii. Anime di questo genere, capaci di non rimanere attaccate ai corpi, sono infiammate da molte cause. Vi sono, per esempio, quelle che subiscono l'eccitazione di qualche voce melodiosa o dei canti frigi. Molte sono esaltate dalla vista dei boschi e delle foreste, molte dai fiumi o dai mari; e la loro mente, in un accesso di follia, vede il futuro molto prima che accada. A questo tipo di divinazione si riferiscono quei famosi versi: 'Ahimè, guardate! Qualcuno ha giudicato un giudizio memorabile fra tre dèe; e per quel giudizio arriverà una donna spartana, una delle Furie.'
Allo stesso modo molte profezie sono state spesso fatte da vaticinanti, e non solo in prosa, ma anche 'coi versi che un tempo cantavano i Fauni e i vati.' >115> Similmente i vati Marcio e Publicio cantarono oracoli, a quanto si dice; e allo stesso modo furono profferiti gli enigmi di Apollo. Credo anche che dalle fenditure della terra uscissero esalazioni che inebriavano le menti e le inducevano a effondere oracoli.
>LI> E questo è il modo di profetare dei vati, non dissimile, invero, da quello dei sogni. Ciò che accade ai vari da svegli, accade a noi quando dormiamo. Nel sonno l'anima è in pieno vigore, libera dai sensi e da ogni preoccupazione che la frastorni, poiché il corpo giace come se fosse morto. E poiché l'anima esiste da sempre e ha avuto rapporti con altre innumerevoli anime, vede tutto ciò che esiste nell'universo, purché, grazie a un cibo leggero e a bevande modiche, si trovi nella condizione di essere essa desta mentre il corpo è immerso nel sonno. Questo è il genere di divinazione di chi sogna.
>116> E qui si fa valere un'importante interpretazione dei sogni [dovuta ad Antifonte], e anche degli oracoli e dei vaticinii: un'interpretazione basata non sulla natura, ma sull'arte: ché vi sono interpreti di queste profezie, come i filologi sono interpreti dei poeti. Giacché, come la natura divina avrebbe creato invano l'oro e l'argento, il rame, il ferro, senza poi insegnare il modo di arrivare ai loro giacimenti, e senza alcuna utilità avrebbe dato al genere umano le messi della terra e i frutti degli alberi, se non ne avesse insegnato la coltivazione e la conservazione, e a nulla servirebbe il legname, se non sapessimo l'arte di fabbricare con esso tante cose, allo stesso modo con ogni beneficio che gli dèi hanno dato agli uomini è stata congiunta un'arte grazie alla quale quel beneficio potesse essere goduto. Dunque anche ai sogni, ai vaticinii, agli oracoli, poiché presentavano molte oscurità e ambiguità, furono fornite le spiegazioni degli interpreti.
>117> In qual modo, poi, i vati o quelli che sognano vedano le cose che ancora non esistono in alcun luogo, è oggetto di un'ardua discussione. Ma se indaghiamo ciò che dovrà essere discusso preliminarmente, la soluzione diverrà più facile. Tutto questo problema, difatti, fa parte di quel più vasto argomento riguardante la natura degli dèi, che tu hai spiegato con gran chiarezza nel libro secondo della tua opera. Se ci atterremo a quei princìpi, rimarrà accertato ciò di cui fa parte la questione che stiamo indagando adesso. Si trattava di questo: gli dèi esistono; il mondo è governato dalla loro provvidenza; essi si curano delle cose umane, non solo nel loro insieme, ma anche per ciò che riguarda i singoli individui. Se teniamo fermi questi punti, che a me non sembrano confutabili, senz'altro è necessario che gli dèi facciano sapere il futuro agli uomini.
>LII 118> Ma bisogna precisare in che modo ciò
avvenga. Gli stoici non ammettono che la divinità si occupi delle singole
fenditure del fegato delle tante vittime o dei singoli canti degli uccelli (ciò
non sarebbe decoroso né degno degli dèi né possibile in alcun modo), ma
ritengono che il mondo sia stato formato fin dall'inizio in modo che
determinati eventi fossero precorsi da determinati segni, alcuni nelle viscere,
altri nel volo degli uccelli, altri nei fulmini, altri nei prodigi, altri negli
astri, altri nelle visioni in sogno, altri ancora nelle grida degli invasati.
Coloro che sanno comprendere bene questi segni, di rado s'ingannano; le
profezie e le interpretazioni compiute inesattamente vanno a vuoto non per
difetto della realtà, ma per imperizia degli interpreti. Posto e concesso
questo principio, che esiste una forza divina la quale dà regola alla vita
umana, non è difficile supporre in che modo avvengano quelle cose che, come
vediamo, avvengono senza dubbio. Per esempio, a scegliere una vittima può
esserci guida un intelletto divino che pervade tutto il mondo; e proprio
nell'istante in cui stai per immolare la vittima può avvenire nelle sue viscere
un mutamento, in modo che qualcosa manchi o sia di troppo: bastano alla natura
pochi istanti per aggiungere o mutare o togliere qualcosa. >119> A impedirci di dubitare di ciò,
una prova decisiva è data da quel che accadde poco prima della morte di Cesare.
Quando compi un sacrificio in quel giorno in cui per la prima volta sedette su
un seggio dorato e si mostrò in pubblico con una veste purpurea, tra le viscere
della vittima, che era un bove ben pasciuto, non si trovò il cuore. Credi
dunque che possa esistere un animale dotato di sangue che non abbia il cuore?
Dalla stranezza di questo fatto egli
>LIII 120> E lo spirito divino produce analoghi effetti sugli uccelli, in modo che gli 'alati' volino ora in una direzione ora in un'altra, si nascondano ora in un luogo ora in un altro, e gli 'uccelli profetici' cantino ora da destra ora da sinistra. Ché se ogni animale muove il proprio corpo a suo piacimento, mettendosi ora prono, ora di fianco, ora supino, e piega, contorce, stende, contrae le membra in ogni direzione da lui voluta, e spesso esegue questi movimenti, si può dire, prima ancora di averci pensato, quanto più facile dev'essere ciò alla divinità, al cui volere tutto obbedisce! >121> È anche la divinità quella che ci invia quei segni che in grandissimo numero ci tramanda la storia. Ad esempio leggiamo profezie come queste: se la luna avesse avuto un'eclissi poco prima che il sole sorgesse nella costellazione del Leone, Dario e i persiani sarebbero stati sconfitti in guerra da Alessandro coi suoi macedoni e Dario sarebbe morto; se fosse nata una bambina con due teste, vi sarebbero state sommosse popolari, corruzioni e adulteri nelle famiglie; se una donna avesse sognato di partorire un leone, lo Stato in cui ciò fosse avvenuto avrebbe subìto una sconfitta da un popolo straniero. Dello stesso tipo è anche il fatto narrato da Erodoto, che il figlio di Creso si mise a parlare mentre prima era muto: per il qual prodigio il regno di suo padre e la dinastia andarono del tutto in rovina. Che a Servio Tullio, mentre dormiva, brillò una fiamma sulla testa, quale storia non lo racconta? Come, dunque, chi si abbandona al sonno con animo ben preparato sia da buoni pensieri, sia da cibi che predispongono alla tranquillità, vede in sogno cose certe e vere, così l'anima di chi, nella veglia, si mantiene casto e puro è meglio disposta a cogliere la verità insita negli astri, nel volo degli uccelli e negli altri segni, nonché nelle viscere degli animali.
>LIV 122> Questo è appunto ciò che sappiamo riguardo a Socrate e che egli stesso dice in tanti passi delle opere dei suoi discepoli: che in lui c'era qualcosa di divino, da lui chiamato dèmone, al quale egli sempre obbediva, e che non lo sospingeva mai a fare qualcosa, ma spesso lo distoglieva. E proprio Socrate (della cui autorità quale altra potrebb'essere migliore?), quando Senofonte gli chiese se dovesse andare in guerra al seguito di Ciro, gli espose prima la propria opinione, e poi aggiunse: 'Il mio è il consiglio di un uomo; ma, trattandosi di cose oscure e incerte, ritengo che si debba ricorrere all'oracolo di Apollo,' al quale, anche gli ateniesi ricorrevano sempre per le questioni statali più importanti. >123> Di Socrate si legge anche che, avendo visto un giorno il suo amico Critone con un occhio bendato, gli chiese che cosa gli era successo. Critone gli disse che, mentre passeggiava in campagna, un ramoscello da lui scostato e poi lasciato libero gli era andato a colpire l'occhio. E Socrate: 'Ecco, non mi hai dato retta quando ti dicevo di non andare in campagna, e te lo dicevo per quell'ammonimento divino che spesso mi viene in aiuto.' Ancora Socrate, quando gli ateniesi guidati da Lachete avevano subìto una sconfitta presso Delio, ed egli batteva in ritirata insieme con Lachete, allorché furono giunti a un trivio, non volle prender la strada che prendevano gli altri. E siccome quelli gli chiesero perché non seguitava per il loro stesso cammino, rispose che il dèmone lo sconsigliava. E in effetti quelli che avevano proseguito la fuga per l'altra strada si trovarono alle prese con la cavalleria nemica. Antipatro ha raccolto moltissimi casi in cui Socrate dette mirabile prova della sua capacità di prevedere il futuro; io li tralascerò: tu li conosci, io non ho bisogno di rammentarli per il mio scopo. >124> Ma un detto solo, splendido e, direi, divino, voglio ricordare di quel filosofo: condannato da un'empia sentenza, disse che moriva con piena serenità, perché, né quando era uscito di casa, né quando era salito sulla tribuna dalla quale aveva pronunciato la sua difesa, aveva ricevuto dal dèmone alcuno dei soliti segni premonitori di qualche male.
>LV> Questo è, in verità, il mio parere: sebbene molte volte coloro che hanno fama di indovini esperti nell'osservazione dei segni o nella previsione del futuro cadano in errore, tuttavia la divinazione esiste; gli uomini, del resto, possono sbagliarsi in quest'arte, come in tutte le altre. Può accadere che un segno dato come dubbio sia interpretato come sicuro; può rimanere inosservato un segno, o un altro contrastante col primo. Ma per dimostrare la tesi che io sostengo è sufficiente che si accerti l'esistenza, nemmeno di una maggioranza di previsioni e predizioni avveratesi ma anche solo di una minoranza. >125> Anzi, non esiterei a dire che, se un unico fatto qualsiasi è stato predetto e presentito in modo che, venuti al punto, si verifichi con esatta conformità alla predizione, né in questa coincidenza alcunché possa apparire dovuto al caso, la divinazione esiste senz'altro, e tutti devono ammetterlo.
Perciò mi sembra che, come fa Posidonio, ogni capacità e maniera di divinare debba essere fatta risalire innanzi tutto alla divinità (riguardo alla quale abbiamo già detto abbastanza), in secondo luogo al fato, in terzo luogo alla natura. Che tutto avvenga per determinazione del fato, la ragione ci costringe ad ammetterlo. Chiamo fato quello che i greci chiamano #heimarmén#è, cioè l'ordine e la serie delle cause, tale che ogni causa concatenata con un'altra precedente produca a sua volta un effetto. Questa è la verità sempiterna, svolgentesi da tutta l'eternità. Stando così le cose, nulla è accaduto che non dovesse accadere, e del pari nulla accadrà le cui cause, destinate a produrre appunto quell'effetto, non siano già presenti nella natura. >126> Da ciò si comprende che il fato è da concepire, non superstiziosamente ma scientificamente, come la causa eterna in virtù della quale le cose passate sono avvenute, le presenti avvengono, le future avverranno. Per questo, grazie all'osservazione, da un lato si può nella maggior parte dei casi indicare quale effetto risulterà da una data causa (nella maggior parte dei casi, non sempre, poiché un'affermazione così perentoria sarebbe arrischiata); d'altro lato, è verosimile che le medesime cause degli eventi futuri siano scòrte da coloro che hanno visioni in stato di esaltazione o in sogno.
>LVI 127> Inoltre, siccome tutto avviene per determinazione del fato, come dimostreremo altrove, se potesse esservi un uomo capace di abbracciare col proprio intelletto l'intera concatenazione delle cause, costui saprebbe certamente tutto. Chi, infatti, conoscesse le cause degli avvenimenti futuri, necessariamente conoscerebbe tutto il futuro. Ma poiché nessuno può far questo tranne la divinità, bisogna che l'uomo si accontenti di prevedere il futuro in base ad alcuni segni che gli indicano ciò che da essi conseguirà. Il futuro non sorge all'improvviso: come lo sdipanarsi di una gomena, tale è lo scorrere del tempo che non produce nulla di nuovo e ritorna sempre al punto da cui mosse. Questo lo vedono sia coloro che hanno avuto in dote la divinazione naturale, sia coloro che con l'osservazione hanno compreso il corso degli eventi. Costoro, anche se non scorgono le cause vere e proprie, scorgono però i segni e gli indizi delle cause; per di più, con l'aiuto della memoria, dell'attenzione e di ciò che ci è stato tramandato dagli scritti dei nostri antenati, ecco che si forma quella divinazione che è chiamata artificiale, basata sull'esame delle viscere, dei fulmini, dei prodigi e dei segni provenienti dal cielo. >128> Non c'è dunque motivo di meravigliarsi del fatto che gli indovini prevedano ciò che non vi è ancora in nessun luogo; tutte queste cose vi sono, ma sono ancora lontane nel tempo. E come nei semi è ìnsita la potenza generativa delle future piante, così nelle cause sono racchiusi gli eventi futuri; il loro avvento, lo prevede la mente invasata o immersa nel sonno, o anche il ragionamento e l'interpretazione. E come quelli che conoscono il sorgere, il tramontare, i moti del sole, della luna e degli altri astri sono in grado di predire con molto anticipo in quale tempo ciascuno di quei fenomeni avverrà, così quelli che con lunghe osservazioni hanno notato lo svolgersi dei fatti e il rapporto tra segni ed eventi comprendono il futuro, o sempre, o, se ciò può sembrare arrischiato, nella maggior parte dei casi, o, se neppur questo mi si vuol concedere, almeno parecchie volte. Questi argomenti, dunque, e altri dello stesso genere a favore della divinazione, sono tratti dall'esistenza del fato.
>LVII 129> Un altro argomento, poi, si desume dalla natura che ci insegna quanto sia grande il potere dell'anima separato dalle sensazioni corporee; e ciò avviene soprattutto a chi dorme o a chi è invasato. Difatti, come le anime degli dèi, senza bisogno di avere occhi, né orecchi, né lingua, intendono reciprocamente ciò che ciascuno intende (cosicché gli uomini, anche quando esprimono tacitamente un desiderio o un voto, possono essere sicuri che gli dèi li odono), così le anime umane, quando, immerse nel sonno, sono sciolte dal corpo oppure, essendo invasate, si muovono da sé, libere, con tutto il loro vigore, vedono ciò che non possono vedere quando sono commiste al corpo. >130> Questo argomento tratto dalla natura , forse, non è facile riferirlo a quel genere di divinazione che, come si è detto, deriva dall'arte; e tuttavia Posidonio, per quanto può, scruta anche questo campo. Egli ritiene che vi siano in natura dei segni premonitori del futuro. Sappiamo, ad esempio, che gli abitanti di Ceo sono soliti, ogni anno, osservare attentamente il sorgere della Canicola e da ciò prevedere se l'annata sarà salubre o malsana, come riferisce Eraclìde Pontico: se l'astro sorgerà alquanto velato e quasi caliginoso, l'aria sarà densa e piena di vapori, sicché la respirazione risulterà penosa e nociva; se invece la costellazione apparirà chiara e lucente, vorrà dire che l'aria sarà sottile e pura, e quindi salubre. >131> Democrito, a sua volta, ritiene che gli antichi saggiamente prescrissero di osservare le viscere delle vittime immolate: dalla loro forma e dal loro colore, egli dice, si possono trarre indizi sia di salubrità dell'aria sia di pestilenza, qualche volta anche di sterilità o di fertilità dei campi. E se l'osservazione e la pratica dei fenomeni naturali è in grado di prevedere queste cose, molte altre si possono, col lungo trascorrere del tempo, scrutare e annotare. Sicché non sembra che conosca affatto la natura quello scienziato che nel #Crise# di Pacuvio viene introdotto a dire: 'Costoro che intendono il linguaggio degli uccelli e traggono la loro sapienza più dal fegato degli animali che dal proprio, io ritengo che sia meglio starli a sentire che dar loro retta.'
Perché, dimmi un poco, parli così, dal momento che tu stesso, pochi versi dopo, dici in modo eccellente:
'Qualunque sia questo essere, esso anima, forma, nutre, accresce, crea; seppellisce e accoglie in sé tutto, e di tutto, al tempo stesso, è padre; e le medesime cose sorgono da esso di nuovo e in esso si dissolvono.'
Perché, dunque, se la sede di tutti gli esseri è unica e a tutti comune, e se le anime umane sono sempre esistite e sempre esisteranno, perché, dico, non dovrebbero essere in grado di intendere quale effetto risulti da ogni singola causa e quale segno preannunci ciascun evento? Questo', concluse Quinto, 'è ciò che avevo da dire sulla divinazione.
>LVIII 132> Ora, però, dichiarerò solennemente che io non do credito ai volgari estrattori di sorti, né a quelli che fanno gl'indovini per trarne guadagno, né alle evocazioni delle anime dei morti, alle quali ricorreva il tuo amico Appio. Non stimo un bel nulla gli àuguri marsi, né gli arùspici di strada, né gli astrologi che fan quattrini presso il Circo, né i profeti d'Iside, né i ciarlatani interpreti di sogni. Essi non sono indovini per scienza ed esperienza, ma sono 'vati superstiziosi e impudenti spacciatori di frottole, incapaci o pazzi o schiavi del bisogno: gente che non sa andare per il proprio sentieruccio e pretenderebbe d'indicare la strada al prossimo. Da quelli a cui promettono ricchezze, chiedono un soldo. Da quelle ricchezze prendano per sé un soldo di ricompensa, e ci dìano, come è dovuto, tutto il resto!'
E questo lo dice Ennio, che pochi versi prima afferma che gli dèi esistono, ma ritiene che non si curino delle cose umane. Io invece, che ritengo che gli dèi non solo se ne curino ma anche ci ammoniscano e ci predicano molte cose, credo nella divinazione, quando se ne siano escluse le forme sciocche, mendaci, fraudolente.' Dopo che Quinto ebbe così finito di parlare, io dissi: 'Tu hai davvero sostenuto con bellissimi argomenti la tua tesi ****
§%@LIBRO SECONDO
>I 1> Mi sono chiesto e ho molto e lungamente riflettuto come avrei potuto giovare alla maggior parte dei miei concittadini, per non essere costretto in nessun caso a smettere di agire a vantaggio dello Stato. La soluzione migliore che mi venne in mente fu di render note ad essi le vie per raggiungere le più elevate attività dello spirito. Credo di aver già ottenuto questo scopo con molti miei libri. Nell'opera intitolata #Orten#sio ho esortato i lettori, quanto più ho potuto, allo studio della filosofia; nei quattro #Libri Accademici #ho mostrato quale sia, a mio parere, l'indirizzo filosofico meno arrogante e più coerente ed elegante. >2> E poiché la base della filosofia consiste nello stabilire qual è il sommo bene e il sommo male, ho chiarito a fondo questo argomento in un'opera composta di cinque libri, in modo da far comprendere che cosa ciascun filosofo sostenesse e che cosa gli obiettassero i suoi avversari. Nei libri delle #Discussioni Tusculane, #venuti sùbito dopo, altrettanti di numero, ho esposto ciò che soprattutto è necessario a raggiungere la felicità. Il primo di essi tratta del disprezzo della morte; il secondo del modo di sopportare il dolore fisico; il terzo del mitigare le afflizioni dello spirito; il quarto di tutte le altre perturbazioni dell'anima; il quinto affronta quell'argomento che più di tutti dà splendore alla filosofia, giacché dimostra che la virtù basta a se stessa per ottenere la felicità. >3> Esposti quegli argomenti, ho portato a termine i tre libri #Sulla natura degli dèi#, nei quali questo problema è discusso da ogni punto di vista. E perché l'esposizione fosse completa e del tutto esauriente, ho intrapreso a scrivere questi due libri #Sulla divinazione. #Se ad essi aggiungerò, come mi riprometto, un'opera #Sul fato, #tutto questo problema sarà stato trattato in modo da soddisfare anche i più esigenti. A questi libri, inoltre, vanno aggiunti i sei #Sulla Repubblica, #che scrissi quando reggevo il timone dello Stato: argomento fondamentale e appartenente anch'esso alla filosofia, già trattato amplissimamente da Platone, Aristotele, Teofrasto e da tutta la schiera dei Peripatetici. E che dire della #Consolazione#? Anche a me essa arreca qualche conforto; agli altri, del pari, credo che gioverà molto. Poco fa ho inserito il, libro #Sulla vecchiezza, #che ho dedicato al mio Attico; e siccome più che mai la filosofia rende l'uomo buono e forte, il mio #Catone# è da annoverare fra i libri filosofici. >4> E se Aristotele e con lui Teofrasto, eccellenti sia per acume d'ingegno sia per facondia, aggregarono alla filosofia anche i precetti dell'arte del dire, ne risulta che le mie opere retoriche devono appartenere anch'esse alla schiera dei miei libri filosofici: vi apparterranno, dunque, i tre libri #Dell'oratore, #per quarto il #Bruto#, per quinto l'#Oratore#.
>II> A questo punto ero arrivato; al resto del lavoro mi accingevo, con animo alacre, col fermo proposito di non tralasciate alcun argomento filosofico la cui esposizione io non rendessi accessibile in lingua latina, a meno che qualche motivo più importante non si fosse frapposto. Quale servizio maggiore o migliore, in effetti, io potrei rendere alla mia patria, che istruire e formare la gioventù, specialmente in questi tempi di corruzione morale in cui è talmente sprofondata da rendere necessario lo sforzo di tutti per frenarla e ridarle il senso dei dovere? >5> Non m'illudo, beninteso, di poter raggiungere lo scopo, che non si può nemmeno pretendere, di indurre tutti i giovani a questi studi. Potessi indurvene anche pochi! La loro attività potrà pur sempre espandersi largamente entro lo Stato. Del resto, io mi considero remunerato della mia fatica anche da quelli che, già avanti negli anni, trovano conforto nei miei libri. Dal loro desiderio di leggere trae sempre maggior ardore, di giorno in giorno, il mio desiderio di scrivere; e ho saputo che essi sono più numerosi di quanto io pensassi. È anche una cosa magnifica, e un motivo di orgoglio per i romani, il non aver bisogno, per la filosofia, di opere scritte in greco; >6> e questo risultato lo raggiungerò certamente, se riuscirò a portare a termine il mio progetto.
A dire il vero, l'impulso a dedicarmi alla divulgazione della filosofia mi venne da un doloroso evento della patria: nella guerra civile non potevo né difendere lo Stato secondo il mio solito, né stare senza far nulla; e nemmeno trovavo qualcosa di meglio da fare, che fosse degno di me. Mi perdoneranno, dunque, i miei concittadini, o meglio mi saranno grati, se io, nel tempo in cui lo Stato era in potere di uno solo, non mi sono tenuto nascosto né mi sono perduto d'animo né mi son lasciato abbattere, né mi sono comportato come se fossi preso da ira verso l'uomo o verso i tempi, né, d'altra parte, ho adulato o ammirato la sorte altrui, in modo da sembrare pentito della sfortuna che mi ero procurato. Proprio questo, infatti, avevo imparato da Platone e dalla filosofia: che vi sono dei mutamenti naturali delle istituzioni politiche, per cui esse sono dominate talvolta da un gruppo di oligarchi, talaltra dalla parte popolare, in certe circostanze da un solo uomo. >7> E poiché quest'ultimo caso era accaduto al nostro Stato, io, reso privo delle mansioni politiche di un tempo, ritornai a questi studi, sia per sollevare il più possibile l'animo dall'angoscia in cui mi trovavo, sia per rendermi utile ai miei concittadini in tutto ciò che potevo. Nei miei libri facevo le mie dichiarazioni di voto, pronunciavo i miei pubblici discorsi, consideravo la filosofia come un sostituto di quella che per me era stata l'amministrazione dello Stato. Ora, poiché si ricomincia a chiedere il mio parere su questioni politiche, è doveroso occuparsi di politica, anzi, ad essa bisogna rivolgere ogni pensiero ed ogni attività, riservando allo studio della filosofia solo il tempo che rimarrà libero dai compiti e dai doveri pubblici. Ma di questo parleremo più a lungo un'altra volta; ora ritorniamo alla discussione che avevamo intrapreso.
>III 8> Dopo che mio fratello Quinto ebbe detto sulla divinazione ciò che ho riferito nel libro precedente, e ci parve di aver passeggiato abbastanza, ci mettemmo a sedere nella biblioteca che vi è nel Liceo. E io dissi: 'Con impegno, Quinto, e da vero stoico hai difeso la dottrina degli stoici; e, con mio grandissimo piacere, ti sei servito di moltissimi esempi tratti da cose romane: esempi famosi e gloriosi. Io devo dunque rispondere alle cose che hai detto; ma in modo da non affermare nulla dogmaticamente, da porre sempre dei problemi, esponendo per lo più dei dubbi e diffidando di me stesso. Se, infatti, avessi da dire qualcosa di sicuro, anch'io, che nego l'esistenza della divinazione, mi comporterei come un indovino! >9> E in verità mi fa impressione ciò che soprattutto era solito domandare Carneade: a quali oggetti si riferisce la divinazione. A quelli che si percepiscono coi sensi? Ma questi noi li vediamo, li udiamo, li gustiamo, ne sentiamo l'odore, li tocchiamo. C'è dunque in questi oggetti qualcosa che riusciamo a intuire mediante la previsione o l'esaltazione della mente anziché con le sole nostre facoltà naturali? O forse codesto presunto indovino, se fosse cieco come fu Tiresia, potrebbe dire quali cose sono bianche, quali nere? o, se fosse sordo, saprebbe distinguere le varie voci o le tonalità del canto? Dunque la divinazione non è applicabile a nessuna di quelle cose che sono oggetto di sensazione. D'altra parte, non c'è bisogno della divinazione nemmeno in ciò che è còmpito dell'attività intellettuale e pratica. Al capezzale dei malati non siamo soliti chiamare profeti o indovini, ma medici. Né quelli che vogliono imparare a suonare la cetra o il flauto ne apprendono la tecnica degli arùspici, ma dai musicisti. >10> Lo stesso ragionamento vale per le lettere e per tutte le altre materie che sono oggetto d'insegnamento. Credi forse che quelli che hanno fama di essere indovini siano capaci di dire se il sole sia più grande della terra o tanto grande quanto lo vediamo, e se la luna risplenda di luce propria o riflessa dal sole? quale movimento abbiano il sole e la luna? quali le cinque stelle che chiamiamo erranti? Quegli stessi che son ritenuti indovini non presumono di saper dire queste cose, né di pronunciarsi sulla verità o falsità delle nozioni acquisite mediante figure geometriche: queste son cose di pertinenza dei matematici, non dei profeti.
>IV> Quanto, poi, alle questioni filosofiche, ce n'è forse qualcuna a cui qualsiasi indovino sia solito dare una risposta, o per cui venga consultato allo scopo di sapere che cosa sia bene, che cosa male, che cosa indifferente? No, sono questioni proprie dei filosofi. >11> E ancora: c'è qualcuno che consulta un arùspice su un dovere da compiere, quanto al modo di comportarsi coi genitori, coi fratelli, con gli amici, di usare il proprio denaro, di gestire una carica pubblica, di esercitare una funzione di comando? Per tali problemi ci si rivolge ai saggi, non agl'indovini. E ancora: tra gli argomenti che sono trattati dai dialettici o dai filosofi della natura - se vi sia un mondo solo o più, quali siano i primi principii dell'universo dai quali ogni cosa deriva -, ce n'è qualcuno che possa essere risolto mediante la divinazione? No, la competenza in codeste cose spetta ai filosofi della natura. Come, poi, tu possa confutare il sofisma del 'mentitore', che in greco chiamano #pseudómenos#, o come possa controbattere il sorìte (che, se fosse necessario, si potrebbe chiamare in latino 'acervàle'; ma non ce n'è bisogno: come la parola stessa 'filosofia' e molte altre tratte dal greco, così 'sorìte' è un termine divenuto abbastanza usuale in latino), anche queste cose, dunque, te le insegneranno i dialettici, non gli indovini. E poi? Quando si discute sulla migliore, costituzione politica, su quali leggi e quali usanze siano utili o inutili, si faranno venire dall'Etruria gli arùspici, o la decisione spetterà a personaggi politici di alto grado e a uomini scelti, esperti di scienza dello Stato? >12> Ché se non esiste alcuna capacità divinatoria né riguardo alle cose sensibili, né a quelle di pertinenza delle varie tecniche, né a quelle che sono argomento di discussione filosofica, né a quelle che rientrano nell'ambito della politica, quale sia l'oggetto della divinazione non lo capisco proprio affatto. Una delle due: o la divinazione deve riguardare ogni cosa, o bisogna attribuirle un campo specifico di sua competenza. Ma né la divinazione riguarda ogni cosa (il ragionamento ce lo ha dimostrato), né si riesce a trovare un campo o un argomento di cui possiamo assegnarle la giurisdizione.
>V> Sta attento, dunque, se per caso non esista divinazione alcuna. C'è un verso greco assai diffuso che, quanto al significato, dice così: 'Chi prevederà bene, lo chiamerò il migliore indovino.'
Dunque un indovino sarà più bravo di un navigatore nelle previsioni del tempo, o diagnosticherà una malattia con più perspicacia di un medico, o deciderà in anticipo il modo di condurre una guerra meglio di un comandante?
>13> Ma ho notato, Quinto, che tu accortamente separi la divinazione sia dalle previsioni che potrebbero dipendere dall'abilità e dall'intelligenza, sia da tutto ciò che si potrebbe percepire mediante la sensazione o qualche tecnica particolare, e la definisci così: la predizione e il presentimento di quelle cose che sono dovute al caso. Ma, innanzi tutto, torni a imbatterti nelle stesse difficoltà: ché la previsione del medico, del navigante, del comandante di eserciti riguarda appunto eventi casuali. Dunque un arùspice o un àugure o un vaticinante o uno che ha fatto un sogno saprà prevedere la guarigione d'un ammalato, o la salvezza di una nave dal naufragio, o di un esercito da un agguato, meglio di un medico, di un navigatore, di un comandante? >14> Eppure tu dicevi che non appartiene alle prerogative del divinatore nemmeno il prevedere, in base a certi indizi, l'imminenza dei venti o delle piogge (e a questo proposito hai recitato, mostrando buona memoria, alcuni brani dei miei #Aratea#),sebbene anche tali eventi siano casuali: si avverano, difatti, per lo più, non sempre. Qual è, dunque, o in che campo si esplica il presentimento degli eventi casuali, che tu chiami divinazione? Tutto ciò che si può prevedere con la pratica o col ragionamento o con l'esperienza o con l'ipotesi ritieni di doverlo attribuire non agli indovini, ma agli esperti. Non rimane, quindi, alla divinazione nient'altro che la profezia di quegli eventi fortuiti che non possono essere preveduti con alcuna pratica o con alcuna scienza. Per esempio, se qualcuno avesse detto con molti anni di anticipo che Marco Marcello, quegli che fu console per tre volte, sarebbe perito in un naufragio avrebbe senza dubbio compiuto un atto di divinazione: ché non lo avrebbe potuto sapere per mezzo di alcun'altra pratica o scienza. La divinazione è dunque il presentimento di eventi di questo genere, dipendenti solamente dalla sorte.
>VI 15> Può dunque esservi una previsione di quegli eventi riguardo ai quali non c'è nessuna ragione per cui debbano accadere? Che altro è, in realtà, la sorte, la fortuna, il caso, l'accadimento, se non il capitare, l'accadere di qualcosa che avrebbe anche potuto capitare e accadere altrimenti? Ma in che modo, dunque, si può presentire e predire quel che avviene alla ventura, per cieco caso e per volubilità della sorte? >16> Il medico prevede l'aggravarsi di una malattia seguendo il filo di un ragionamento; e allo stesso modo il comandante prevede un agguato, il navigatore le tempeste; eppure anch'essi, non di rado, si sbagliano, pur non formandosi alcuna opinione senza una ragione ben precisa; così come il contadino, quando vede un olivo in fiore, ritiene che vedrà anche i frutti, non senza ragione; e tuttavia qualche volta si sbaglia. E se si sbagliano coloro che nulla dicono senza aver fatto qualche ipotesi e qualche ragionamento probabile, che cosa dobbiamo pensare delle profezie di quelli che predicono il futuro in base alle viscere, agli uccelli, ai prodigi, agli oracoli, ai sogni? Non voglio ancora dire quanto sia nullo il valore di questi segni: delle fenditure nel fegato delle vittime, del canto d'un corvo, del volo di un'aquila, del cader di una stella, delle grida degli invasati, delle sorti, dei sogni. Di tutte queste singole cose parlerò a suo tempo; ora discuto il problema in generale. >17> Come si può prevedere che avverrà qualcosa che non ha alcuna causa né alcun sintomo che denoti il motivo per cui avverrà? Le eclissi di sole e di luna vengono predette con anticipo di molti anni da coloro che con calcoli matematici prendono nota del moto degli astri: essi predicono ciò che la necessità delle leggi di natura attuerà. In base al movimento regolarissimo della luna, comprendono in quale momento essa, trovandosi in opposizione al sole, entri nell'ombra della terra, che è un cono di oscurità, sicché è inevitabile che essa scompaia alla nostra vista, e in quale altro momento la luna medesima, passando sotto il sole e frapponendosi tra esso e la terra, oscuri la luce del sole ai nostri occhi, e in quale costellazione ciascuno dei pianeti si troverà in ciascun tempo, e, in ciascun giorno, quale sarà il sorgere e il tramonto di una costellazione. Coloro che prevedono tutti questi fenomeni, tu sai quali ragionamenti compiano.
>VII 18> Ma quelli che predicono a qualcuno che scoprirà un tesoro o che avrà un'eredità, quali indizi seguono? In quale legge di natura è insito che ciò avverrà? E se anche questi eventi e gli altri dello stesso genere sono soggetti a una necessità di natura, che cosa c'è, in fin dei conti, che si debba credere che avvenga per caso o per mero giuoco della sorte? Nulla è tanto contrario alla razionalità e alla regolarità quanto il caso, fino al punto che mi sembra che nemmeno la divinità abbia il privilegio di sapere che cosa accadrà per caso e fortuitamente. Se, infatti, la divinità lo sa, il fatto avverrà certamente; ma se avverrà certamente, il caso non esiste. Il caso, invece, esiste; non è dunque possibile alcuna previsione di eventi fortuiti. >19> Se poi neghi l'esistenza del caso, e dici che tutto ciò che avviene e che avverrà è fatalmente determinato #ab aeterno, #devi mutare la tua definizione della divinazione, che, a quanto dicevi, è il presentimento delle cose fortuite. Se nulla può avvenire, nulla capitare, nulla attuarsi tranne ciò che da tutta l'eternità è stato decretato che avverrà in un dato tempo, a che cosa si riduce il caso? E, tolto di mezzo il caso, quale spazio rimane alla divinazione, che, tu l'hai detto, è il presentimento delle cose fortuite? È vero che dicevi anche che tutte le cose che avvengono o avverranno sono predeterminate dal destino. Certo, la parola stessa 'destino' è una parola da vecchierelle, piena di spirito superstizioso; tuttavia tra gli stoici si parla spesso di codesto destino. Di esso discuteremo un'altra volta; ora limitiamoci allo stretto necessario.
>VIII 20> Se tutto avviene per decreto del fato, a che mi serve la divinazione? Ciò che l'indovino predice, avverrà senza dubbio; sicché non so nemmeno che valore abbia il fatto che un'aquila distolse il nostro amico Deiòtaro dal proseguite un viaggio; se non fosse tornato indietro, tu dici, avrebbe dovuto dormire in quella stanza che nella notte seguente crollò, ed egli sarebbe morto sotto le macerie. Ma se era destinato che ciò accadesse, non sarebbe sfuggito a quella sciagura; se non era destinato, non vi sarebbe incorso. Quale aiuto, dunque, dà la divinazione, quale avviso utile possono darmi le sorti, le viscere, qualsiasi presagio? Se era destinato che nella prima guerra punica le due flotte romane andassero perdute, l'una per un naufragio, l'altra affondata dai cartaginesi, anche se i polli avessero dato ai consoli Lucio Giunio e Publio Claudio l'auspicio più favorevole di tutti, le flotte sarebbero egualmente andate perdute. Se invece, qualora si fosse obbedito agli auspicii, le flotte non sarebbero andate perdute, non è a causa del fato che andarono perdute. Ma voi volete che tutto avvenga per decreto del fato; e allora la divinazione non vale nulla. >21> E se era destinato che nella seconda guerra punica l'esercito romano fosse distrutto presso il lago Trasimeno, si sarebbe forse potuto evitare ciò, qualora il console Flaminio avesse dato retta a quei segni e a quegli auspicii che gli vietavano di attaccar battaglia? Dunque o l'esercito andò distrutto non per decreto del fato (ché il fato non si può mutare), o, se ciò avvenne per fato (e voi dovete certamente sostenere questa tesi), anche se Flaminio avesse obbedito agli auspicii, la sciagura sarebbe egualmente accaduta. Dov'è, dunque, codesta divinazione degli stoici? Se tutto accade per decreto del fato, essa non può in nessun modo consigliarci di essere più prudenti: ché, in qualsiasi modo avremo agito, accadrà, ciò nonostante, quel che deve accadere. Se invece il corso degli eventi può essere deviato, il. fato si riduce a nulla; e allora si riduce a nulla anche la divinazione, poiché riguarda gli eventi futuri; ma nessun evento futuro accadrà con certezza, se con qualche espiazione si può fare in modo che non accada.
>IX 22> D'altronde, io credo che la conoscenza del futuro non ci sia nemmeno utile. Che vita sarebbe stata quella di Priamo, se fin da giovane avesse saputo che cosa gli sarebbe toccato da vecchio? Lasciamo da parte le leggende, vediamo fatti più vicini a noi. Nella #Consolazione #ho raccolto i più gravi casi di morte dei personaggi più famosi della nostra patria. Ebbene, omettiamo i più antichi. Ma credi che a Marco Crasso sarebbe stato utile, quando era al colmo della ricchezza e della fortuna, sapere che, dopo aver assistito all'uccisione di suo figlio Publio e alla distruzione del suo esercito, avrebbe dovuto egli stesso morire, al di là dell'Eufrate, con ignominia e disonore? O ritieni che Gneo Pompeo si sarebbe allietato dei suoi tre consolati, dei tre trionfi, della gloria acquistatasi con le più grandi imprese, se avesse saputo che, abbandonato da tutti in terra egiziana, sarebbe stato trucidato dopo la disfatta del suo esercito, e che dopo la sua morte sarebbero accadute cose che non riesco a rammentare senza piangere? >23> E Cesare? Se mediante la divinazione avesse saputo che in quel senato che per la maggior parte aveva riempito di suoi fedeli da lui nominati, nella curia di Pompeo, proprio dinanzi alla statua di Pompeo, sotto gli occhi dei suoi centurioni, sarebbe stato trucidato da eminentissimi cittadini, alcuni dei quali egli stesso aveva colmato di onori d'ogni sorta, e sarebbe rimasto lì al suolo, senza che al suo corpo non si avvicinasse non solo nessuno dei suoi amici, ma nemmeno dei suoi schiavi, - con quale angoscia avrebbe trascorso tutta la vita? Dunque il non sapere i mali futuri è certamente più utile che il saperli. >24> Ché in nessun modo si può dire, e meno che mai lo possono gli stoici: 'Pompeo non avrebbe preso le armi, Crasso non avrebbe attraversato l'Eufrate, Cesare non avrebbe scatenato la guerra civile.' Ciò vorrebbe dire che le loro morti non erano fissate dal fato. Ma voi sostenete che tutto accade secondo il fato: a niente, dunque, sarebbe servita ad essi la divinazione, e per di più avrebbero perduto ogni gioia nella loro vita anteriore alle disgrazie; che cosa, infatti, avrebbe potuto essere motivo di letizia per essi, al pensiero di come sarebbero morti? Sicché, da qualunque parte si rivolgano gli stoici, è inevitabile che tutta la loro abilità giaccia sconfitta. Se ciò che avverrà potrà avvenire in modi diversi, al caso bisogna riconoscere la supremazia; ma ciò che è casuale non può esser saputo in anticipo. Se invece è già stabilito ciò che avverrà riguardo a ogni cosa in ogni tempo, che sorta d'aiuto possono darmi gli arùspici, , dopo aver detto che mi incombono eventi funestissimi, >X 25> aggiungono, alla fine, che tutto potrà andar meglio se si compiranno riti di espiazione? Se nulla può accadere contro i decreti del fato, nulla può essere alleviato con cerimonie religiose. Lo ha inteso bene Omero, là dove ci mostra Giove che si lamenta di non poter strappare alla morte suo figlio Sarpedonte contro i decreti del fato. Uguale è il significato di quel verso greco che, quanto al significato, dice: 'Ciò che è decretato dal destino è più forte di Giove, il dio sommo.'
Il destino in generale mi sembra che sia giustamente deriso anche da un verso di un'Atellana; ma in faccende così serie non è il caso di scherzare. Concludiamo dunque la nostra argomentazione: se nessuno degli eventi che accadono per caso può essere previsto, poiché non possono avvenire sicuramente, non esiste alcuna divinazione; se invece gli eventi si possono prevedere, perché sono certi e predestinati, ancora una volta non esiste alcuna divinazione: l'hai detto tu, che la divinazione riguarda gli eventi casuali.
>26> Ma questa io la considero come la prima sortita del mio ragionamento, come quella delle truppe armate alla leggera; ora veniamo ai ferri corti e proviamo se ci riesce di attaccare alle ali la tua argomentazione.
>XI> Dicevi che vi sono due tipi di divinazione, l'uno artificiale, l'altro naturale; che il tipo artificiale consiste in parte nell'interpretazione, in parte nell'osservazione assidua; che il tipo naturale è quello che l'anima afferra o riceve dal di fuori, dalla divinità, dalla quale tutte le nostre anime attingono, ricevono, libano una parte. 1 generi di divinazione artificiale li consideravi press'a poco questi: le predizioni degli scrutatori di viscere e di quelli che interpretano il futuro dai fulmini e dai prodigi, inoltre quelle degli àuguri e di chi spiega segni e #òmina#, e insomma collocavi a un dipresso in questa categoria tutte le profezie fatte mediante interpretazione >27> Il genere naturale, invece, opinavi che fosse prodotto e, per così dire, prorompesse o dall'esaltazione della mente o dall'anima svincolata dai sensi e dalle preoccupazioni durante il sonno. Hai poi fatto derivare la divinazione in generale da tre principii: dalla divinità, dal fato, dalla natura. Ma, non riuscendo a spiegare nulla di tutto ciò, ti sei difeso adducendo una mirabile quantità di esempi immaginarii. Quanto a questo modo di procedere, voglio anzitutto dirti che non ritengo degno di un filosofo avvalersi di testimonianze che possono essere o vere per puro caso, o false e inventate in mala fede. Con argomentazioni e con ragionamenti bisogna dimostrare per qual motivo ciascuna cosa è quello che è: non in base a meri eventi, e soprattutto a eventi ai quali mi è lecito non prestar fede.
>XII 28> Incominciamo dall'aruspicìna, che io ritengo si debba osservare per il bene dello Stato e della religione professata da tutti - ma qui siamo soli, e possiamo ricercare la verità senza procurarci l'odio di alcuno, io specialmente che dubito riguardo alla maggior parte delle cose -. Esaminiamo, se sei d'accordo, innanzi tutto le viscere. È dunque possibile convincere qualcuno che quei presagi, che, dicono, sono indicati dalle viscere, siano stati appresi dagli arùspici con assidua osservazione? Quanto assidua è stata codesta osservazione? Per quanto tempo la si è potuta fare? O in che modo le singole osservazioni furono confrontate tra l'uno e l'altro arùspice, per stabilire quale parte delle viscere fosse nemica, quale 'familiare', quale fenditura denotasse un pericolo, quale un beneficio? Forse gli arùspici etruschi, quelli di Elide, gli egizi, i cartaginesi confrontarono tra loro queste osservazioni? Ma una cosa simile, a parte il fatto che non è potuta accadere, non si può nemmeno immaginare. Vediamo, infatti, che gli uni interpretano gli indizi delle viscere in un modo, gli altri in un altro: non esiste una dottrina comune a tutti. >29> E certamente, se nelle viscere c'è qualche potere che sia in grado di rivelarci il futuro, questo potere dev'essere necessariamente collegato con la natura, o determinato in qualche modo dalla volontà degli dèi e da una forza divina . Ma con la natura, così immensa e splendida, che pervade tutto l'universo e ne regola tutti i movimenti, che cosa può avere in comune non dico il fiele di un pollo (eppure non manca chi dice che i fegati dei polli forniscono i presagi più ingegnosi!), - ma il fegato o il cuore o il polmone di un toro ben pasciuto che cos'ha di congiunto con la natura, sì da poter indicare il futuro?'
>XIII 30> Democrito, tuttavia, molto spiritosamente vuol prenderci in giro, da filosofo della natura quale è; nulla di più arrogante di questa gente: 'Nessuno bada a ciò che ha davanti ai piedi; scrutano le plaghe del cielo!'
E intanto, anche Democrito ritiene che l'aspetto e il colore delle viscere ci indichino almeno la qualità di un pascolo e l'abbondanza o la scarsità di un raccolto; crede anche che le viscere denotino la salubrità dell'aria o il sopraggiungere di una pestilenza. Fortunato mortale, a cui, ne sono sicuro, non mancò mai la voglia di scherzare! È mai possibile che un tale uomo si sia divertito a spacciare sciocchezze così grosse, fino al punto da non vedere che quella asserzione sarebbe stata verosimile soltanto se le viscere di tutti gli animali avessero assunto contemporaneamente lo stesso aspetto e lo stesso colore? Ma se nello stesso momento il fegato di un animale è nitido e tondeggiante, quello di un altro è grinzoso e minuscolo, che cosa si può prevedere in base all'aspetto e al colore delle viscere? >31> O forse questo modo di divinazione è analogo a quello di Ferecide da te ricordato, il quale, avendo osservato un po' d'acqua attinta da un pozzo, disse che vi sarebbe stato un terremoto? È ancora troppo poco sfacciato, credo, il comportamento di quelli che, a terremoto già avvenuto, osano dire quale forza naturale lo abbia provocato; costoro prevedono addirittura un terremoto futuro, in base al colore di una sorgente d'acqua perenne? Molte cose di questo genere si insegnano nelle scuole, ma ti consiglierei di riflettere se sia il caso di credere a tutte. >32> Ma ammettiamo pure che quelle asserzioni di Democrito siano vere: quando mai noi investighiamo quelle cose mediante le viscere? o quando abbiamo sentito dire che un presagio di quel genere sia stato annunciato da un arùspice dopo aver osservato le viscere? Essi ammoniscono su pericoli derivanti dall'acqua o dal fuoco; predicono talvolta delle eredità, talaltra dei dissesti finanziari; esaminano le fenditure 'familiari' e 'vitali' delle viscere; osservano da ogni parte con la massima attenzione la 'testa' del fegato; se, poi, notano che essa è mancante, ritengono che nulla possa accadere di più nefasto.
>XIV 33> Tutte queste cose non hanno potuto essere osservate con costanza, come ho dimostrato sopra. Sono dunque ritrovati della tecnica, non dell'antichità, se pure esiste una tecnica riguardante cose sconosciute. Con la natura, poi, quale legame hanno? Anche ammettendo che la natura sia tutta unita da un comune consenso e formi un tutto continuo (so che questa concezione è gradita ai filosofi della natura, e specialmente a quelli che hanno sostenuto l'unità di tutto l'essere), che connessione può esserci tra il mondo e il ritrovamento di un tesoro? Se l'esame delle viscere mi fa sperare un aumento del mio patrimonio e ciò avviene per effetto della natura, in primo luogo quelle viscere sono connesse con tutto l'universo, in secondo luogo il mio guadagno è incluso nella natura. Questi filosofi della natura non si vergognano di dire cose simili? Anche se nella natura vi è una connessione di tutte le parti, cosa che io sono disposto a riconoscere (gli stoici, in effetti, hanno raccolto molti esempi a favore di questa tesi: dicono che i fegatini dei topolini aumentano di volume nell'inverno; che il puleggio arido fiorisce proprio nel giorno del solstizio d'inverno e che le vescichette si gonfiano e si rompono, e che i semi delle mele, racchiusi nell'interno dei frutti, si rivolgono verso direzioni opposte gli uni agli altri; che, inoltre, se si pizzicano alcune corde della cetra, altre risuonano anch'esse; che alle ostriche e a tutti i molluschi accade di ingrossarsi e di diminuire di volume contemporaneamente al crescere e al calare della luna; che si ritiene adatta per il taglio degli alberi la stagione invernale, nel periodo in cui la luna è calante, perché il loro legno è allora ben secco; >34> e che dire ancora degli stretti marini e delle maree, il cui flusso e riflusso è determinato dai moti della luna? Si possono citare innumerevoli esempi da cui risulta l'affinità naturale di cose distanti tra loro) - concediamo, dunque, tutto ciò, ché non ne risulta ostacolata la mia discussione; ma si può forse anche sostenere che, se una fenditura d'un certo tipo si nota in un fegato, ciò è presagio di un guadagno? In base a quale connessione naturale, a quale armonia e, per così dire, a quale consenso (che i greci chiamano #sympátheia#) vi può essere una relazione fra una fenditura d'un fegato e un mio guadagnuccio, fra un mio meschino lucro e il cielo, la terra, la natura tutta quanta?
>XV> E, se vuoi, ammettiamo anche questo, sebbene la mia causa risulterà assai indebolita quando avrò concesso l'esistenza di una qualsiasi connessione della natura con le viscere degli animali. >35> Ma anche dopo averla ammessa, come mai, domando, càpita che un tale, volendo ottenere un auspicio favorevole, sacrifichi un animale adatto al suo scopo? Questa era la difficoltà che io credevo insuperabile. E invece, con quale allegra disinvoltura viene superata! Mi vergogno non per te (anzi ammiro la tua capacità di ricordare tutte queste dottrine), ma per Crisippo, Antìpatro, Posidonio, i quali dicono precisamente quel che hai detto tu: una forza cosciente e divina, diffusa per tutto l'universo, ci guida nella scelta della vittima! Ma ancor più bella è l'idea che tu hai esposto e che viene enunciata da quei filosofi: quando uno sta per eseguire il sacrificio, proprio allora avviene un mutamento delle viscere, di modo che qualche parte di esse scompare o si aggiunge: ché tutto obbedisce al volere degli dèi. >36> Queste, crédimi, son cose a cui non prestan fede più nemmeno le vecchierelle. Pensi davvero che il medesimo vitello, se lo sceglierà un tale, lo troverà privo della 'testa' del fegato; se lo sceglierà un altro, lo troverà col fegato tutto intero? Questa scomparsa o questa aggiunta della testa del fegato può avvenire repentinamente, in modo che le viscere si prestino ad assecondare la buona sorte del sacrificatore? Non vi accorgete che nella scelta delle vittime entra in giuoco un fattore casuale, tanto più che i fatti stessi lo dimostrano? Difatti, quando si sono trovate delle viscere estremamente malauguranti, senza la testa del fegato (niente di più infausto, dicono), la vittima che viene sacrificata subito dopo presenta indizi ottimi. E allora, dove sono andati a finire i presagi minacciosi delle viscere precedenti? O come mai, all'improvviso, gli dèi si sono così interamente placati?
>XVI> Ma tu dici che tra le viscere di un toro ben pasciuto, quando Cesare lo immolò, non si rinvenne il cuore; e siccome sarebbe stato impossibile che, prima del sacrificio, quell'animale fosse vissuto privo del cuore, bisogna, a tuo avviso, ritenere che il cuore scomparve nel momento stesso in cui il toro veniva sacrifìcato. >37> Come mai tu capisci una delle due cose, cioè che un bovino non avrebbe potuto vivere senza avere il cuore, ma non comprendi l'altra, che il cuore non avrebbe potuto tutt'a un tratto volar via non so dove? Io potrei o non sapere qual è la funzione vitale del cuore, o supporre che il cuore del bove, rimpiccolito da qualche malattia, fosse esile, minuscolo, flaccido, non più simile a un cuore normale; ma tu che motivi hai di credere che, se poco prima il cuore c'era nel corpo di un toro ben pasciuto, all'improvviso sia venuto meno, proprio mentre immolavano la bestia? Forse, avendo visto Cesare che, uscito di senno, aveva indossato una veste purpurea, il toro rimase anch'esso privo di cuore? Credi a me, voi abbandonate al nemico la capitale della filosofia, mentre perdete il tempo a difendere qualche piccolo fortilizio: ostinandovi a sostenere la verità dell'aruspicina, sovvertite tutta la fisiologia. Nel fegato c'è la 'testa', tra le viscere c'è il cuore: ecco, scomparirà all'improvviso, appena avrai cosparso la vittima di farro e di vino; un dio lo sottrarrà, una forza misteriosa lo consumerà o lo divorerà. Non sarà dunque la natura quella che regolerà la morte e la nascita di tutti gli esseri, ma ci sarà qualcosa che o sorgerà dal nulla o cadrà improvvisamente nel nulla. Quale filosofo della natura ha mai detto questo? Lo dicono gli arùspici: a costoro, dunque, credi che si debba prestar fede più che ai filosofi della natura?
>XVII 38> E ancora: quando si fa un sacrificio in onore di più dèi, come mai può accadere che per alcuni il sacrificio riesca propizio, per altri no? E cos'è questa volubilità degli dèi, tale da minacciarci con le viscere del primo sacrificio, da farci sperar bene con quelle del secondo? O c'è fra loro tanta discordia, spesso anche tra divinità imparentate, sì che le viscere delle bestie immolate ad Apollo risultano gradite, quelle a Diana sgradite? Che cosa può essere così evidente come il fatto che, essendo scelte a caso le vittime condotte al sacrifizio, le viscere saranno per ciascun sacrificante tali quale sarà la vittima che gli capiterà? 'Ma,' tu risponderai, 'il fatto stesso che a ciascuno tocchi una determinata vittima ha in sé qualcosa di profetico, come, a proposito delle sorti, il fatto che a ciascuno ne càpiti una determinata.' Delle sorti parleremo in seguito, anche se, in verità, tu non rafforzi la causa dei sacrifici con l'analogia delle sorti, ma svaluti le sorti paragonandole ai sacrifici. >39> O forse, se ho mandato a prendere all'Equimelio un agnello da immolare, mi vien portato proprio quell'agnello che ha le viscere adatte al mio proposito, e lo schiavo che ho mandato è attratto verso quell'agnello non dal caso, ma da una divinità che lo guida? Ché se tu mi dici che anche in questa circostanza il caso è una specie di sorte collegata con la volontà degli dèi, mi dispiace che i nostri stoici abbiano offerto agli epicurei una così ampia possibilità di prenderli in giro; sai certamente quanto gli epicurei deridano codeste teorie. >40> E certo essi possono farlo con più facilità degli altri: giacché Epicuro si è divertito a immaginare gli dèi trasparenti e attraversabili dai soffi d'aria e abitanti tra due mondi, come 'tra i due boschi', per paura che uno dei mondi crolli loro addosso; e dice che hanno le stesse nostre membra, ma senza alcuna occasione di usarle. Egli perciò, togliendo di mezzo gli dèi con una sorta di raggiro, coerentemente non esita a toglier di mezzo anche la divinazione; ma se egli è d'accordo con se stesso, non lo sono altrettanto gli stoici. La divinità di Epicuro, non avendo niente da fare né per se stessa né per gli altri, non può concedere agli uomini la divinazione. La vostra divinità, invece, può non concederla, senza per questo rinunciare a governare il mondo e a prendersi cura degli uomini. >41> Perché, dunque, vi intricate in quei cavilli, che non sarete mai capaci di risolvere? Quando vogliono sbrigarsela più in fretta, gli stoici argomentano così: 'se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma gli dèi esistono; dunque esiste la divinazione'. Senonché riesce molto più convincente il dire: 'ma non esiste la divinazione; dunque non esistono gli dèi'. Guarda con quale avventatezza si espongono al pericolo che, se la divinazione si riduce a nulla, si riducano a nulla anche gli dèi. Ché la divinazione si elimina con tutta facilità, mentre l'esistenza degli dèi dev'essere tenuta ferma.
>XVIII 42> E quando si sia eliminata questa divinazione degli scrutatori di viscere, è eliminata tutta l'aruspicìna. Vengono poi i prodigi e i fulmini o i lampi. Quanto a questi si fa valere l'osservazione assidua, quanto ai prodigi si usa per lo più la previsione basata sul ragionamento. Che osservazioni, dunque, si sono fatte riguardo ai fulmini e ai lampi? Gli etruschi divisero il cielo in sedici parti. Fu cosa facile raddoppiare le quattro parti a cui noi ci atteniamo, poi eseguire un ulteriore raddoppiamento, in modo da poter dire, sulla base di questa ripartizione, da quale parte venisse il fulmine. Ma, in primo luogo, che cosa importa ciò? e in secondo luogo, che cosa significa? Non è evidente che in seguito alla meraviglia degli uomini primitivi, poiché temevano i tuoni e il precipitare dei fulmini, sorse in loro la credenza che ne fosse autore Giove, assoluto dominatore di tutto l'universo? Perciò nei nostri libri si trova scritto: 'Quando Giove tuona e fulmina, è contrario alle leggi divine tenere i comizi.' >43> Forse ciò fu stabilito nell'interesse dello Stato, poiché i nostri antenati vollero avere dei pretesti per non tenere i comizi. Quindi solo per i comizi il fulmine è un segno sfavorevole: per tutto il resto lo consideriamo un ottimo auspicio, se è caduto a sinistra. Ma degli auspicii parleremo in seguito; ora proseguiamo sui fulmini e sui lampi.
>XIX> Che cosa, dunque, gli studiosi della natura hanno il dovere di astenersi soprattutto dal dire, se non questa, che fenomeni certi siano preannunciati da segni incerti? Non credo, infatti, che tu sia capace di credere che i Ciclopi foggiarono il fulmine per Giove nei recessi dell'Etna: >44> sarebbe davvero strano che Giove lo scagliasse tante volte, avendone a disposizione uno solo; né egli potrebbe, mediante i fulmini, ammonire gli uomini su ciò che devono fare o non fare. Gli stoici affermano che quelle esalazioni della terra che sono fredde, quando incominciano a fluire, costituiscono i venti; quando poi penetrano in una nube e incominciano a scindere e a squarciare le sue parti meno dense, e fanno ciò con particolare frequenza e violenza, allora ecco che sorgono i lampi e i tuoni; se, poi, un fuoco prodotto dal cozzo delle nubi si sprigiona, ecco il fulmine. Dunque da ciò che vediamo prodursi per forza di natura, senza alcuna regolarità, in nessun tempo determinato, ricaveremo un presagio di necessari avvenimenti futuri? Sta a vedere che, se Giove volesse dare simili preannunci, scaglierebbe inutilmente tanti fulmini! >45> Che cosa ottiene quando scaglia un fulmine in alto mare? O su monti altissimi, ciò che avviene molto spesso? O in sterminati deserti? O nelle terre abitate da quei popoli che non osservano nemmeno questi presagi?
>XX> 'Ma la testa di quella statua fu rinvenuta nel Tevere.' Come se io negassi che codesti osservatori di fulmini abbiano una qualche perizia! È la divinazione che io nego. La ripartizione in zone del cielo, a cui ho accennato sopra, e l'esame di determinati fatti permettono di capire donde un fulmine sia provenuto, dove sia andato a finire; quale significato profetico abbia, però, nessuna dottrina sa spiegarcelo. Ma tu mi vuoi mettere alle strette coi miei versi: 'Ché il Padre altitonante, ergendosi sull'Olimpo stellato, colpì col fulmine il colle una volta a lui caro e il suo tempio, e appiccò il fuoco alla sua dimora sul Campidoglio.'
Allora la statua di Natta, allora le immagini degli dèi e Romolo e Remo con la belva che li allattò precipitarono colpiti dall'impeto del fulmine, e riguardo a questi fatti furono pronunciati dagli arùspici responsi esattissimi. >46> Un fatto straordinario fu anche quello, che proprio quando avvenne la denuncia della congiura in senato, la statua di Giove fu collocata in Campidoglio, due anni dopo che era stata commissionata. 'Tu dunque avrai il coraggio' così dicevi in polemica con me 'di difendere codesta tua causa contro quello che hai fatto e che hai scritto?' Sei mio fratello; per questo ti devo rispettare. Ma in questo caso che cosa, insomma, ti ferisce? La realtà delle cose, che è quella che ho detto, o io, che voglio che la verità sia dimostrata? Io, a ogni modo, non dico niente contro di te: chiedo conto a te di tutta l'aruspicina. Ma tu ti sei rifugiato in un magnifico nascondiglio: siccome capivi che saresti stato incalzato da presso quando io ti avessi chiesto le cause di ciascun tipo di divinazione, hai detto e ridetto che, poiché vedevi i fatti, non ti curavi di indagare la causa e il procedimento razionale; che l'importante era l'accaduto, non il perché dell'accaduto; come se io ammettessi che queste cose accadono, o come se fosse degno d'un filosofo non ricercare la causa per cui ogni singolo fenomeno avviene! >47> E a questo proposito hai recitato dei passi dei miei #Prognostici# e hai menzionato certe specie di erbe, la scammonia e la radice dell'aristolochia, delle quali constatavi l'effetto e il potere medicinale, pur ignorandone la causa.
>XXI> Ma la differenza è totale. Le cause dei pronostici le hanno indagate lo stoico Boeto, da te rammentato, e anche il nostro Posidonio; e anche se le cause di questi fatti non si fossero rintracciate, i fatti in quanto tali si sono potuti osservare e registrare. Ma gli episodi della statua di Natta o delle tavole delle Leggi colpite dal fulmine che cos'hanno che sia stato osservato più volte e da gran tempo? 'I Pinarii Natta sono nobili: dalla nobiltà, dunque, veniva il pericolo.' Davvero ingegnoso questo presagio escogitato da Giove! 'Romolo ancora lattante fu colpito dal fulmine: questo è dunque un presagio del pericolo che correva quella città che da lui fu fondata.' Con quanta abilità Giove ci avverte mediante simili indizi! 'Ma la statua di Giove veniva collocata nello stesso tempo in cui veniva denunciata la congiura.' E tu, s'intende, preferisci credere che ciò sia accaduto per volontà degli dèi anziché per caso; e l'appaltatore che aveva ricevuto da Cotta e da Torquato l'incarico di erigere quella colonna, non fu più lento del previsto per pigrizia o per mancanza di denaro, ma fu fatto indugiare dagli dèi immortali fino a quel preciso momento! >48> Non mi manca del tutto la speranza che cose di questo genere siano vere; ma non ne so nulla e voglio una dimostrazione da te. Siccome mi sembrava che per puro caso alcuni fatti fossero avvenuti così com'erano stati predetti dagl'indovini, tu hai parlato a lungo del caso, e hai detto, per esempio, che si può ottenere il 'colpo di Venere' lanciando a caso quattro dadi, ma, su quattrocento lanci, non può capitare cento volte quel colpo. Innanzi tutto non saprei perché ciò sia impossibile, ma su questo non mi soffermo a discutere, poiché hai una collezione di esempi simili. Puoi citare i colori schizzati a caso, il grifo della scrofa, tante altre cose. Dici che Carneade ricorre anch'egli al caso quanto alla testa del piccolo Pan: come se ciò non sia potuto davvero accadere per caso, e sia necessario che in ogni blocco di marmo non siano ascose perfino teste degne di un Prassitele! Quelle sculture, difatti, si eseguono anch'esse per detrazione di pezzi di marmo, e nemmeno un Prassitele vi aggiunge alcunché; ma quando molto materiale è stato eliminato dallo scalpello e si è arrivati ai lineamenti di un volto, allora si può capire che quella statua, ormai perfettamente levigata, si trovava dentro il blocco. >49> Dunque qualcosa del genere può essere avvenuto anche spontaneamente nelle cave di pietra di Chio. Ma ammettiamo pure che questo sia un esempio inventato: non hai mai visto nubi che avevano assunto le forme di leoni o di Ippocentauri? Dunque può accadere ciò che poco fa negavi: che il caso imiti la realtà.
>XXII> Ma poiché abbiamo discusso a sufficienza quanto alle viscere e ai lampi, per portare a termine la trattazione di tutta l'aruspicìna rimangono i prodigi. Hai rammentato il parto di una mula. È un fatto straordinario, perché non accade spesso; ma se non fosse potuto accadere, non sarebbe accaduto. E questo argomento valga contro tutti i prodigi: ciò che non sarebbe potuto accadere non è mai accaduto; se invece è potuto accadere, non c'è motivo di stupirsi. L'ignoranza delle cause produce meraviglia dinanzi a un fatto nuovo; se la medesima ignoranza riguarda fatti consueti, non ci meravigliamo. Colui che si meraviglia che una mula abbia partorito, ignora egualmente in che modo partorisca una cavalla e, in generale, quale processo naturale produca il parto di qualsiasi essere vivente. Ma siccome vede che questi fatti avvengono di frequente, non si meraviglia, pur non sapendone il perché; se invece avviene una cosa che egli non ha ancora visto, ritiene che sia un prodigio. Il prodigio si è dunque verificato quando la mula ha concepito, o quando ha partorito? >50> Il concepimento potrebb'essere contro natura, forse; ma il parto è pressoché necessario.
>XXIII> Ma a che scopo dilungarci? Vediamo l'origine dell'aruspicìna; così giudicheremo nel modo più facile quale autorità essa abbia. Si dice che un contadino, mentre arava la terra nel territorio di Tarquinia, fece un solco più profondo del solito; da esso balzò su all'improvviso, un certo Tagete e rivolse la parola all'aratore. Questo Tagete, a quanto si legge nei libri degli etruschi, aveva l'aspetto di un bambino, ma il senno di un vecchio. Essendo rimasto stupito da questa apparizione il contadino, e avendo levato un alto grido di meraviglia, accorse molta gente, e in poco tempo tutta l'Etruria si radunò colà. Allora Tagete parlò a lungo dinanzi alla folla degli ascoltatori, i quali stettero a sentire con attenzione tutte le sue parole e le misero poi per iscritto. L'intero suo discorso fu quello in cui era contenuta la scienza dell'aruspicìna; essa poi si accrebbe con la conoscenza di altre cose che furono ricondotte a quegli stessi principi. Ciò abbiamo appreso dagli etruschi stessi, quegli scritti essi conservano, quelli considerano come la fonte della loro dottrina. >51> C'è dunque bisogno di Carneade per confutare cose del genere? O c'è bisogno di Epicuro? Può esserci qualcuno tanto insensato da credere che un essere vivente, non saprei dire se dio o uomo, sia stato tratto di sotterra da un aratro? Se devo considerarlo un dio, perché, contro la natura degli dèi, si era nascosto sotterra, sì da veder la luce solo quando fu messo allo scoperto da un aratro? Non poteva, essendo un dio, esporre agli uomini la sua dottrina dall'alto? Se, d'altra parte, quel Tagete era un uomo, come poté vivere soffocato dalla terra? Da chi, inoltre, poté aver appreso egli stesso ciò che andava insegnando agli altri? Ma sono io più sciocco di quelli che credono a queste cose, io che perdo tanto tempo a discutere contro di loro!
>XXIV> È molto spiritoso quel vecchio motto di Catone, il quale diceva di meravigliarsi che un arùspice non si mettesse a ridere quando vedeva un altro arùspice. >52> Quante delle cose predette da costoro si sono verificate? E se qualche evento si è verificato, quali prove si possono addurre contro l'eventualità che ciò sia accaduto per caso? Il re Prusia, quando Annibale, esule presso di lui, lo esortava a far guerra a oltranza, diceva di non volersi arrischiare, perché l'esame delle viscere lo dissuadeva. 'Dici sul serio?' esclamò Annibale; 'preferisci dar retta a un pezzetto di carne di vitella che a un vecchio condottiero?' E Cesare stesso, dissuaso dal sommo arùspice dall'imbarcarsi per l'Africa prima del solstizio d'inverno, non s'imbarcò egualmente? Se non l'avesse fatto, tutte le truppe dei suoi avversari avrebbero avuto il tempo di concentrarsi in un solo luogo. Devo mettermi a fare l'elenco (e potrei fare un elenco davvero interminabile) dei responsi degli aruspici che non hanno avuto alcun effetto o lo hanno avuto contrario alle previsioni? >53> In quest'ultima guerra civile, quante predizioni, per gli dèi immortali!, ci delusero! Quali responsi di arùspici ci furono trasmessi da Roma in Grecia! Quali cose furono predette a Pompeo! E in verità egli credeva moltissimo alle viscere e ai prodigi. Non ho voglia di rammentare queste cose, e non ce n'è bisogno, meno che mai a te, che eri presente; vedi bene, tuttavia, che quasi tutto è accaduto al contrario di quel che ci era stato predetto. Ma di ciò non parliamo più; ritorniamo ai prodigi.
>XXV 54> Molti versi hai recitato, scritti da me, riguardanti l'anno del mio consolato; molte cose avvenute prima della guerra màrsica, riferite da Sisenna, hai rammentato; molte altre, narrate da Callistene, hai citato, che sarebbero accadute prima della sconfitta subìta dagli spartani a Leuttra. Di questi singoli fatti dirò qualcosa in seguito, entro i limiti che mi sembreranno opportuni; ma bisogna discutere anche la questione nel suo insieme. Che cos'è codesta indicazione e, direi, codesta minaccia di sventure, inviata dagli dèi? E che cosa vogliono gli dèi immortali, innanzi tutto col mandarci dei segni che non possiamo capire senza interpreti, in secondo luogo col predirci sventure che non possiamo evitare? Ma questo non lo fanno neppure gli uomini onesti, di preannunciare agli amici sciagure incombenti alle quali essi non possono sfuggire in alcun modo; per esempio i medici, pur rendendosene conto spesso, tuttavia non dicono mai agli ammalati che la loro malattia li condurrà certamente a morte: ché ogni predizione di un pericolo grave è da approvarsi soltanto quando alla predizione si aggiunge l'indicazione dei mezzi per poter guarire. >55> Che giovamento arrecarono i prodigi e i loro interpreti agli spartani in quei tempi remoti, ai nostri poco tempo addietro? Se dobbiamo ritenerli segnali divini, perché erano così oscuri? Se erano mandati dagli dèi perché comprendessimo che cosa sarebbe successo, bisognava che le predizioni fossero chiare; oppure, se gli dèi non volevano che noi sapessimo, non dovevano mandarci nessun segno, nemmeno occulto.
>XXVI> E in effetti ogni interpretazione, sulla quale la divinazione si basa, spesso dalle diverse mentalità degli uomini è trascinata in direzioni diverse o addirittura opposte. Come nei processi una è l'interpretazione dell'accusatore, un'altra quella del difensore, e nondimeno entrambe sono plausibili, così in tutti gli argomenti che sembra si debbano investigare mediante interpretazioni congetturali si nota la possibilità di discorsi dal significato ambiguo.
D'altra parte, di fronte a eventi prodotti talvolta dalla natura, talaltra dal caso (e spesso anche la somiglianza tra effetti della natura e del caso è fonte di errore), rivela una grande stoltezza chi li attribuisce all'azione degli dèi, senza ricercarne le cause. >56> Tu credi che a Lebadia gl'indovini della Beozia abbiano compreso, in base al canto dei galli, che la vittoria sarebbe spettata ai tebani, perché i galli son soliti tacere quando sono vinti, cantare quando sono vincitori. Dunque a una città di quella fatta Giove avrebbe dato il segnale della vittoria servendosi di miserabili galline? O forse quegli uccelli non sogliono cantare se non in caso di vittoria? 'Ma in quel caso cantavano, eppure non avevano ancora vinto: in questo,' tu dirai, 'consiste il prodigio.' Gran prodigio davvero, come se avessero cantato non i galli, ma i pesci! E qual tempo c'è in cui i galli non cantino, sia di notte sia di giorno? Se, quando sono vincitori, si sentono spinti a cantare per una sorta di gioiosa eccitazione, avrebbe potuto accadere lo stesso anche per un altro motivo di allegrezza, che li incitasse al canto. >57> Democrito spiega con parole molto appropriate la ragione per cui i galli cantano prima dello spuntare dell'alba: una volta che il cibo sia stato smaltito dallo stomaco e distribuito per tutto il corpo e assimilato, essi cantano dopo aver raggiunto un riposo ristoratore. Nel silenzio della notte, come dice Ennio, 'cantano di gioia con le rosse gole e starnazzano battendo le ali'. Poiché, dunque, questa specie di animali è tanto canora per istinto, come è venuto in mente a Callistene di dire che gli dèi hanno fatto cantare i galli come segno profetico, dal momento che la natura o il caso avrebbero potuto ottenere quello stesso effetto?
>XXVII 58> Fu riferito al senato che era piovuto sangue, che anche le acque del fiume Atrato si erano tinte di sangue, che le statue degli dèi avevano sudato. Ritieni che Talete o Anassagora o qualsiasi altro filosofo della natura avrebbe prestato fede a simili notizie? Non c'è né sangue né sudore che non fuoriesca da un corpo vivente. Ma un mutamento di colore, provocato da qualche commistione con terra, può render l'acqua estremamente simile a sangue; e l'umidità proveniente dall'esterno, come vediamo sugli intonachi dei muri quando soffia lo scirocco, può rassomigliare al sudore. Questi fatti, del resto, appaiono più numerosi e più gravi in tempo di guerra, quando c'è uno stato di paura; in tempo di pace non ci si bada altrettanto. Si aggiunga anche un'altra cosa: in momenti di terrore e di pericolo non solo ci si crede con più facilità, ma si inventano più impunemente. >59> Ma noi siamo così leggeri e sconsiderati che, se i topi han rosicchiato qualcosa (e questo è l'unico lavoro al quale si dedicano!), lo consideriamo un prodigio. Prima della guerra màrsica, siccome i topi, come hai rammentato, avevano rosicchiato degli scudi a Lanuvio, gli arùspici dissero che questo era un prodigio dei più terribili: come se ci fosse qualche differenza a seconda che i topi, i quali giorno e notte rodono qualcosa, avessero rosicchiato degli scudi o degli stacci! Se ci mettiamo per questa strada, dovrei disperare delle sorti dello Stato per il fatto che, poco tempo fa, i topi hanno rosicchiato in casa mia la #Repubblica #di Platone, oppure, se mi avessero rosicchiato il libro di Epicuro #Sul piacere#, avrei dovuto prevedere che al mercato i prezzi sarebbero rincarati.
>XXVIII 60> O ci spaventeremo se talvolta ci dicono che qualche creatura mostruosa è nata da un animale o da un essere umano? Di tutti questi fenomeni (non voglio dilungarmi troppo) una sola è la spiegazione. Tutto ciò che nasce, di qualunque genere sia, ha necessariamente origine dalla natura, di modo che, anche se risulta inconsueto, non può tuttavia essere sorto al di fuori della natura. Ricercane dunque la causa, se ci riuscirai, in qualcosa di insolito e di strano; se non ne troverai alcuna, tieni per fermo in ogni caso che nulla può avvenire senza causa, e scaccia via dal tuo animo, senza ricorrere al soprannaturale, quel terrore che ti avrà arrecato la stranezza del fatto. Così né i boati sotterranei né il fendersi della volta celeste né la pioggia di pietre o di sangue né una stella cadente né l'apparire di fiamme nel cielo ti spaventeranno. >61> Se io chiedessi a Crisippo le cause di tutti questi fenomeni, anche lui, quel famoso sostenitore della divinazione, non direbbe mai che sono avvenuti a caso, e di tutti indicherebbe una causa naturale. Nulla, infatti, può avvenire senza causa; né avviene cosa alcuna che non possa avvenire; né, se è avvenuto ciò che poteva avvenire, si può considerarlo un prodigio; dunque non esistono prodigi. Ché se si deve considerare come un prodigio ciò che avviene di rado, un uomo saggio è un prodigio: credo, in effetti, che una mula abbia partorito più spesso di quanto sia esistito un uomo saggio. Si compie, dunque, questa argomentazione: né ciò che non può essere esistito è giammai esistito, né ciò che può essere esistito è un prodigio: pertanto, non esiste alcun prodigio. >62> Una risposta di questo genere si dice che la desse, con molta arguzia, un interprete di prodigi a un tale che gli aveva riferito, come se si trattasse di un prodigio, che in casa sua un serpente si era avvolto intorno alla sbarra di chiusura d'una porta: 'Sarebbe stato un prodigio se la sbarra si fosse attorcigliata intorno al serpente!' Con questa risposta fece intendere chiaramente che nulla, che possa accadere, dev'essere considerato un prodigio.
>XXIX> Gaio Gracco scrisse a Marco Pomponio che suo padre aveva chiamato gli arùspici perché in casa sua erano stati presi due serpenti. Come mai tanto trambusto per dei serpenti e non per delle lucertole, per dei topi? Perché questi sono animali che càpita di vedere tutti i giorni, i serpenti no. Come se, dal momento che un evento può accadere, abbia importanza il considerare quanto spesso accada! Ma io non capisco una cosa: se il lasciare andar via il serpente femmina era causa di morte per Tiberio Gracco padre, il lasciare andar via il maschio era invece letale per Cornelia, perché egli lasciò andar via uno dei due serpenti? Per quel che scrive Gaio Gracco, gli arùspici non dissero affatto che cosa sarebbe avvenuto se nessuno dei due animali fosse stato lasciato andare. 'Ma' tu dirai, 'sta di fatto che sùbito dopo avvenne la morte del vecchio Gracco.' Morì, credo, a causa di qualche malattia particolarmente grave, non per aver lasciato andar via un serpente; poiché gli arùspici non sono sfortunati fino al punto che non possa accadere nemmeno una volta per caso ciò che essi hanno predetto.
>XXX 63> Di quest'altra cosa, sì, mi meraviglierei, se ci credessi, cioè del fatto che, come hai ricordato, Calcante, secondo Omero, predisse il numero degli anni della guerra di Troia in base al numero dei passeri. Su quella sua profezia così parla Agamennone in Omero (te ne do la traduzione che ho fatto in un momento di riposo):
'Non cedete, o guerrieri, e sopportate con coraggio i duri travagli, in modo che possiamo sapere se le profezie del nostro indovino Calcante abbiano una fonte d'ispirazione veridica o siano invece vane. Ché tutti quelli che non hanno abbandonato la luce per un funesto destino serbano bene nella memoria quel portento. Appena Aulide si era ricoperta di navi argoliche, che recavano rovina e sterminio a Priamo e a Troia, noi, mentre vicino a gelide acque ci propiziavamo la volontà degli dèi col sacrificio di tori dalle corna dorate sulle are fumanti, al riparo di un platano ombroso, donde sgorgava una sorgente d'acqua, vedemmo un drago dall'aspetto feroce e dalle spire gigantesche, come se per volere di Giove uscisse da sotto l'ara. Esso ghermì degli uccellini nascosti da fitte foglie, su un ramo del platano; mentre ne divorava otto, il nono - la madre degli altri - volava lì sopra con tremule strida; e anche a lei la belva dilaniò le viscere con un orrendo morso. >64> Quando poi ebbe ucciso gli uccellini così teneri e la loro madre, lo stesso padre Saturnio che lo aveva fatto uscire alla luce, lo nascose alla nostra vista e lo irrigidì ricoprendolo di una dura scorza di pietra della stessa sua forma. Noi, paralizzati dal terrore, avevamo visto l'immane mostro aggirarsi frammezzo alle are degli dèi. Allora Calcante disse con voce fiduciosa: 'Come mai, o achivi, siete rimasti d'un tratto intorpiditi dal terrore? Il creatore stesso degli dèi ci ha mandato questo prodigio, lento ad avverarsi e di esito tardivo fin troppo, ma segno di fama e di gloria perenne. Giacché, per quanti uccelli voi avete visti uccisi dall'orribile dente, per altrettanti anni di guerra noi soffriremo sotto le mura di Troia; nel decimo anno essa cadrà e pagando il fio sazierà gli achivi'. Queste cose disse Calcante; vedete che ormai sono prossime a compiersi.'
>65> Ma che sorta di augurio è questo, che dal numero dei passeri deduce per l'appunto il numero degli anni piuttosto che quello dei mesi o dei giorni? E perché basa la sua profezia sui passerotti, che non costituivano nulla di prodigioso, mentre non fa parola del drago, il quale, cosa che non poté accadere, divenne, a quanto si legge, di pietra? E infine, che analogia c'è tra un passero e un susseguirsi di anni? Giacché, quanto a quel serpente che apparve a Silla mentre compiva un sacrificio, mi ricordo di tutt'e due le cose: l'una, che Silla, in procinto di iniziare la spedizione militare, fece un sacrificio, e un serpente sbucò da sotto l'altare; l'altra, che in quello stesso giorno fu riportata una brillante vittoria, per l'accortezza non dell'arùspice, ma del comandante.
>XXXI 66> Questi tipi di prodigi non hanno niente di strano. Una volta accaduti gli eventi, vengono utilizzati come profezia mediante qualche interpretazione, sicché quei chicchi di grano ammucchiati in bocca a Mida, o le api che, come hai detto, si posarono sulle labbra di Platone bambino, non sono prodigi, ma piuttosto oggetto di previsione felicemente riuscita. Del resto, fatti simili possono essere di per sé falsi, oppure le predizioni che se ne trassero possono essersi verificate per caso. Anche quanto a Roscio può essere falso che sia stato avvolto nelle spire di un serpente, ma che nella sua culla vi fosse un serpente non è tanto strano, specialmente nel Solonio, dove i serpenti sogliono radunarsi presso il focolare, come noi al mercato. Quanto, poi, al responso degli arùspici - che non vi sarebbe stato nessuno più famoso, nessuno più insigne di lui - mi meraviglio che gli dèi immortali abbiano predetto la gloria a un futuro attore, non l'abbiano minimamente predetta a Scipione l'Africano. >67> Hai anche enumerato i prodigi riguardanti Flaminio. Che egli e il suo cavallo siano caduti tutt'a un tratto, non è davvero un gran miracolo. Quanto al fatto che l'insegna del primo manipolo di astati non poté essere divelta da terra, può darsi che il portatore dell'insegna desse prova di una certa timidezza nel divellerla, mentre l'aveva infissa di buona lena! Quanto al cavallo di Dionisio, c'era tanto da meravigliarsi per il fatto che emerse dal fiume e che delle api si posarono sulla sua criniera? Ma siccome poco dopo divenne re, ciò che era accaduto per caso assunse il valore d'un prodigio. 'Ma,' dirai ancora, 'agli spartani accadde che le armi appese nel tempio di Ercole risonassero e che a Tebe le porte del tempio di questo stesso dio, che eran chiuse, si spalancassero all'improvviso e gli scudi, che erano infissi tanto in alto nelle pareti, venissero trovati a terra.' Siccome nulla di tutto ciò poté avvenire senza qualche scossa, che ragione c'è di dire che quegli eventi accaddero per volere della divinità anziché per caso?
>XXXII 68> 'Ma a Delfi, sulla testa della
statua di Lisandro, comparve una corona di erbe selvatiche, e, per di più,
improvvisamente.' Davvero? Pensi che una corona d'erba possa essere sorta
prima che ne sia stato concepito il seme? Del resto, io credo che dell'erba
selvatica non sia stata seminata da uomini, ma ammucchiata da uccelli;
d'altronde, tutto ciò che si trova su una testa può apparire simile a una
corona. Quanto poi al fatto che le stelle d'oro, insegne di Càstore e Pollùce,
poste a Delfi, caddero e non si trovarono più in nessun luogo, come hai
rammentato, questa mi pare un'impresa di ladri piuttosto che di dèi. Che, poi,
la dispettosità di una scimmia di Dodona sia stata tramandata dagli storici
greci, è cosa che non finisce di stupirmi. >69> Che c'è di strano in questo, che quella bruttissima bestia
abbia rovesciato l'urna e sparpagliato qua e là le sorti? E gli storici dicono
che agli spartani non accadde alcun prodigio più malaugurante di questo! Quanto
a quelle predizioni fatte ai veienti, che, se il lago Albano fosse traboccato e
si fosse riversato in mare, Roma sarebbe andata incontro alla rovina; se invece
l'acqua fosse stata trattenuta, la rovina sarebbe toccata a Veio,
>XXXIII 70> Dei prodigi ho parlato anche troppo; rimangono gli auspicii e le sorti: intendo le sorti che vengono estratte a caso, non quelle che vengono largite durante un vaticinio, le quali più appropriatamente si chiamano responsi di oracoli; di questi parleremo quando saremo arrivati alla divinazione naturale. Rimane da dire qualcosa anche sui Caldei; ma innanzi tutto prendiamo in esame gli auspicii. 'È un compito imbarazzante, per un àugure, polemizzare su questo argomento!' Per un àugure marso forse sì, ma per un romano è facilissimo. Noi non siamo di quegli àuguri che predicono il futuro in base all'osservazione degli uccelli e degli altri indizi. E tuttavia credo che Romolo, il quale fondò la città prendendo gli auspicii, abbia creduto che esistesse una scienza augurale capace di prevedere il futuro (su molte cose gli antichi erravano): una scienza che, come vediamo, ha subito ormai dei mutamenti o, per l'uso stesso che se ne è fatto, o per nuove dottrine, o per il lungo tempo trascorso; si conservano però - per non urtare le credenze popolari e per il grande vantaggio che ne deriva allo Stato - le pratiche, l'osservanza dei riti, le regole, il diritto augurale e l'autorità del collegio. >71> Né io nego che siano stati meritevoli di ogni più grave pena i consoli Publio Claudio e Lucio Giunio, i quali presero il mare contro gli auspicii: era doveroso obbedire alle prescrizioni religiose e non si doveva contravvenire alle usanze patrie in modo così arrogante. Giustamente, dunque, l'uno fu condannato per giudizio del popolo, l'altro si dette egli stesso la morte. 'Flaminio', tu ancora ricordi, 'non obbedì agli auspicii, e perciò morì, lui e il suo esercito.' Ma l'anno dopo Paolo obbedì: e forse per questo scampò alla morte con tutto l'esercito nella battaglia di Canne?
E invero, anche se gli auspicii valessero (e invece non valgono affatto), certamente quelli ai quali ricorriamo noi, siano il 'tripudio' o i segni provenienti dal cielo, sono simulacri di auspicii, auspicii no di certo. >XXXIV> 'Quinto Fabio, voglio che tu mi assista nell'auspicio.' Quello risponde: 'Ho udito.' Al tempo dei nostri antenati, per questa funzione ci si valeva d'un esperto; oggi si prende uno qualsiasi. L'esperto dev'essere uno che sappia che cos'è il 'silenzio'; chiamiamo 'silenzio', nel cerimoniale degli auspicii, la situazione in cui niente turba la cerimonia. >72> Rendersi conto di ciò è còmpito del perfetto àugure; ma quello a cui viene affidata al giorno d'oggi questa mansione, quando il magistrato che prende gli auspicii ordina: 'Dimmi quando ti sembrerà che vi sia il 'silenzio'', non perde tempo né a guardare in alto né attorno; risponde sùbito che gli sembra che il 'silenzio' ci sia. Allora l'altro: 'Di' quando gli uccelli mangeranno'. 'Stanno mangiando.' Ma quali uccelli? E dove? Ha portato, dicono, i polli rinchiusi in una gabbia colui che, per questo suo ufficio, viene chiamato pullario. Questi, dunque, sono gli uccelli messaggeri di Giove! Se essi mangino o no, che valore ha? Ciò non ha alcun rapporto con gli auspicii. Ma siccome, quando mangiano, è inevitabile che qualche pezzetto di cibo caschi loro fuori dalla bocca e percuota la terra (ciò fu detto dapprima 'terripavio', poi 'terripudio'; ora è chiamato 'tripudio'), - quando dunque un pezzo di farina impastata cade dalla bocca del pollo, ecco che a colui che prende gli auspicii viene annunziato il 'tripudio solìstimo'.
>XXXV 73> Può dunque aver qualcosa di divinatorio questo auspicio, così coatto e tratto a forza? Che i più antichi àuguri non siano ricorsi a esso, lo dimostra il fatto che conserviamo tuttora un vecchio decreto del nostro collegio, secondo il quale da ogni uccello si può ottenere il 'tripudio'. Allora, sì, sarebbe un vero auspicio, a condizione che l'uccello fosse libero di mostrarsi; allora quell'uccello potrebbe sembrare un interprete e ministro di Giove; ora invece, chiuso in gabbia e stremato dalla fame, se si butta a divorare un pastone di farina, e se un pezzetto di cibo gli cade di bocca, credi che questo sia un auspicio o che in questo modo Romolo fosse solito trarre gli auspicii? >74> Non credi, inoltre, che coloro che un tempo prendevano gli auspicii compissero da sé l'osservazione di ciò che veniva dal cielo? Ora la fanno fare al pullario: quegli riferisce che è caduto un fulmine proveniente da sinistra, che consideriamo come il migliore auspicio, tranne per i comizi; questa eccezione fu stabilita per motivi politici, perché i più potenti nello Stato fossero gli interpreti dei comizi nei processi popolari o nell'approvazione delle leggi o nell'elezione dei magistrati. 'Ma,' tu obietterai, 'in séguito a una lettera inviata da Tiberio Gracco i consoli Scipione e Figulo dovettero rinunciare alla carica, perché gli àuguri avevano sentenziato che erano stati eletti con una procedura irregolare.' Ma chi nega l'esistenza di una dottrina degli àuguri? È la divinazione che io nego 'Ma gli arùspici sono indovini; quando Tiberio Gracco, a causa della morte improvvisa di colui che era stramazzato al suolo mentre raccoglieva i voti della centuria che votava per prima, li convocò in senato, essi dissero che il 'rogatore' non si era uniformato alle regole.' >75> Innanzi tutto rifletti se non si siano voluti riferire a colui che era stato il 'rogatore' della prima centuria; quello, difatti, era morto, e che ciò costituisse un'irregolarità potevano dirlo senza avere doti divinatorie, per semplice interpretazione delle regole. In secondo luogo, forse dissero così per caso, e il caso non si può mai escludere in fatti di questo genere. E in effetti, che cosa potevano sapere degli arùspici etruschi quanto al modo giusto di erigere la tenda o alle leggi sull'attraversamento del pomerio? In verità, io mi trovo d'accordo con Gaio Marcello piuttosto che con Appio Claudio - entrambi furono miei colleghi come àuguri - e ritengo che il diritto augurale, sebbene all'inizio sia stato costituito in base alla credenza nella divinazione, sia stato poi conservato e rispettato per utilità politica. |#[continua]#|
|#[LIBRO SECONDO, 2]#|
>XXXVI 76> Ma, su ciò, più a lungo altrove: ora basta. Esaminiamo piuttosto gli augurii stranieri, che non appartengono tanto alla divinazione artificiale, quanto alla superstizione. Gli stranieri, per lo più, badano a tutti gli uccelli, noi a pochissimi. Alcuni augurii sono considerati favorevoli da loro, altri dai nostri. Deiòtaro era solito chiedermi notizie sulla nostra dottrina augurale, io sulla loro. Per gli dèi immortali, quante differenze!, fino al punto che alcuni precetti erano addirittura opposti. Ed egli ricorreva agli auspicii sempre: noi, tranne nel periodo in cui abbiamo il diritto di trarre gli auspicii, ricevuto dal popolo, in qual misura vi ricorriamo? I nostri antenati stabilirono che non si procedesse ad alcuna azione di guerra senza aver prima tratto gli auspicii; ma da quanti anni ormai vengono condotte guerre da proconsoli e propretori, che non hanno diritto agli auspicii? >77> Perciò, né prendono gli auspicii prima di attraversare corsi d'acqua, né ricorrono al 'tripudio'. Dov'è andata a finire, dunque, la divinazione tratta dagli uccelli? Dal momento che le guerre sono condotte da chi non ha alcun diritto agli auspicii, sembra che tale divinazione sia stata mantenuta in vigore da chi si occupa del governo civile, soppressa nelle azioni militari. Ché quanto all'auspicio tratto dalle punte delle lance, che è esclusivamente di carattere militare, già Marco Marcello, quello che fu console cinque volte, lo trascurò del tutto: eppure fu ottimo comandante, ottimo àugure. E invero egli diceva che se talvolta voleva portare a compimento una spedizione militare, era solito viaggiare in una lettiga coperta, per non essere impedito dagli auspicii. A questo comportamento somiglia ciò che noi àuguri raccomandiamo, di far togliere dal giogo i giumenti, perché non càpiti un 'auspicio aggiogato'. >78> Che cos'altro è, questo non voler essere avvertiti da Giove, se non fare in modo che un auspicio non possa avvenire o, qualora avvenga, non sia veduto?
>XXXVII> Quell'altra cosa, poi, è estremamente ridicola: che, secondo te, Deiòtaro non si è pentito di aver dato retta agli auspicii che ricevette al momento di partire per il campo di Pompeo, poiché, tenendo fede alla lealtà e all'amicizia col popolo romano, compì il suo dovere, e considerò più importante l'onore e la gloria che il mantenimento del suo regno e dei suoi possessi. Questo io lo credo senz'altro, ma non ha niente a che vedere con gli auspicii: non fu certo una cornacchia che col suo gracchiare poté insegnargli che faceva bene a battersi per la libertà del popolo romano: era lui che ne era convinto, come dimostrò coi fatti. >79> Gli uccelli predicono eventi sfavorevoli o favorevoli; Deiòtaro, io vedo che ricorse agli auspicii della virtù, la quale vieta di badare alla fortuna, quando si deve tener fede alla parola data. Ché se gli uccelli gli predissero eventi favorevoli, lo ingannarono senza dubbio. Fu sconfitto in battaglia e costretto alla fuga al pari di Pompeo: tempi terribili! Si separò da lui: evento luttuoso! Accolse Cesare nello stesso tempo come nemico e come ospite: quale situazione più umiliante di questa? Cesare, dopo avergli strappato la tetrarchia dei Trocmi per darla a non so quale suo servitorello di Pergamo, dopo avergli tolto l'Armenia datagli dal senato, dopo essere stato da lui accolto con ospitalità suntuosissima, lasciò ridotto in miseria e l'ospite e il re. Ma sto divagando un po' troppo: ritornerò al mio argomento. Se badiamo agli eventi, che si cerca di prevedere in base al volo degli uccelli, gli eventi non furono in alcun modo favorevoli a Deiòtaro; se invece badiamo al compimento del dovere, esso fu suggerito a quel re dalla sua virtù, non dagli auspicii.
>XXXVIII 80> Lascia da parte, dunque, il lituo di Romolo, che, a quanto dici, non bruciò nemmeno in quel grandissimo incendio; non tener conto della cote di Atto Navio. Nella filosofia non dev'esserci spazio per storielle inventate. Un'altra cosa, piuttosto, sarebbe stata compito di un vero filosofo: innanzi tutto indagare la natura di tutta la teoria augurale, poi rintracciarne l'origine, infine vedere se abbia una coerenza interna. Qual è, dunque, la legge di natura che fa volare gli uccelli da ogni parte, di qua e di là, allo scopo di dare dei segni e di vietare talvolta di far qualcosa, di comandarlo talaltra, o col canto o col volo? E perché ad alcuni uccelli è stato dato il potere di fornire un auspicio valido dalla parte sinistra, ad altri da destra? E come, quando, da chi diremo che siano state scoperte queste cose? Gli Etruschi, almeno, considerano come fondatore della loro dottrina quel bimbetto spuntato su dal solco durante un'aratura; noi a chi ci appelleremo? Ad Atto Navio? Ma furono più antichi di vari anni Romolo e Remo, ambedue àuguri, come ci è tramandato. Oppure diremo che queste dottrine sono state scoperte dai pisidii o dai cilici o dai frigi? Ammetteremo dunque che genti prive di civiltà umana siano state autrici di una scienza divina?
>XXXIX 81> 'Ma tutti i re, i popoli, le genti ricorrono agli auspicii. Come se ci fosse qualcosa di tanto diffuso quanto il non capir nulla, o come se anche tu, nel giudicare su qualche problema, ti attenessi all'opinione della moltitudine! Quanti sono quelli che negano che il piacere sia un bene? secondo i più, è addirittura il sommo bene. Dunque il loro gran numero induce gli stoici ad abbandonare la loro dottrina? O, d'altra parte, la moltitudine segue per lo più, nel modo di comportarsi, l'autorità degli stoici? Qual meraviglia, dunque, se a proposito degli auspicii e di ogni genere di divinazione le menti deboli accolgono tutte queste credenze superstiziose e non sono capaci di scorgere la verità? >82> Quale coerenza, poi, basata su accordo e comunanza di idee, c'è fra gli àuguri? Uniformandosi all'usanza della nostra pratica augurale, Ennio disse: 'Allora tuonò da sinistra nel cielo perfettamente sereno.' Ma l'Aiace omerico, lamentandosi con Achille della combattività dei troiani, si esprime press'a poco così: 'Ad essi Giove diede presagi favorevoli con lampi inviati da destra.' Dunque, a noi i segni da sinistra sembrano più propizi, ai greci e ai barbari quelli da destra. Beninteso, non ignoro che i presagi favorevoli li chiamiamo talvolta 'sinistri', anche se vengono da destra; ma certamente i nostri chiamarono sinistro l'auspicio e gli stranieri lo chiamarono destro, perché nella maggior parte dei casi esso sembrava loro migliore. Che grave discordanza! >83> E che dire del fatto che dànno valore a uccelli diversi, a segni diversi, seguono metodi d'osservazione diversi, pronunciano responsi diversi? Non bisognerà ammettere che una parte di queste divergenze derivi da errori, un'altra da superstizione, molte da volontà d'imbrogliare?
>XL> E a queste superstizioni non hai esitato ad aggiungere anche i presagi tratti da certe frasi pronunciate senza intenzione: Emilia disse a Paolo che Persa era morto, e il padre intese la frase come un presagio; Cecilia disse alla figlia di sua sorella che le cedeva il proprio posto. E poi quelle altre frasi: 'Fate silenzio' e 'la centuria prerogativa, presagio dei comizi'. Questa è proprio un voler essere eloquente e facondo contro se stesso. Se ti metti a fare attenzione a codeste cose, quando potrai aver l'animo tranquillo e sgombro da ansietà, in modo da avere come guida nell'agire non la superstizione, ma la ragione? Ma davvero, se un tale dirà qualcosa appartenente ai suoi affari e a un suo discorso, e una sua parola si potrà adattare per caso a quel che farai o penserai tu, questa coincidenza ti spaventerà o ti incoraggerà? >84> Quando Marco Crasso faceva imbarcare il proprio esercito a Brindisi, un tale che, nel porto, vendeva fichi secchi di Caria provenienti da Cauno, andava gridando: '#Cauneas!#' Diciamo pure, se ti fa piacere, che quel tale ammoniva Crasso di guardarsi dal partire, e che Crasso non sarebbe morto se avesse dato retta al presagio involontario. Ma se accettiamo idee di questo genere, dovremo stare attenti a tutte le volte che inciampiamo, che ci si rompe la stringa d'una scarpa, che starnutiamo.
>XLI 85> Rimangono ancora le sorti e i Caldei, per passare poi ai profeti invasati e ai sogni. Credi dunque che ci si debba soffermare sulle sorti? Che cos'è una sorte? È press'a poco lo stesso che giocare alla morra, ai dadi, alle 'tessere': cose nelle quali vale l'azzardo e il caso, non il ragionamento o la riflessione. Tutta questa faccenda è un'invenzione ingannatrice, allo scopo di far quattrini o di fomentare la superstizione o di trarre in errore la gente. E, come abbiamo fatto a proposito dell'aruspicina, vediamo un po' la tradizione sull'origine delle sorti più famose. Gli annali di Preneste raccontano che Numerio Suffustio, uomo onesto e bennato, ricevé in frequenti sogni, all'ultimo anche minacciosi, l'ordine di spaccare una roccia in una determinata località. Atterrito da queste visioni, nonostante che i suoi concittadini lo deridessero, si accinse a fare quel lavoro. Dalla roccia infranta caddero giù delle sorti incise in legno di quercia, con segni di scrittura antica. Quel luogo è oggi circondato da un recinto, in segno di venerazione, presso il tempio di Giove bambino, il quale, effigiato ancora lattante, seduto insieme con Giunone in grembo alla dea Fortuna mentre ne ricerca la mammella, è adorato con grande devozione dalle madri. >86> E dicono che in quel medesimo tempo, là dove ora si trova il tempio della Fortuna, fluì miele da un olivo, e gli arùspici dissero che quelle sorti avrebbero goduto grande fama, e per loro ordine col legno di quell'olivo fu fabbricata un'urna, e lì furono riposte le sorti, le quali oggidì vengono estratte, si dice, per ispirazione della dea Fortuna. Che cosa di sicuro può esserci dunque in queste sorti, che per ispirazione della Fortuna, per mano di un bambino vengono mescolate e tratte su? E in che modo codeste sorti furono poste entro quella rupe? Chi tagliò, chi squadrò quel legno di quercia, chi vi incise quelle scritture? 'Non c'è nulla,' rispondono, 'che la divinità non possa fare.' Magari la divinità avesse elargito la saggezza agli stoici, per evitare che prestassero fede a tutto con superstiziosa ansia e infelicità! Ma ormai l'opinione pubblica non dà più credito a questo genere di divinazione: la bellezza e l'antichità del tempio mantiene ancora in vita la fama delle sorti prenestine, e soltanto tra il popolino. >87> Quale magistrato, oggi, o quale uomo di un certo prestigio ricorre a quelle sorti? In tutti gli altri luoghi, poi, l'interesse per le sorti si è raffreddato completamente. Ciò appare dal detto di Carneade, riferito da Clitomaco, che non aveva visto in nessun luogo una Fortuna più fortunata di quella di Preneste.
Lasciamo perdere, dunque, questa forma di divinazione, (>XLII>) veniamo alle mostruose immaginazioni dei Caldei. Eudosso, seguace di Platone, superiore a tutti nell'astronomia per concorde giudizio dei più dotti, ritiene, e lo ha scritto, che non bisogna minimamente credere ai Caldei quanto alla predizione e alla determinazione della vita di ciascuno in base ai segni del giorno della nascita. >88> Anche Panezio, l'unico degli stoici che negò fede alle predizioni astrologiche, ricorda Anchialo e Cassandro, i maggiori astronomi suoi contemporanei, i quali, mentre eccellevano in tutte le altre branche dell'astronomia, non vollero servirsi di questo genere di predizioni. Scilace di Alicarnasso, amico intimo di Panezio, astronomo eccellente e capo eminente della sua città, ripudiò tutto questo genere caldàico di predizione. >89> Ma lasciamo da parte gli autori e ricorriamo al ragionamento. Codesti difensori delle 'predizioni natalizie' dei Caldei argomentano così: è insita, dicono, nel cerchio delle costellazioni che in greco si chiama 'zodiaco', una forza di tal natura, che ciascuna parte di quel cerchio influenza e trasforma il cielo in un modo diverso, a seconda delle diverse stelle che si trovano in quelle parti e nelle parti finitime in un dato tempo; e quella forza viene variamente modificata da quelle stelle che son chiamate erranti; e quando le costellazioni sono venute in quella parte dello zodiaco coincidente con la nascita di colui che viene alla luce, oppure in una che abbia qualche contiguità o affinità con quella, le figure che allora si formano sono chiamate dagli astrologi triangoli e quadrati. Inoltre, poiché nel corso di un anno e delle varie stagioni avvengono così notevoli rivolgimenti e mutamenti del cielo per l'avvicinarsi e l'allontanarsi delle stelle, e poiché questi fenomeni che vediamo sono causati dall'influsso del sole, gli astrologi ritengono non solo verosimile, ma vero, che, a seconda della composizione dell'aria, i bambini che nascono siano animati e conformati in un certo modo, e che da essa risultino plasmati i caratteri, le qualità morali, l'anima, il corpo, lo svolgersi della vita, i casi e gli eventi di ciascuno.
>XLIII 90> Oh delirio incredibile! (ché non ogni errore può esser chiamato semplicemente 'stoltezza'). E ad essi anche Diogene stoico concede qualcosa, cioè che sappiano predire soltanto quale carattere avrà ciascun singolo nato e a quale attività sarà particolarmente idoneo; nega, invece, che si possa in alcun modo sapere tutto il resto che essi pretendono di determinare: difatti, egli dice, i gemelli hanno costituzione fisica eguale, ma vita e sorte quasi sempre differenti. Procle ed Euristene, entrambi re di Sparta, furono fratelli gemelli; ma non vissero lo stesso numero di anni (Procle morì un anno prima di suo fratello) e Procle fu molto superiore al fratello per la gloria delle imprese compiute. >91> Ma io sostengo che è impossibile sapere anche quelle cose che l'ottimo Diogene concede ai Caldei per una specie di accordo sottobanco. Se la luna, come essi stessi dicono, regola le nascite dei bambini, e i Caldei osservano e prendono nota di quelle costellazioni che influiscono sulle nascite e che appaiono in congiunzione con la luna, allora essi giudicano con l'ingannevolissima sensazione della vista ciò che avrebbero dovuto vedere col ragionamento e con l'intelletto. I calcoli degli astronomi, che costoro avrebbero dovuto conoscere, mostrano quanto sia bassa l'orbita della luna, tanto da sfiorare quasi quella della terra, quanto la luna sia lontana da Mercurio, che è la stella più vicina, e molto più lontana da Venere, e ancora un grande intervallo la separi dal sole, dalla cui luce si ritiene che sia illuminata; gli altri tre intervalli, poi, sono infiniti ed immensi: dal sole a Marte, da Marte a Giove, da Giove a Saturno; e di qui alla volta celeste, che è il limite estremo e ultimo dell'universo. >92> Quale influsso, dunque, vi può essere da una distanza pressoché infinita fino alla luna, o, piuttosto, alla terra?
>XLIV> E ancora: quando dicono - e devono dirlo per forza - che tutte le nascite di tutti coloro che son generati in ogni parte della terra abitata sono identiche, e che necessariamente accadranno le stesse cose a tutti quelli che siano nati sotto la stessa posizione del cielo e degli astri, non rivelano, codesti interpreti del cielo, di non conoscerne neanche la struttura? Poiché quelle circonferenze che dividono, per così dire, il cielo a metà e limitano la nostra visuale (i greci le chiamano #horízontes, #noi possiamo con tutta esattezza chiamarle 'limitanti') hanno la massima varietà e sono diverse da un luogo all'altro, ne consegue che la nascita e il tramonto delle costellazioni non può avvenire dappertutto nello stesso tempo.
>93> E se per il loro influsso il cielo assume ora una, ora un'altra composizione, come possono quelli che nascono ricevere una medesima impronta, dal momento che tanto grande è la dissimiglianza del cielo? In questa parte del mondo che noi abitiamo la Canicola sorge dopo il solstizio d'estate, anzi parecchi giorni dopo; ma nel paese dei trogloditi, a quanto si legge, sorge prima del solstizio; cosicché, se anche ammettiamo che l'influsso del cielo si esplichi in qualche modo su coloro che nascono in terra, gli astrologi dovrebbero pur riconoscere che coloro che nascono contemporaneamente possono avere caratteri diversi per la dissimiglianza del cielo. Ma non hanno alcuna voglia di riconoscerlo: pretendono che tutti i nati nel medesimo tempo, qualunque sia il luogo della loro nascita, siano votati alla stessa -sorte.
>XLV 94> Ma che follìa è questa, di credere che, mentre si prendono in considerazione i più grandi movimenti e mutamenti del cielo, non importino nulla le differenze tra i venti, le piogge, i climi di ciascun luogo? Perfino in località vicine tra loro tante sono le disparità tra questi fenomeni, che spesso le condizioni meteorologiche a Tuscolo sono diverse da quelle di Roma. I naviganti se ne accorgono più che mai quando, nel doppiare un promontorio, avvertono spesso un grandissimo cambiamento del vento. Perciò, se il clima è così variabile, ora sereno, ora perturbato, si può considerare sano di mente chi non dice che ciò influisca sulle nascite dei bambini (e in verità non vi influisce), ma sostiene poi che eserciti un influsso sulle nascite stesse quel non so che di evanescente, che non può in alcun modo essere oggetto di sensazione, a mala pena anche di attività pensante, cioè la composizione del cielo prodotta dalla luna e dagli altri astri? E il non capire che, ragionando così, si riduce a nulla l'influsso dei semi generativi, che ha un'importanza decisiva nel concepimento e nella procreazione, è forse un errore di poco conto? Chi, infatti, non vede che i figli ritraggono dai genitori la complessione fisica, il carattere, tanti modi di atteggiarsi da fermi e di muoversi? Ciò non accadrebbe se queste caratteristiche non provenissero dall'influsso e dall'efficacia dei generanti, ma dal potere della luna e dalla composizione del cielo. >95> E il fatto che i nati nell'identico istante hanno caratteri e vicende della vita dissimili, è forse una prova di poco conto a favore della tesi che il tempo della nascita non c'entra nulla con lo svolgimento successivo della vita? A meno che, forse, riteniamo che nessuno sia stato concepito e sia nato nello stesso momento di Scipione l'Africano. C'è stato, in effetti, qualcuno da mettergli a confronto?
>XLVI 96> Può esser messo in dubbio, poi, che molti, nati con qualche parte del corpo deforme e anormale, siano stati guariti e riportati alla normalità dalla Natura, che ha corretto se stessa, o dalla chirurgia e dalla medicina? Per esempio, ad alcuni, che avevano la lingua attaccata al palato così da non poter parlare, quell'organo è stato reso libero con un taglio di bisturi. Molti altri eliminarono un difetto di natura mediante la continua applicazione e l'esercizio, come Demetrio Falereo riferisce quanto a Demostene, il quale, non essendo in grado di pronunciare la lettera #erre#, col continuo esercizio riuscì a pronunciarla perfettamente. Se quei difetti fossero stati prodotti e trasmessi da un influsso astrale, niente li avrebbe potuti correggere. E la differenza dei luoghi non produce differenti tipi umani? Di tali differenze è facile dare esempi, mostrare quanto son diversi nel corpo e nel carattere gli indiani e i persiani, gli etìopi e i siri, a tal punto che le varietà e le dissimiglianze sono addirittura incredibili. >97> Da ciò si comprende che, riguardo alle nascite, le diverse località della terra valgono più dei contatti della luna. E quanto a ciò che si dice, che i babilonesi continuarono a osservare e a sperimentare tutti i bambini che via via nascevano per la durata di 470.000 anni, è una menzogna: se lo avessero fatto davvero per tanto tempo, non avrebbero smesso. Non abbiamo, d'altronde, alcun testimone autorevole che ci assicuri che ciò venga fatto o sappia che sia stato fatto in passato.
>XLVII> Come vedi, non riferisco le argomentazioni di Carneade, ma quelle di Panezio, il più eminente degli stoici. Io, poi, domando anche se tutti quelli che caddero nella battaglia di Canne erano nati sotto la stessa costellazione: poiché certo ebbero tutti una morte uguale. E quelli che hanno in dote un ingegno e una virtù eccezionali, nascono anche loro sotto la stessa costellazione? Quale istante c'è, in cui non nascono innumerevoli bambini? Eppure nessuno di loro è stato all'altezza di Omero. >98> E se ha importanza sapere sotto quale composizione del cielo e congiunzione delle stelle ciascun essere vivente nasca, bisogna che ciò valga non solo a proposito degli uomini, ma anche delle bestie. Si potrebbe dire una cosa più assurda di questa? Lucio Taruzio di Fermo, mio intimo amico, perfetto conoscitore della dottrina caldèa, faceva risalire anche il giorno natalizio della nostra città a quelle feste di Pale, in concomitanza delle quali si dice che essa fu fondata da Romolo, e diceva che Roma era nata mentre la luna si trovava nella costellazione della Libra, e non esitava a cantarne i destini. >99> Oh straordinaria potenza dell'errore! Anche il giorno natalizio d'una città dipendeva dall'influsso delle stelle e della luna? Ammetti pure che, riguardo a un bambino, abbia qualche importanza lo stato del cielo nel quale egli abbia tratto il primo respiro; ma la stessa cosa avrebbe potuto valere anche per i mattoni o per le pietre con cui Roma fu costruita? Ma a che scopo dilungarsi? Ogni giorno simili profezie risultano smentite. Quante cose mi ricordo che furono predette dai caldei a Pompeo, quante a Crasso, quante a Cesare stesso, poc'anzi ucciso! Nessuno di loro sarebbe morto se non da vecchio, se non nel suo letto, se non nel pieno splendore della sua gloria. Cosicché mi sembra estremamente strano che vi sia qualcuno che ancora creda a costoro, le cui predizioni egli stesso, ogni giorno, vede che sono confutate dalla realtà e dagli avvenimenti.
>XLVIII 100> Rimangono due forme di divinazione, che, a quanto si dice, ci provengono dalla natura, non dall'arte: i vaticinii e i sogni. Discutiamone,' dissi, 'Quinto, se ti piace.' Rispose Quinto: 'Certo che mi piace. In effetti io mi sento del tutto d'accordo con quel che hai sostenuto finora e, per esser sincero, quantunque le tue parole abbiano rafforzato la mia opinione, tuttavia anche prima, dentro di me, consideravo troppo superstiziosa la dottrina stoica sulla divinazione. Mi seduceva di più quest'altra teoria, quella dei peripatetici: del vecchio Dicearco e di Cratippo che attualmente è nel pieno fiore della sua fama. Essi ritengono che vi sia nelle menti degli uomini una sorta di oracolo che faccia presentire il futuro, quando l'anima o è esaltata da una divina follìa o, rilassatasi nel sonno, può muoversi liberamente e senza vincoli corporei. Sarei davvero desideroso di sentire che cosa pensi di queste forme di divinazione e con quali argomenti le confuti.'
>XLIX 101> Quando egli ebbe detto ciò, io a mia volta, quasi rifacendomi di nuovo dall'inizio, così presi a dire: 'Non ignoro, Quinto, che tu hai sempre pensato così: sei stato dubbioso sulle altre forme di divinazione, hai ritenuto vere soltanto queste due, dell'esaltazione profetica e del sogno, che sembrano derivate dalla mente libera dal gravame del corpo. Dirò, dunque, il mio parere anche su questi due generi di divinazione; ma prima cercherò di esaminare il valore dell'argomentazione logica degli stoici e del nostro Cratippo. Hai detto che Crisippo, Diogene stoico e Antipatro argomentano così: 'Se gli dèi esistono e non fanno sapere in anticipo agli uomini il futuro, o non amano gli uomini, o ignorano ciò che accadrà, o ritengono che non giovi affatto agli uomini sapere il futuro, o stimano indegno della loro maestà preavvertire gli uomini delle cose che avverranno, o nemmeno gli dèi stessi sono in grado di farle sapere. >102> Ma non è vero che non ci amino (sono, infatti, benèfici e amici del genere umano), né è possibile che ignorino ciò che essi stessi hanno stabilito e predisposto, né si può ammettere che non ci giovi sapere il futuro (ché, se lo sapremo, saremo più prudenti), né essi ritengono che ciò non si confaccia alla loro maestà (niente è, difatti, più glorioso che fare il bene), né possono essere incapaci di prevedere il futuro. Dunque, dovremmo concludere, non esistono gli dèi e non ci predìcono il futuro. Ma gli dèi esistono; dunque predìcono. E se dànno indizi del futuro, non è ammissibile che ci precludano ogni mezzo di interpretare tali indizi (ché darebbero gli indizi senza alcun frutto), né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non vi sia la divinazione. Dunque c'è la divinazione.' >103> Oh, uomini acuti! Come credono che in poche parole l'affare sia bell'e sbrigato! Per giungere alla loro conclusione, dànno per accettate delle premesse nessuna delle quali vien data loro per buona. Si deve approvare la conclusione di un ragionamento solo se il problema controverso viene risolto partendo da premesse sicure.
>L> Guarda un po' come Epicuro, che gli stoici sogliono considerare sciocco e rozzo, ha dimostrato che quello che nella natura chiamiamo 'il tutto' è infinito. 'Ciò che è finito' egli dice 'ha un'estremità.' Chi non è disposto ad ammettere questo? 'Ciò che ha un'estremità si può vedere da un punto che si trovi al di fuori.' Anche questo bisogna ammetterlo. 'Ma ciò che è il tutto non può essere veduto da un punto che si trovi al di fuori del tutto.' Nemmeno questo si può negare. 'Non avendo, dunque, alcuna estremità, è necessariamente infinito.' >104> Vedi come, prendendo le mosse da premesse che tutti ammettono, giunge a dimostrare una cosa di cui si dubitava? Non così procedete voi dialettici; e non solo non partite, per svolgere le vostre argomentazioni, da premesse che tutti concedono, ma presupponete cose che, anche se vi venissero concesse, egualmente non vi farebbero raggiungere la conclusione da voi voluta. Incominciate, difatti, con questo presupposto: 'Se gli dèi esistono, sono benèfici verso gli uomini.' Chi ve lo darà per sicuro? Forse Epicuro, il quale nega che gli dèi abbiano alcuna preoccupazione sia per gli altri, sia per se stessi? Oppure il nostro Ennio, il quale fa dire a un suo personaggio, mentre la folla degli spettatori dimostra il proprio assenso con grandi applausi: 'Io ho sempre detto e sempre dirò che esiste la stirpe degli dèi celesti, ma credo che essi non si curino di quel che fa il genere umano.' E aggiunge sùbito il motivo di questa sua opinione; ma non è necessario che io reciti il seguito; basta solamente che si capisca che costoro presuppongono come certo ciò che è dubbio e controverso.
>LI 105> Segue quest'altro assunto: che gli dèi non ignorano niente, perché tutto è stato stabilito da loro. Ma su questo punto quanta polemica c'è da parte di uomini dottissimi, i quali non ammettono che questa realtà sia stata stabilita dagli dèi! >106> 'Ma è nel nostro interesse sapere il futuro.' C'è un'ampia opera di Dicearco che sostiene che è meglio ignorare il futuro che saperlo. Ancora, gli stoici negano che sia alieno dalla maestà degli dèi. certo, andare a spiare dentro le casupole di tutti noi mortali, per giudicare che cosa sia utile a ciascuno! 'Né possono essere incapaci di prevedere il futuro.' E invece ciò è contestato da quei pensatori che ritengono che il futuro non sia predeterminato con certezza. Vedi, dunque, che i punti dubbi sono dati per certi e per ammessi da tutti? Poi rovesciano l'argomentazione e ragionano così: 'Dunque, dovremmo concludere, gli dèi non esistono né indicano il futuro': credono che non sia ammissibile altra possibilità. Poi soggiungono: 'Ma gli dèi esistono'; e anche questo non è ammesso da tutti. 'Dunque predìcono'; nemmeno questa è una conseguenza necessaria: potrebbero non darci alcuna predizione e tuttavia esistere. Aggiungono anche che, se inviano segni premonitori, non è possibile che non ci forniscano qualche mezzo per interpretarli. Ma invece anche questo è possibile, che conoscano questi mezzi, ma non li forniscano agli uomini; perché, in effetti, li avrebbero dati agli etruschi più che ai romani? 'Né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non esista la divinazione.' Ammetti pure che gli dèi ce li forniscano, il che è già assurdo: a che serve, se noi non possiamo comprenderli? Ed ecco il finale: 'Dunque la divinazione esiste.' Sia pure il finale, ma non è il raggiungimento della dimostrazione: ché da false premesse, come abbiamo appreso proprio da loro, non si può giungere alla verità. Tutta l'argomentazione, dunque, giace a terra.
>LII 107> Veniamo ora al nostro amico e ottimo uomo, Cratippo. Dice: 'Se senza occhi non può svolgersi la funzione e il còmpito degli occhi, e tuttavia può accadere talvolta che gli occhi non adempiano bene al loro còmpito, chi anche una volta sola ha usato gli occhi in modo da scorgere le cose come sono in realtà, possiede il senso della vista capace di percepire la realtà. Allo stesso modo, dunque, se, non esistendo la divinazione, non può svolgersi la funzione e il còmpito della divinazione stessa, e tuttavia può accadere talvolta che qualcuno, pur dotato di capacità divinatorie, erri e non veda la realtà, è sufficiente a dimostrare l'esistenza della divinazione che anche una volta sola un fatto sia stato divinato in modo tale da non sembrare che ciò possa in alcun modo attribuirsi al caso. Ma ci sono esempi innumerevoli di questo genere: bisogna dunque ammettere che la divinazione esiste.' Arguto e conciso! Ma dopo che per due volte ha enunciato un presupposto arbitrario, per quanto possa aver trovato in noi degli amici disposti a concedergli molto, non è tuttavia assolutamente possibile concedergli ciò che vuole 'aggiungere' nella sua argomentazione. >108> Egli dice, dunque: 'Se qualche volta gli occhi vedono male, tuttavia, siccome qualche volta hanno visto bene, sono forniti della capacità di vedere; del pari, se uno ha detto anche una volta sola qualcosa di giusto nel divinare, sebbene altre volte si sbagli, dev'essere ritenuto dotato della capacità di divinare.'
>LIII> Guarda un po', ti prego, caro Cratippo, quale somiglianza ci sia tra queste due argomentazioni; poiché io non riesco a vederla. Gli occhi, quando vedono giusto, si servono di una sensazione dataci dalla natura; le anime, se qualche volta o nell'esaltazione o nel sogno han visto cose che poi si avverano, hanno avuto dalla loro la fortuna e il caso; a meno che tu non creda che quelli che considerano i sogni nient'altro che sogni, ti concederanno che, se talvolta un sogno si avvera, ciò non sia accaduto fortuitamente. Ma concediamoti pure quei due presupposti (che i dialettici chiamano 'lemmi' con parola greca, ma io preferisco parlar latino); in ogni caso l''aggiunta' (che quelli chiamano #próslepsis#) non ti sarà concessa. >109> L'aggiunta di Cratippo è questa: 'Vi sono innumerevoli presentimenti non casuali'. Io, invece, dico che non ce n'è nemmeno uno: vedi quanto è grande il dissenso; e, una volta che quell'aggiunta non viene concessa, nessuna conclusione si può raggiungere. Ma, secondo lui, sono io uno sfrontato, nel non voler ammettere quell'aggiunta, mentre è tanto evidente. Che cosa è evidente? 'Che molte predizioni risultano vere,' risponde. E che dire allora del fatto che molte di più risultano false? Proprio questa incostanza di risultati, che è caratteristica del caso, non dovrà dimostrarci che dal caso, noti da una legge di natura, essi dipendono? Inoltre, se codesta tua argomentazione è vera, caro Cratippo (dal momento che è con te che sto attualmente discutendo), non ti accorgi che di essa possono servirsi egualmente gli arùspici, gli interpreti dei fulmini e dei prodìgi, gli àuguri, gli estrattori di sorti, i caldei? Di tutte queste forme di divinazione non ce n'è nemmeno una in base a cui, una volta su tante, l'evento non sia stato conforme alla predizione. Dunque o anche queste forme di divinazione, che tu giustissimamente ripudii, sono valide, o, se non lo sono, non capisco perché lo siano quelle due sole che tu ammetti. Grazie allo stesso ragionamento con cui tu dài il benestare a quelle, possono avere il diritto di esistere anche quelle che neghi.
>LIV 110> Quale autorità, d'altronde, può avere codesto stato di folle eccitazione che chiamate divino, in virtù del quale ciò che il savio non vede, lo vedrebbe il pazzo, e colui che ha perduto le facoltà sensoriali umane avrebbe acquisito quelle divine? Noi crediamo ai carmi della Sibilla, che essa, si dice, pronunciò in stato di esaltazione. Si credeva poco tempo fa, per una dicerìa infondata diffusasi tra la gente, che un interprete di tali carmi si apprestasse a dire in senato che colui che di fatto era già nostro re avrebbe dovuto anche ricevere il titolo regale, se volevamo esser salvi. Se questo è scritto nei libri sibillini, a quale uomo e a quale tempo si riferisce? Colui che aveva scritto quei versi aveva agito furbescamente: omettendo ogni precisazione di persona e di tempo, aveva fatto in modo che, qualunque cosa accadesse, sembrasse l'avveramento di una profezia. >111> Aveva aggiunto anche l'oscurità dell'espressione, perché gli stessi versi potessero adattarsi ora ad una cosa, ora a un'altra in diverse circostanze. Che quel carme, poi, non sia il parto di uno spirito invasato, lo rivela sia la fattura dei versi stessi (che sono un prodotto di arte raffinata e accurata, non di eccitazione e di impeto), sia quel tipo di composizione che si suol chiamare 'acrostico', nella quale, leggendo di séguito le prime lettere di ciascun verso, si mette insieme un'espressione di senso compiuto, come in alcune poesie di Ennio: 'QUINTO ENNIO FECE'. Un simile artifizio è certamente caratteristico di una mente attenta, non furente! >112> E nei libri sibillini, l'intero carme risulta dal primo verso di ciascuna frase, mettendo di séguito le prime lettere di quella frase. Questo è il modo di procedere di uno scrittore, non di un invasato; di uno che lavora con minuta accuratezza, non di un folle. Perciò teniamo ben appartata e segregata la Sibilla, in modo che, come ci è stato tramandato dai nostri antenati, senza un ordine esplicito del senato non vengano nemmeno letti i suoi libri, e servano a far abbandonare i timori superstiziosi anziché a farli sorgere. Coi sacerdoti addetti all'interpretazione di quei carmi facciamo un patto: che da quei libri tirino fuori qualsiasi cosa tranne un re, poiché d'ora in poi né gli dèi né gli uomini permetteranno che un re vi sia a Roma.
>LV> 'Ma' obietterai, 'molti hanno spesso vaticinato il vero, come Cassandra: 'E già nel vasto mare', e poco dopo: 'Ahimè, guardate!'' >113> Mi costringi dunque anche a credere alle invenzioni delle tragedie? Esse arrecheranno diletto artistico quanto vorrai, si faranno ammirare per le parole, per le frasi, per i ritmi, per la musica; ma nessuna autorità né credibilità dobbiamo attribuire a cose inventate. E allo stesso modo io sostengo che non si debba credere né a quel tale ignoto Publilio né ai vati Marcii né agli enigmi di Apollo: alcune di queste profezie sono chiaramente delle invenzioni, altre sono state proferite senza discernimento; nessuno, neanche di mediocre levatura, vi ha creduto, meno ancora le persone dotate d'ingegno. >114> 'Ma come,' dirai, 'quel rematore della flotta di Coponio non predisse appunto ciò che poi avvenne?' Certo! Predisse appunto ciò che tutti, allora, temevano che accadesse. Sentivamo dire che in Tessaglia gli accampamenti dei due eserciti erano ormai l'uno di fronte all'altro; ritenevamo che l'esercito di Cesare avesse più sfrenato ardire, poiché aveva preso le armi contro la patria, e più forza per la lunga esperienza nel guerreggiare; l'esito della battaglia, nessuno di noi c'era che non lo temesse; ma, come si conveniva a persone dotate di fermezza d'animo, non davamo segni di timore. Quel greco invece, che c'è di strano se per un eccesso di paura, come tante volte accade, perse il controllo e il senno e uscì fuori di sé? In séguito a questa perturbazione d'animo, quelle cose che, finché era sano di mente, temeva, andava dicendo che sarebbero avvenute quand'ebbe perso la ragione. Ma, per tutti gli dèi e gli uomini, è più verosimile che la volontà degli dèi immortali sia stata prevista da un rematore impazzito o da qualcuno di noi che allora eravamo lì, da me, da Catone, da Varrone, da Coponio stesso?
>LVI 115> Ma eccomi giunto a te, 'O venerando Apollo, che occupi il vero ombelico del mondo, donde primamente uscì la profetica voce orrida, terribile.' Dei tuoi oracoli Crisippo ha riempito un intero libro: alcuni falsi, a mio parere, altri avveratisi per caso, come spessissimo avviene in qualsiasi discorso, altri tortuosi e oscuri (cosicché l'interprete ha, a sua volta, bisogno di un interprete, e la sorte stessa va indagata ricorrendo alle sorti), altri ancora a doppio senso e bisognosi dell'indagine di un dialettico. Quando fu dato quel famoso responso al più ricco dei re d'Asia: 'Creso attraversando l'Halys manderà in rovina una grande potenza' egli credette che avrebbe mandato in rovina la potenza dei nemici, mandò invece in rovina la propria: >116> si fosse verificata l'una o l'altra delle due possibilità, l'oracolo sarebbe egualmente apparso vero. Perché, d'altra parte, dovrei credere che Creso abbia mai ricevuto realmente questo responso? O perché dovrei considerare Erodoto più verace di Ennio? Erodoto non poté forse essere stato meno fantasioso a proposito di Creso di quanto lo fu Ennio a proposito di Pirro? Chi è disposto a credere che Pirro ricevé dall'oracolo di Apollo il responso: 'Dico te, Eacide, poter vincere i romani'? Innanzi tutto, Apollo non parlò mai in latino; poi, di questo responso gli autori greci non sanno nulla; inoltre, al tempo di Pirro Apollo aveva già smesso di far versi; e infine, sebbene sia sempre stata, come Ennio dice, 'Stolta la stirpe degli Eacidi - son potenti in guerra più che nella saggezza -', tuttavia Pirro avrebbe potuto capire che il doppio senso contenuto in quel verso, 'te vincere i romani', non era per nulla più favorevole a lui che ai romani. Ché quel doppio senso che ingannò Creso avrebbe potuto ingannare anche un Crisippo, ma questo, relativo a Pirro, non avrebbe ingannato neanche Epicuro.
>LVII 117> Ma, e questa è la cosa principale, come mai a Delfi non vengono più pronunciati oracoli di questo genere, e non solo ai nostri tempi, ma già da molto, di modo che niente può essere ormai oggetto di maggior disprezzo? Quando vengono messi alle strette su questo punto, rispondono che per l'antichità è svanita la forza di quel luogo, la quale produceva quelle esalazioni che esaltavano l'anima della Pizia e le facevano proferire gli oracoli. Diresti che costoro parlino del vino o della salamoia, che perdono sapore col tempo. Si tratta della. forza sprigionantesi da un luogo, e di una forza non meramente naturale, ma addirittura divina; come mai, dunque, essa è potuta svanire? 'Per il lungo tempo trascorso,' tu dirai. Ma quale durata di tempo può essere in grado di esaurire una forza divina? E, d'altra parte, che cosa può esserci di tanto divino quanto un afflato prorompente dalla terra, capace di eccitare la mente umana in modo da renderla presàga del futuro, in modo che la mente non solo lo veda con grande anticipo, ma anche lo reciti in versi ben ritmati? E quando codesta forza è svanita? Forse quando gli uomini incominciarono a essere meno crèduli? >118> Demostene, che visse circa trecento anni fa, già allora diceva che la Pizia 'filippeggiava', cioè, per così dire, prendeva le parti di Filippo. Questa frase mirava a far intendere che la Pizia era stata corrotta da Filippo. È dunque lecito credere che anche in altri responsi dell'oracolo di Delfi vi sia stato qualcosa di non veritiero. Ma, non so come, sembra che questi filosofi superstiziosi e, starei per dire, fanatici vogliano a tutti i costi far la figura degli sciocchi. Vi ostinate a sostenere che è svanita ed estinta una forza che, se mai vi fosse stata, sarebbe senza dubbio eterna, piuttosto che rinunciare a credere cose incredibili.
>LVIII 119> Un errore analogo si commette a proposito dei sogni. Da quanto lontano prendono le mosse nel difenderli! Sostengono che le nostre anime siano divine, e derivino dal di fuori di noi, e che il mondo sia pieno di una moltitudine di anime 'consenzienti': quindi, in virtù della natura divina dell'anima in quanto tale e della sua connessione con le anime che riempiono l'universo, sarebbe possibile vedere il futuro. Zenone ritiene che l'anima si contragga e, in certo senso, scivoli giù e giaccia, e che appunto in ciò consista il sonno. Già Pitagora e Platone, autori di sommo valore, consigliano di andare a dormire predisposti da un regime di vita e da un'alimentazione appropriata, allo scopo di vedere in sogno cose più rispondenti al vero; i pitagorici prescrivono di astenersi assolutamente dal mangiar fave, come se quel cibo gonfiasse l'anima, non il ventre. Ma, non so come, non si può immaginare nulla di tanto assurdo che non sia sostenuto da qualche filosofo. >120> Riteniamo dunque che le anime dei dormienti si muovano da sé mentre sognano, oppure che, come sostiene Democrito, siano colpite da visioni esterne ed estranee? Sia vera questa opinione o quell'altra, rimane il fatto che moltissime cose false possono apparir vere a chi sogna. Anche ai naviganti sembra che si muovano cose che stanno ferme; e, per una sensazione degli occhi deviati, l'unica luce di una lucerna può apparire doppia. E che dire dei pazzi, o degli ubriachi? Quante visioni fallaci essi hanno! Ma se non si deve credere a visioni di questo genere, non capisco perché si debba credere ai sogni. Giacché, se volessimo, potremmo sostenere a proposito di questi errori visivi le stesse cose che si sostengono a proposito dei sogni, e, di conseguenza, potremmo dire che le cose ferme, qualora sembrino in movimento, siano il segno premonitore di un terremoto o di una qualche sconfitta improvvisa, e che il veder doppia la fiamma di una lucerna sia presagio di discordie civili e di sedizioni.
>LIX 121> E ancora, dalle visioni dei pazzi o degli ubriachi si potrebbero, con l'arte congetturale, dedurre innumerevoli cose che dovrebbero accadere in futuro. Chi, in effetti, tirando l'arco per una giornata intera, non finirà col far centro una buona volta? Noi sogniamo per notti intere, e non c'è quasi nessuna notte nella quale non dormiamo; e ci meravigliamo che una volta o l'altra ciò che abbiamo sognato si avveri? Che c'è di tanto incerto quanto un colpo di dadi? Eppure non c'è nessuno che, lanciandoli più volte, ottenga una volta il 'colpo di Venere', talora anche due, anche tre volte. Diremo allora, come gli sciocchi, che ciò avviene per un intervento di Venere, non per caso? E se nelle altre ore del giorno non bisogna credere alle visioni false, non vedo quale condizione privilegiata abbia il sonno, tale che in esso le cose valgano per vere. >122> E se la natura avesse predisposto le cose in modo che i dormienti dovessero fare ciò che sognano, bisognerebbe legare tutti quelli che vanno a dormire: ché durante il sogno si abbandonerebbero ad atti più inconsulti di quelli di qualsiasi pazzo. Se, d'altra parte, non dobbiamo prestar fede alle visioni dei pazzi perché sono false, non capisco perché si creda alle visioni di quelli che sognano, le quali sono molto più confuse; forse perché i pazzi non narrano le loro visioni all'interprete, mentre le narrano quelli che han fatto un sogno?
Domando anche: se io voglio scrivere o leggere qualcosa, o cantare o sonare la cetra, o risolvere un problema di geometria, di fisica, di dialettica, dovrò aspettare l'ispirazione dàtami da un sogno, o sarà meglio che usi le mie cognizioni, senza le quali non si può fare né portare a soluzione nessuna di quelle attività? E ancora: nemmeno se volessi navigare, reggerei il timone basandomi su precetti ricevuti in sogno; ché ne pagherei sùbito un duro prezzo! >123> Come, dunque, è plausibile che gli ammalati chiedano la cura all'interprete di sogni anziché al medico? Forse Esculapio, forse Serapide ci può prescrivere durante il sonno la cura per recuperare la salute, e invece Nettuno non può dare egli stesso i precetti ai naviganti? E se Minerva prescriverà la medicina senza bisogno del medico, le Muse non daranno in sogno la capacità di scrivere, di leggere, di esercitare tutte le altre arti? Ma se ci venisse concessa in questo modo la facoltà di curarci la salute, ci verrebbero concesse anche le altre doti a cui ho accennato; e siccome quelle non ci sono concesse, non ci è concessa l'arte medica; esclusa la quale, risulta confutata ogni autorità dei sogni.
>LX 124> Ma ammettiamo che anche queste siano osservazioni superficiali; scaviamo ora più a fondo. O un potere divino che si prende cura di noi ci dà direttamente i precetti per mezzo dei sogni, o gli interpreti, basandosi su una coerenza e concordanza della natura, che chiamano #sympátheia, #comprendono che cosa, nei sogni, corrisponda a un determinato evento e quale ulteriore risultato consegua da ciascun evento; o nessuna di queste due cose è vera, e tutto si fonda su un'osservazione lunga e costante di ciò che suole avvenire come conseguenza di una visione avvenuta durante il sonno. In primo luogo, dunque, bisogna comprendere che non esiste alcuna forza divina produttrice dei sogni. E questo, in effetti, è evidente: che nessuna visione apparsa nel sonno proviene dalla volontà degli dèi. Per il nostro bene, infatti, gli dèi farebbero sì che noi potessimo prevedere il futuro. >125> Ma quanti sono quelli che davvero obbediscono ai sogni, li comprendono, li ricordano? Quanto più numerosi, invece, quelli che li disprezzano e li considerano una superstizione degna di un animo debole, da vecchierelle? Quale motivo c'è, dunque, per cui la divinità, premurosa verso tutti costoro, li avverta mediante sogni, mentre essi non ritengono quei sogni meritevoli non dico di attenzione, ma nemmeno di ricordo? Ché da un lato la divinità non può ignorare come la pensa ciascuno di noi, dall'altro non è degno della divinità fare qualcosa inutilmente e senza motivo; perfino gli uomini che agissero così si mostrerebbero poco seri! Perciò, se la maggior parte dei sogni sono ignorati o trascurati, una delle due: o la divinità non sa che le cose stanno così, o ricorre senza frutto agli avvertimenti dei sogni; ma né l'una né l'altra cosa si addice alla divinità; bisogna quindi riconoscere che la divinità non ci dà alcun segno premonitore mediante i sogni.
>LXI 126> Un'altra cosa vorrei sapere: se la divinità ci manda queste visioni per il nostro bene, perché non ce le manda mentre siamo svegli, non mentre dormiamo. O che un impulso esterno ed estraneo ecciti le anime dei dormienti, o che le anime si eccitino da sé, o che vi sia qualunque altra causa che ci dia l'impressione di vedere, udire, fare qualcosa durante il sonno, la medesima causa poteva valere riguardo a noi durante la veglia; e se gli dèi facessero ciò per il nostro bene mentre dormiamo, farebbero altrettanto mentre siamo svegli, tanto più in quanto Crisippo, polemizzando contro gli accademici, dice che sono molto più chiare e sicure le cose da noi viste in stato di veglia che quelle che ci appaiono in sogno. Sarebbe stato quindi più degno della bontà divina - se davvero gli dèi intendessero con questo mezzo curarsi di noi - inviare visioni più chiare a chi è sveglio, non più oscure a chi dorme. Ma siccome ciò non accade, i sogni non sono da considerare di origine divina. >127> E insomma, che bisogno ci sarebbe di tortuosità e di raggiri, tali da costringerci a ricorrere agli interpreti dei sogni? La divinità, se voleva davvero giovarci, non poteva dirci senza intermediari 'Fa' questo, non fare quest'altro', e apparirci mentre eravamo svegli, non mentre dormivamo?
>LXII> Del resto, chi oserebbe dire che tutti i sogni sono veri? 'Alcuni sogni sono veri,' dice Ennio, 'ma tutti veri non è necessario che siano.' Ma che distinzione è mai questa? Quali sogni dovremo annoverare fra i veri, quali fra i falsi? E se i veri sono inviati dalla divinità, i falsi donde nascono? Se anch'essi sono divini, che cosa c'è di più incoerente della divinità? E che cosa di più sciocco che turbare le menti dei mortali con visioni false e menzognere? Se poi le visioni vere sono divine, le false e inconsistenti umane, che cos'è codesta arbitraria facoltà di attribuzione, tale che un sogno sarebbe prodotto dalla divinità, un altro dalla natura, e non piuttosto o tutti dalla divinità (ma voi dite di no), o tutti dalla natura? Dal momento che negate la prima alternativa, è necessario ammettere la seconda. >128> Chiamo natura quella condizione per cui l'anima, non mai ferma, non può essere esente da agitazione e da moto. Quando, per la stanchezza del corpo, l'anima non può fare uso né delle membra né dei sensi, incorre in visioni varie e confuse, derivanti, come dice Aristotele, dalla persistenza delle tracce di ciò che ha fatto o ha pensato durante la veglia. Dal mescolarsi incoerente di questi ricordi sorgono talvolta stranissime immagini di sogni; se alcuni di questi sogni sono falsi, altri veri, sarei davvero curioso di sapere con quale criterio si possano discernere gli uni dagli altri. Se un tale criterio non c'è, a che pro andiamo a consultare quegli interpreti? Se invece ce n'è uno, bramerei di sapere qual è; ma rimarranno in imbarazzo.
>LXIII 129> È venuto ormai il momento di discutere quale di queste alternative sia più probabile: che gli dèi immortali, superiori a qualsiasi altro essere, scorrazzino e vadano a visitare non solo i letti ma anche i miseri giacigli di tutti i mortali, dovunque essi si trovino, e, ogni qual volta vedono uno che russa, gli ispirino delle visioni confuse e oscure, che quel tale, svegliatosi in preda al terrore, la mattina dopo riferisca all'interprete, oppure che per un fenomeno naturale l'anima, continuamente mossa, abbia l'impressione di vedere mentre dorme ciò che ha visto da sveglia. Che cosa si addice di più alla filosofia, interpretare questi fatti ricorrendo alla superstizione delle fattucchiere o alla spiegazione secondo la natura? Sicché, se pur potesse esistere una verace interpretazione dei sogni, costoro, che la professano, non sarebbero capaci di compierla: sono infatti gente del tutto priva di serietà e ignorantissima. I tuoi stoici, d'altra parte, dicono che nessuno, tranne il sapiente, può essere indovino. >130> Crisippo definisce la divinazione con queste parole: 'Una facoltà di conoscere, ravvisare e spiegare i segni che vengono mostrati dagli dèi agli uomini'; e aggiunge che il còmpito della divinazione è di sapere in precedenza quali predisposizioni abbiano gli dèi verso gli uomini, di che cosa li avvisino con quei segni, in che modo si possa ovviare ai cattivi presagi ed espiarli. Ancora Crisippo definisce così l'interpretazione dei sogni: una capacità di scorgere e di spiegare che cosa gli dèi intendono presagire agli uomini nei sogni. E che, dunque? Per raggiungere un simile scopo basta un'intelligenza mediocre o ci vuole un ingegno eccezionale e un sapere perfetto? Ma un interprete fornito di tali doti non l'ho conosciuto mai.
>LXIV 131> Attento, dunque: anche se un giorno ti avrò concesso che la divinazione esiste - ma non lo farò mai -, rischieremo di non trovare nessun vero indovino. Di che sorta è, poi, codesta provvidenza degli dèi, dal momento che nei sogni non ci indicano né cose che siamo capaci di comprendere da noi, né cose per le quali possiamo ricorrere a un interprete degno di fede? Se gli dèi ci mettono innanzi dei segni dei quali non abbiamo né conoscenza né qualcuno che ce li spieghi, si comportano come cartaginesi o spagnoli i quali venissero a parlare nel nostro senato senza interprete. >132> E insomma, a che servono le oscurità e gli enigmi dei sogni? Gli dèì avrebbero dovuto volere che noi comprendessimo ciò di cui ci preavvisavano per il nostro bene. 'Ma,' tu dirai, 'forse nessun poeta, nessun filosofo della Natura è oscuro?' >133> Certo, quel famoso Euforione è oscuro anche troppo; ma non lo è Omero: quale dei due è miglior poeta? È estremamente oscuro Eraclìto, non lo è per nulla Democrito: si può fare tra loro un paragone? Per il mio bene mi dai un avvertimento che io non sono in grado di capire: con che frutto, dunque, mi avverti? Sarebbe come se un medico prescrivesse a un malato di prender come cibo 'la nata dalla terra, strisciante sull'erba, portatrice della propria casa, priva di sangue' invece di dire, come diciamo tutti, 'lumaca'. E dopo che l'Anfione della tragedia di Pacuvio ha detto in modo assai oscuro: 'Una bestia quadrupede, dal cammino lento, selvatica, bassa di statura, ruvida, dalla testa corta, dal collo simile a quello d'un serpente, dall'aspetto truce, privata delle viscere, inanimata eppure capace di emettere un suono come un essere animato,' gli attici replicano: 'Non comprendiamo, se non lo dici apertamente.' E quegli, allora, con una sola parola: 'una tartaruga.' Non avresti dunque potuto, o citaredo, dire ciò fin dal principio?
>LXV 134> Un tale riferisce all'interprete di aver sognato che un uovo era appeso a una fascia del suo letto (il sogno è narrato da Crisippo nel suo libro). L'interprete risponde che sotto il letto è seppellito un tesoro. Quello scava, trova una certa quantità d'oro, circondata d'argento. Manda come compenso all'interprete un pochino di argento, non più di quanto gli sembrava bastante. Allora l'interprete: 'E del tuorlo dell'uovo non mi dài niente?'; poiché riteneva che questa parte dell'uovo designasse l'oro, il resto l'argento. Nessun altro, dunque, sognò mai un uovo? Perché, allora, soltanto questo tale trovò un tesoro? Quanti poveri, meritevoli d'un aiuto degli dèi, non sono indotti da alcun sogno a trovare un tesoro! E per qual motivo quel tale fu messo sull'avviso da un sogno così difficile, in modo che dall'immagine dell'uovo sorgesse per analogia l'idea del tesoro, e non gli si consigliò apertamente di cercare un tesoro, come apertamente Simonide fu ammonito a non imbarcarsi? >135> I sogni oscuri, dunque, non si addicono affatto alla maestà degli dèi.
>LXVI> Eccoci ai sogni chiari e palesi, come quello riguardante l'amico ucciso dall'oste a Megara, come quello toccato a Simonide, il quale fu sconsigliato di imbarcarsi da quel tale che egli aveva seppellito, come anche quello concernente Alessandro, che mi meraviglio tu abbia omesso. Un suo amico intimo, Tolomeo, era stato colpito in battaglia da una freccia avvelenata e a causa di quella ferita, con sommo dolore di Alessandro, stava morendo. Mentre gli sedeva accanto, a un certo momento Alessandro fu vinto dal sopore. Allora, si narra, gli apparve in sogno quel serpente che sua madre Olimpiade teneva con sé: esso recava in bocca una piccola radice, e nello stesso tempo disse ad Alessandro in quale luogo nasceva (era non molto distante da dove si trovavano allora); tale era il potere di quella radice, da guarire facilmente Tolomeo. Alessandro, svegliatosi, narrò agli amici il sogno; furono mandati in giro degli uomini a cercare la radice; fu trovata, e si dice che da essa furono guariti sia Tolomeo, sia molti soldati che erano stati feriti da frecce intinte in quel medesimo veleno. >136> Tu hai menzionato anche molti altri sogni tratti da narrazioni storiche: della madre di Falaride, di Ciro il vecchio, della madre di Dionisio, del cartaginese Amilcare, di Annibale, di Publio Decio; notissimo è inoltre quel sogno riguardante il prèsule, e così pure quello di Gaio Gracco e l'altro, recente, di Cecilia figlia di Metello Balearico. Ma questi sogni sono estranei a noi e perciò ci rimangono ignoti; alcuni forse sono anche inventati: chi ne è il garante? Quanto ai nostri sogni, che cosa possiamo dire? Tu puoi menzionare quello riguardante me e il mio cavallo che vedesti riemergere e venire a riva, io quello di Mario, che, coi fasci ornati d'alloro, ordinava che io fossi condotto nel tempio da lui edificato.
>LXVII> Di tutti i sogni, caro Quinto, una sola è la causa; e noi, per gli dèi immortali, stiamo attenti a non oscurarla con la nostra superstizione e con le nostre idee distorte. >137> Quale Mario tu pensi che io abbia visto in sogno? Una sua sembianza, credo, una sua immagine, come ritiene Democrito. Donde sarebbe provenuta codesta immagine? Democrito sostiene che dai corpi solidi e da oggetti ben delimitati si emanano le immagini; a che cosa si era, dunque, ridotto ormai il corpo di Mario? 'L'immagine,' replicherà un democriteo, 'provenne da quello che era stato il corpo di Mario.' Era dunque codesta l'immagine di Mario che mi si fece incontro nella pianura di Atina? 'Tutto lo spazio è pieno d'immagini: nessuna percezione è concepibile senza che qualche immagine colpisca la nostra vista.' >138> Ma, dunque, codeste immagini sono talmente obbedienti ai nostri ordini da accorrere appena noi lo vogliamo? Anche le immagini di quelle cose che non esistono? Ma quale figura c'è, tanto giammai veduta, tanto inesistente, che l'anima non possa costruirsi con la fantasia, di modo che noi possiamo rappresentarci dentro di noi cose che non abbiamo mai visto, città collocate in una data posizione, sembianze di uomini? >139> Quando, dunque, penso alle mura di Babilonia o al volto di Omero, è forse una loro immagine che viene a colpirmi? In tal caso, tutto ciò che vogliamo può esserci noto, poiché non c'è niente a cui non possiamo pensare; nessuna immagine, dunque, s'insinua dal di fuori nelle anime dei dormienti, né, in generale, si distacca dai corpi solidi; e io non ho avuto notizia di alcuno che con maggiore autorità dicesse cose senza senso. Alle anime appartiene il potere e la caratteristica di essere sempre attive e vigilanti, non per un impulso esterno, ma per il proprio movimento straordinariamente veloce. Quando le anime hanno al loro servizio le membra, il corpo, i sensi, vedono, pensano, percepiscono tutto con più nitidezza. Quando questi ausilii vengono meno e l'anima rimane sola per il sopore del corpo, rimane da sola in stato di attività. Perciò in essa si presentano visioni e azioni, e all'anima sembra di ascoltare molte cose, di dirne molte. >140> Queste numerose impressioni, confuse e modificate in ogni maniera, si agitano nell'anima indebolita e abbandonata a se stessa; e quelli che soprattutto si muovono e agiscono nelle anime sono i resti di ciò che abbiamo pensato o fatto quando eravamo svegli. Per esempio, in quell'epoca io pensavo molto a Mario, ricordando con quale grandezza d'animo, con quale fermezza aveva affrontato la sua grave sventura. Questa, credo, fu la ragione per cui io lo sognai.
>LXVIII> In un periodo, poi, in cui tu pensavi a me con preoccupazione, ti apparii in un sogno, improvvisamente emerso da un fiume. Nell'anima tua come nella mia, dunque, c'erano tracce di pensieri che avevamo avuto da svegli. Ma nei nostri sogni si aggiunse qualcosa in più: nel mio sogno il tempio fatto edificare da Mario, nel tuo il fatto che il cavallo sul quale io viaggiavo, sommerso insieme a me, riemerse anch'esso all'improvviso. >141> O tu credi che ci sarebbe mai stata anche una sola vecchierella tanto svanita di mente da credere ai sogni, se non capitasse qualche volta che essi, per puro caso, corrispondessero alla realtà? Ad Alessandro sembrò che un serpente parlasse. La cosa può essere completamente falsa, può essere anche vera; ma, anche ammesso che sia vera, non è prodigiosa: Alessandro non sentì parlare il serpente, ma gli parve di sentirlo; e, perché il fatto sembri ancor più straordinario, parlò tenendo in bocca una radice; ma nulla è straordinario per chi sogna! Vorrei sapere, poi, perché ad Alessandro capitò un sogno così chiaro, così sicuro, ma egli stesso non ne ebbe mai in altre circostanze, e non ne ebbero molti di questa sorta le altre persone. A me, certo, tranne quel sogno di Mario, non ne sono capitati altri, che io ricordi. Invano, dunque, ho consumato tante notti, in una vita così lunga! >142> Adesso, per l'interruzione dell'attività forense, ho eliminato le veglie trascorse nel preparare i discorsi e mi sono concesso dei sonnellini pomeridiani, ai quali prima non ero abituato; e, pur dormendo tanto, non sono stato preavvisato da alcun sogno, nonostante tutto quel che è accaduto; quando vedo i magistrati nel foro o il senato nella Curia, allora sì, mi sembra di sognare come non mai.
>LXIX> Inoltre (passiamo, secondo la nostra ripartizione, al secondo punto) che cos'è questa compattezza e concordia generale della natura, che, come ho detto, chiamano #sympátheia, #tale che un uovo debba essere il segno di un tesoro nascosto? I medici comprendono, in base a certi sintomi, l'approssimarsi e l'aggravarsi di una malattia; dicono anche che alcuni tipi di sogni possono fornire certe indicazioni sullo stato di salute, per esempio anche questa, se siamo ben pasciuti o denutriti. Ma un tesoro, un'eredità, un conseguimento d'una carica, una vittoria in battaglia, e molte altre cose di questo genere, da quale affinità naturale sono collegate ai sogni? >143> Si narra che un tale, mentre sognava di congiungersi sessualmente con una donna, emise dei calcoli dalla vescica. Qui vedo la #sympátheia: #in sogno gli apparve una visione tale che l'evento realmente accaduto fu prodotto da un impulso della natura, non da un'illusione erronea. Ma quale forza naturale fece apparire a Simonide quel sogno dal quale fu sconsigliato di imbarcarsi? O quale connessione con la natura può aver avuto il sogno che, a quanto si tramanda, fece Alcibiade? Egli, poco prima di morire, sognò di essere ravvolto nel mantello della sua amante. Quando il suo cadavere giacque buttato a terra con spregio, insepolto e abbandonato da tutti, l'amante lo ricoprì col suo mantello. Ciò dunque era stato determinato in precedenza e aveva cause naturali, oppure per un mero caso avvennero sia il sogno, sia l'evento?
>LXX 144> Del resto, le previsioni degli interpreti non indicano anch'esse le varie sottigliezze di costoro anziché il potere e l'interconnessione della natura? Un corridore che si riprometteva di andare alle Olimpiadi sognò di esser trasportato da una quadriga. La mattina dopo, eccolo dall'interprete. 'Vincerai,' gli disse costui; 'la velocità e l'impeto dei cavalli hanno questo significato.' Poi si recò da Antifonte. 'È destinato' gli rispose 'che tu perda; non capisci che nel sogno quattro corridori ti precedevano?' Ecco un altro corridore (e di questi sogni e di altri della stessa specie è pieno il libro di Crisippo, pieno quello di Antipatro; ma ritorniamo al nostro corridore): riferì a un interprete che aveva sognato di essere trasformato in un'aquila. E quello: 'Hai bell'e vinto; ché nessun uccello vola con più impeto di questo.' Ma Antifonte: 'Stupido! Non capisci che sei già sconfitto? Quest'uccello, l'aquila, poiché insegue e dà la caccia agli altri uccelli, vola sempre per ultima rispetto a loro.' >145> Una matrona che desiderava aver figli, incerta se fosse o no incinta, sognò di aver la natura sigillata. Lo disse a un interprete. Quello rispose che, poiché era sigillata, non aveva potuto concepire. Ma un altro le disse che era incinta, perché non si usa sigillare alcun recipiente vuoto. Che razza d'arte è questa, dell'interprete che con le sue sottigliezze si fa beffe della gente? Gli esempi che ho citato, e gli innumerevoli altri che gli stoici hanno raccolto, dimostrano forse qualche altra cosa se non l'acume di uomini che, in base a una certa analogia, rivolgono la loro interpretazione ora in un senso, ora in un altro? I medici conoscono certi sintomi tratti dalle pulsazioni delle vene e dal respiro del malato, e in base a molti altri indizi prevedono l'andamento della malattia; i navigatori, quando vedono i tòtani guizzare a fior d'acqua o i delfini affrettarsi verso il porto, capiscono che è indizio di burrasca. Questi fatti possono essere spiegati razionalmente ed essere ricondotti a cause naturali; ma quelli che ho citato poco fa non lo possono in alcun modo.
>LXXI 146> 'Ma l'assidua osservazione, con la registrazione dei fatti, creò l'arte divinatoria': questa è l'ultima difesa che resta. da prendere in esame. Ma lo credi davvero? 'I sogni si possono osservare.' In che modo? Ve ne sono innumerevoli varietà. Non si può immaginare niente di così assurdo, incoerente, mostruoso che non possa apparirci in sogno: in che modo queste visioni infinite e sempre nuove si possono ricordare o registrare mediante l'osservazione? Gli astronomi hanno potuto notare i movimenti dei pianeti: nei loro movimenti, infatti, si è scoperta una regolarità di cui prima non si aveva alcuna idea. Ma dimmi un po' quale è l'ordine o la coincidenza dei sogni; in che modo, poi, si possono distinguere i sogni veri dai falsi, poiché gli stessi sogni dànno luogo a risultati diversi per le diverse persone, e nemmeno per la stessa persona l'evento è sempre uguale? Sicché mi sembra stranissimo che, mentre a un bugiardo siamo soliti non credere nemmeno quando dice la verità, codesti fautori dei sogni, se una volta tanto un sogno si è avverato, non neghino fede a quell'unico fra tanti, invece di legittimarne innumerevoli sul fondamento di uno solo.
>147> Se, dunque, né la divinità è causa dei sogni, né vi è alcuna connessione fra la natura e i sogni, né la scienza dei sogni si è potuta stabilire mediante l'osservazione, la conclusione è che ai sogni non si deve attribuire assolutamente alcun valore, tanto più che quelli che fanno sogni non sanno prevedere nulla in base a essi, quelli che li interpretano ricorrono a spiegazioni vaghe, non a leggi naturali, e il caso, nel volgere di innumerevoli secoli, ha prodotto in ogni campo più effetti mirabili che nelle visioni dei sogni, e niente è più incerto dell'interpretazione, la quale si può trascinare in varie direzioni, spesso in direzioni addirittura opposte.
>LXXII 148> Si cacci via,
«Per me,» rispose Quinto, «nulla può essere più piacevole.» E, detto ciò, ci alzammo.
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