RECITARE: GIOCARE CON LE MASCHERE
Se traducessimo in italiano il termine tedesco
"spielen" e il termine inglese "play" ci troveremmo di fronte a due risultati
apparentemente diversi; entrambi infatti significano sia giocare, sia recitare.
Ciò non è per niente strano. Infatti recitare, non equivale forse a giocare?
Recitare vuol dire interpretare un altro ruolo,
una parte, ci si immedesima in questa, ci si maschera,, abbandonando la
dimensione reale, per entrare in un mondo fantastico dove tutto cambia e la
concezione delle cose è completamente diversa. Lo stesso vale quando giochiamo.
Spesso, proprio per il fatto che il gioco o l'atto del recitare ci trasportano
inconsapevolmente in un mondo parallelo,
non ci rendiamo conto che non siamo più noi stessi, e che stiamo solo
fingendo. Ciò non è del tutto sbagliato, anzi; il gioco, fondandosi sul meccanismo
della finzione, spinge la comunicazione in uno spazio altro, diverso dal reale
perché fantastico, apparentemente lontano ma legato a chi è partecipe della
finzione stessa.
Nello spazio del teatro si può dunque
raccontare se stessi fingendo di parlare di altri; si può giocare con i propri vissuti,
anche i più drammatici, essendo sostenuti dalla forza del 'far finta di'. La
cosa sorprendente è che si riesce a fare
tutto ciò, pur seguendo delle regole ben precise, dettate da un copione, che è
impossibile non seguire.
L'anno scorso, ho avuto la fortuna di recitare
nel musical "Anastasia", progettato e realizzato con un gruppo di amici. Tutti
noi abbiamo vissuto questa esperienza come un gioco, era piacevole andare alle
prove perché, per almeno due ore al giorno, abbandonavamo la vita reale per
proiettarci magicamente nel 1918. Ognuno di noi
interpretava un personaggio, fingevamo certo, ma nessuno poteva permettersi di
non seguire le regole stabilite dal regista e soprattutto c'era il copione da
rispettare.
Se il recitare ci è sembrato un gioco, il tutto
si è svolto con la massima serietà. Giocare è infatti una delle attività più
serie e la recitazione trova molte analogie con il gioco. In entrambi, lo
spazio comunicativo tracciato dalla finzione si propone come un possibile luogo
di contatto tra "normalità" e "diversità", di scoperta e valorizzazione di sé e
dell'altro, uno spazio di frequentazione e di gioco dove si può provare anche a
riscoprire i valori del passato.
Fin
dall'antichità sembra che il teatro fosse fondamentale per definire i rapporti
sociali attraverso la forma della festa e della finzione ludica. Tutto ciò
serviva anche ad incrementare l'aspirazione umana di rendere effettivo il
rapporto con le divinità. Mille anni prima della nascita della tragedia greca,
il teatro era praticato nell'antico Egitto, sotto forma del culto dei "Misteri
di Osiride". Dall'archeologia ritroviamo inoltre numerose testimonianze del
teatro della civiltà minoica
e dell' uso della danza per ammaliare, grazie
all'utilizzo di particolari vestiti e di qualche maschera. Questa ha avuto un
ruolo fondamentale nel teatro, è stata sempre considerata l'oggetto della finzione per eccellenza, un modo per celare la propria
identità, per coinvolgere lo spettatore e
dargli quella falsa sensazione di realtà e naturalezza. Si inizia con
l'indossare maschere sacre, per rappresentare una divinità; successivamente
queste perderanno importanza nelle corti rinascimentali,
dove le rappresentazioni (sacre e profane) tenderanno ad esprimere e
rappresentare le ragioni spirituali e politiche del potere. Sarà solo con la rivoluzione francese che il
teatro acquisterà quella forma mondana, simbolo della nascente borghesia.
Uno dei
più importanti artisti teatrali del '900 fu Pirandello. Egli definiva la vita
una grande "pupazzata", una "buffoneria", utilizzando proprio il linguaggio del
teatro. Il palcoscenico infatti è un mondo finto, su cui si muovono non uomini
vivi, ma personaggi, ossia "maschere".
Per Pirandello
il teatro è il luogo simbolo, è l'ambito delle falsità e delle apparenze
sociali. Più si ricerca la vita vera, più ci si ritrova in un mondo falso,
fatto di fantocci e per sopravvivere, l'unica soluzione è indossare una
maschera e iniziare a giocare.
Nell'opera
"Mal giocando" si ritrova la maschera come elemento di finzione. Con questo
Pirandello vuole testimoniare il dramma della persona che resta sempre nascosta
dallo schermo della finzione; quando però questo schermo viene oltrepassato,
l'individuo non trova altro che la follia. L'utilizzo della maschera, quindi,
per ingannare è considerato un inganno demoniaco e simbolo di ipocrisia.
E se
invece il teatro fosse realtà e non finzione? D'altronde anche il gioco è
spesso considerato come una attività seria. Sorgerebbe, dunque, spontanea una
domanda: chi sta giocando e chi fingendo? Noi, o gli attori sul palcoscenico?
Bertol
Brecht fu un innovatore in questo campo, perché utilizzò il teatro in modo
completamente diverso, eliminando la struttura Aristotelica, preferendo il
modello Epico. Il teatro avrebbe dovuto avere una funzione educativa, avrebbe
dovuto insegnare cosa era giusto e cosa invece sbagliato;
diventava insomma una scuola di apprendimento. L'attore avrebbe dovuto recitare
senza diventare il personaggio (sich einfühlen, aber nicht identifizieren;
immedesimarsi, ma non identificarsi),
doveva saper interloquire con lo spettatore; le luci non erano spente,
il cambio scena avveniva a sipario aperto e il teatro era una sorta di
laboratorio.
L'intento
di Brecht era, una volta proposte le proprie idee, portare lo spettatore a
riflettere sulla realtà umana per trovare poi una soluzione. Insomma, si può
dire che questa forma di gioco, che, sebbene seguendo precise regole, era
sempre stata considerata finzione, assumeva ora un ruolo nuovo, un ruolo
didattico.
E' un po'
quello che accade in alcuni film, che rappresentando ad esempio eventi storici
di grandissima importanza, vogliono indurre lo spettatore alla riflessione e al
dibattito con immagini il più possibile realistiche. Spesso erroneamente si
attribuisce al termine cinema lo stesso valore della parola teatro.
«Il cinematografo
non ha niente a che vedere col teatro. L'attore quando muore deve morire.
Basta! Deve sparire! Non deve lasciare quest'ombra, questa falsa vita».
Una delle
più evidenti differenze tra le due arti è che il cinema definisce l'attore
nella sua prestazione artistica, fissandola sulla pellicola. Nel teatro uno dei
punti principali del mestiere d'attore è la ricerca della perfezione, sapendo
di non poterla mai raggiungere. Così, mentre la pratica teatrale rivolge la sua
maggiore attenzione sul processo più che sul risultato, nel cinema quest'ultimo
è l'unico possibile elemento di valutazione. Entrambi però tentano di
rappresentare la realtà, seguono precise regole che, per il raggiungimento di
un buon risultato, non possono essere trasgredite; i temi trattati sono simili
e del teatro il cinema utilizza la tecnica delle inquadrature fisse, e del
teatro utilizza spesso anche i testi.
Uno dei
più bei film che tratta il gioco come strumento per sdrammatizzare una
situazione delicata e pericolosa, è "La vita è bella", di Roberto Benigni, realizzato nel 1997 e
vincitore del premio Oscar.
Quello
che mi ha stupito del film è la sua dolcezza, ma anche la sua capacità di far
emozionare e riflettere. L'idea di salvare il proprio figlio dalle regole
ferree dei campi di concentramento giocando con lui, è una denuncia forte, ma
anche originale.
Il tema
tragico della guerra viene trattato dal punto di vista dei bambini, che
rischiano di perdere, sotto le atrocità dei nazisti, la loro innocenza e il
loro diritto al gioco e alla felicità. Il padre, per convincere il bambino, si
improvvisa traduttore per spiegare le regole del gioco, anziché le leggi del
lager e costruisce per lui un altro mondo fatto di giochi, nascondini, premi.
Quando ho
visto questo film ricordo di essere stata colpita dalla genialità di Benigni, di
come sia riuscito a far credere ad un bambino di essere il protagonista di un
fantastico gioco e non di vivere un'atroce realtà. Lo stesso padre fino
all'ultimo ride e scherza perché il figlio, nonostante tutto, continui a
pensare che la vita sia bella e questo, è uno degli aspetti più toccanti. La parte più commovente è alla fine, quando
il bambino è felice, il cararmato è di fronte a lui e la sua innocenza lo porta a credere di essere veramente
il vincitore di questo strano gioco. L'equilibrio tra comicità e drammaticità è
perfetto, perché nello stesso tempo si ride e si piange.
La
storia, seppure trattata come un gioco, non viene affatto banalizzata anzi, le
battute e le risate del protagonista risaltano ancora di più la tristezza,
quasi a sembrare che egli cerchi ancora un motivo per sorridere, la forza per
andare avanti e amare la vita.
In questo
caso il gioco è il mezzo per trasgredire l'accettazione di dure regole, è
fondamentale per poter accettare una realtà capovolta.
Nell'ambito
letterario il trasgredire le regole
della sintassi non è sempre visto come un qualcosa di negativo, anzi, a volta è
stato l'elemento portante di alcune correnti artistico- letterarie quali futurismo, dadaismo,
surrealismo.